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Alcuni errori di Enzo Bianchi (e altri dei suoi detrattori)

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 28/01/19

Un lettore ci ha segnalato una conferenza del Priore di Bose tenutasi nella diocesi di Ivrea il 14 dicembre u.s., chiedendoci (fra l'altro): «Ma ha davvero detto che non esiste il diavolo?». E no, Bianchi non ha affermato una cosa simile, almeno in quel contesto, ma quella sera ha riproposto all'uditorio le tesi di un vecchio libro di Gustave Martelet che a suo tempo aveva già ottenuto le debite critiche. E l'uditorio non era preparato a fronteggiarle come sarebbe stato auspicabile. Dove lo zelo apostolico scade nell'imprudenza.

Il fondatore ed ex priore del monastero di Bose è sovente additato, perlomeno nella blogosfera, come una specie di eresiarca, e questo tanto più da parte dei media “cattolici” quanto più sovente egli viene considerato e celebrato dai media “laici”. In questo giocano senz’altro la loro parte un’umanissima invidia e una legittima preoccupazione per il non riuscire a incidere come si vorrebbe (e come invece a lui riesce di fare) nell’affermazione di una “cultura cattolica”.

Sono ancora nell’aria, a tale proposito, le parole che Papa Francesco ha rivolto quattro giorni fa ai vescovi centroamericani:

Il risultato del lavoro pastorale, dell’evangelizzazione nella Chiesa e della missione non si basa sulla ricchezza dei mezzi e sulle risorse materiali, o sulla quantità di eventi o attività che realizziamo, ma sulla centralità della compassione: una delle grandi caratteristiche che come Chiesa possiamo offrire ai nostri fratelli. Mi preoccupa come la compassione abbia perso la sua centralità nella Chiesa. Anche i gruppi cattolici l’hanno persa – o la stanno perdendo, per non essere pessimisti. Anche nei mezzi di comunicazione cattolici, la compassione non c’è. C’è lo scisma, la condanna, la cattiveria, l’accanimento, la sopravvalutazione di sé, la denuncia dell’eresia… Che non si perda nella nostra Chiesa la compassione, e non si perda nel vescovo la centralità della compassione. La kénosis di Cristo è l’espressione massima della compassione del Padre. La Chiesa di Cristo è la Chiesa della compassione, e questo inizia a casa.

Lo scisma, la condanna, la cattiveria, l’accanimento, la sopravvalutazione di sé, la denuncia dell’eresia: si direbbe che il Santo Padre sia ben informato dello stato di salute della blogosfera cattolica, e dato che queste parole le ha pronunciate a Panama viene da pensare che non si tratti di problemi solo italiani (il che suona consolatorio anche se non lo è).

I crediti ecclesiali di Enzo Bianchi

Tornando a Enzo Bianchi, a sentirne parlare si matura talvolta l’impressione che si tratti di un esaltato che inspiegabilmente è giunto ad essere uno dei punti di riferimento della cultura cattolica in Italia, anche a livello ecclesiastico: avviare un’esperienza monastica come Bose e portarla avanti per mezzo secolo, invece, è cosa che richiede un ingegno, una determinazione e una costanza fuori dal comune. Basti ricordare che Benedetto XVI convocò personalmente Enzo Bianchi tra gli “esperti” per il Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio, nel 2008, anzi lo convocò pure all’assise sinodale del 2012, l’ultima convocata da Papa Ratzinger e dedicata alla nuova evangelizzazione e alla trasmissione della fede cristiana. Questo lo si ricordi giusto per ridimensionare le narrazioni complottistiche sui “poteri forti” che piloterebbero nomine e incarichi nella Chiesa Cattolica. Ci sono le lobbies, certo, ma ci sono anche i meriti: basta la sua storia personale a rendere Enzo Bianchi un interprete importante del periodo post-conciliare in Italia, e quindi un attore imprescindibile del dibattito sulla coscienza ecclesiale (anche a livello globale).




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Ciò detto, si deve pure riconoscere che talvolta è lo stesso Bianchi ad alimentare le dicotomie di cui vivono le suddette narrazioni manichee. Ad esempio – prendendo la parola venerdì 14 dicembre 2018 (appena “una quaresima fa”) nella chiesa della Madonna della Tenerezza a Banchette Borgonuovo (diocesi di Ivrea) – Bianchi ha detto:

Chi conosce anche l’attuale situazione di confronto non facile, nella Chiesa cattolica, tra tradizionalisti e quelli che cercano di respirare il rinnovamento teologico e spirituale del Vaticano II sa che su questo tema c’è un grande scontro. Uno dei rimproveri che viene fatto sovente alla Chiesa attuale, alla Chiesa di Papa Francesco, è quello di non riconoscere la dottrina del peccato originale. Ora, questo non è vero, ma è un tema – quello del peccato originale – […] che ha avuto effettivamente una interpretazione diversa: oggi il Magistero stesso della Chiesa non sostiene più il peccato originale come era stato capito nell’Occidente a causa di un’accentuazione della dottrina che ne fece sant’Agostino.

La persistenza di una narrazione “sessantottina” del postconcilio

Già dalla contrapposizione fra “tradizionalisti” e “quelli che cercano di respirare il rinnovamento teologico e spirituale del Vaticano II” veniamo proiettati in uno scenario così manicheo e così ideologicamente schierato che un film western non sarebbe molto diverso: non esiste poi “la Chiesa attuale, la Chiesa di Papa Francesco”, e difatti tutta la conferenza di Bianchi si svolse quella sera sulla falsariga di un famoso saggio di Gustave Martelet del 1986. Bianchi parlò quella sera di Martelet come di “un suo amico”: difficilmente quindi i presenti – in mancanza di conoscenze previe sull’autore – avrebbero potuto immaginare che Martelet sia morto (novantottenne) nel gennaio 2014. Del resto tutte le edizioni italiane del libro di Martelet (ritoccato nell’originale francese in cinque edizioni fino al 1997) sono state curate da Queriniana e non da Qiqajon (l’editrice dell’“amico di Martelet”)… Quali siano, infine, i documenti magisteriali in cui «non si sostiene più il peccato originale come era stato capito» finora… mi sfugge. Eppure dovrebbero esserci… visto che Bianchi parla di “Magistero”.




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Ma prima di vagliare ciò che Bianchi disse quella sera vorrei discutere di quanto ci è stato segnalato: oggi infatti ci stiamo occupando dei pensieri dell’ex Priore perché in Redazione abbiamo ricevuto la mail di un lettore che si è trovato ad essere un ascoltatore di quella conferenza, restandone un po’ spiazzato. Il lettore ci ha elencato alcuni dei punti che lo hanno lasciato perplesso, e che troviamo utile sintetizzare qui di seguito a beneficio comune:

  1. Interpretazione della Genesi – non è “la storia degli inizi”
  2. Non bisogna credere al demonio – il demonio è la tentazione delle tre libidines (amandi, possidendi e dominandi secondo Freud)
  3. Maschilismo nella Genesi
  4. Non si conosce la causa del peccato originale – la Bibbia non dà risposta
  5. Peccato originale o peccati originali?

Poiché ci addentriamo adesso in una materia delicata – che tuttavia è stata sottoposta all’attenzione dei fedeli in questa e altre occasioni – preciso in partenza che non sta certo a noi conferire in questa sede patenti di ortodossia o comminare scomuniche: la sola ambizione di questo scritto è di porre domande, come anche Bianchi al principio della conferenza aveva incoraggiato a fare.




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Anzitutto è fondamentale la questione del genere letterario dei primi capitoli della Genesi, come rileva il lettore. Bianchi ha detto:

Innanzitutto voi sapete che la Bibbia comincia con quei primi – conosciuti da tutti – undici capitoli, praticamente prima della chiamata di Abramo, dove c’è una storia, che venivano chiamati anche “preistoria dell’umanità” o “storia delle origini”. Ma in realtà noi oggi comprendiamo che quei capitoli non vogliono essere una storia, tantomeno una cronologia: sono dei capitoli che vogliono rispondere a delle domande che abitavano – e abitano ancora – in tutte le terre e in tutte le culture. Sono domande che uno si fa man mano che viene al mondo e che cerca una spiegazione.

Le precauzioni che Pio XII raccomandava

Le domande sono quelle sull’origine della morte e del dolore, e vedremo che questi sono pure i punti più critici delle idee di Bianchi. Frattanto, a proposito di quei primi undici capitoli e delle conferenze ospitate dalle diocesi, mi è tornato in mente il capitolo V dell’enciclica Humani generis di Pio XII, che dedicandosi proprio a questo argomento risultò determinante – con la Mystici corporis e con la Divino afflante Spiritu – nella preparazione del Vaticano II a cui Bianchi continuamente si richiama:

Come nelle scienze biologiche ed antropologiche, cosi pure in quelle storiche vi sono coloro che audacemente oltrepassano i limiti e le cautele stabilite dalla Chiesa. In modo particolare si deve deplorare un certo sistema di interpretazione troppo libera dei libri storici del Vecchio Testamento; i fautori di questo sistema, per difendere le loro idee, a torto si riferiscono alla Lettera che non molto tempo fa è stata inviata all’arcivescovo di Parigi dalla Pontificia Commissione per gli Studi Biblici (16 gennaio 1948; A. A. S., vol. XL, pp. 45-48).

Questa Lettera infatti fa notare che gli undici primi capitoli del Genesi, benché propriamente parlando non concordino con il metodo storico usato dai migliori autori greci e latini o dai competenti del nostro tempo, tuttavia appartengono al genere storico in un vero senso, che però deve essere maggiormente studiato e determinato dagli esegeti; i medesimi capitoli – fa ancora notare la Lettera – con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell’origine del genere umano e del popolo eletto.

Se qualche cosa gli antichi agiografi hanno preso da narrazioni popolari (il che può essere concesso), non bisogna mai dimenticare che hanno fatto questo con l’aiuto dell’ispirazione divina, che nella scelta e nella valutazione di quei documenti li ha premuniti da ogni errore. Quindi le narrazioni popolari inserite nelle Sacre Scritture non possono affatto essere poste sullo stesso piano delle mitologie o simili, le quali sono frutto più di un’accesa fantasia che di quell’amore alla verità e alla semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio Testamento, da dover affermare che i nostri agiografi son palesemente superiori agli antichi scrittori profani.

Veramente Noi sappiamo che la maggioranza dei dottori cattolici, dei cui studi raccolgono i frutti gli Atenei, i Seminari e i Collegi dei religiosi, sono lontani da quegli errori che apertamente o di nascosto oggi vengono divulgati, sia per smania di novità, sia anche per una non moderata intenzione di apostolato. Ma sappiamo anche che queste nuove opinioni possono far presa tra le persone imprudenti; quindi preferiamo porvi rimedio sugli inizi, piuttosto che somministrare la medicina quando la malattia è ormai invecchiata.

Per questo motivo, dopo matura riflessione e considerazione, per non venir meno al Nostro sacro dovere, ordiniamo ai Vescovi e ai Superiori Generali degli Ordini e Congregazioni religiose, onerata in maniera gravissima la loro coscienza, di curare con ogni diligenza che opinioni di tal genere non siano sostenute nelle scuole o nelle adunanze e conferenze, né con scritti di qualsiasi genere e nemmeno insegnate, in qualsivoglia maniera, ai chierici o ai fedeli.

La sintesi di un giovane teologo contemporaneo

E perché non si dica che qui ci rifacciamo soltanto al Magistero e mai alla teologia, soltanto a quello “vecchio” e mai a quello recente, offro ora in risposta al lettore le parole che Mattia Lusetti, mio amico e collega, ha scritto appena un anno fa per esporre il paradosso di Adamo ed Eva, che non furono personaggi storici ma che certamente esistettero:

“Storici no”

Posta la sensatezza e la legittimità di questa domanda, purché si tenga presente la posizione da cui è posta, resta da rispondere. Agli autori non si può più accedere direttamente, ovviamente: ci rimane il testo, per comprendere l’intenzione degli autori. Non pretendo naturalmente di poter fare questo lavoro da solo, né presumere di essere il primo, per cui raccoglierò ciò che si può dire sappiamo sull’argomento.

La prima evidenza da raccogliere è che i primi capitoli di Genesi (fino all’undicesimo come limite massimo) raccontano una serie di storie unite sì da un legame genealogico, ma con scarsissima pretesa di costituire un unità di cronaca nella quale personaggi e azioni siano privi di “buchi” (pensiamo alle città fondate da Caino una volta assassinato Abele). Molto più utile e non puramente negativo, è rilevare come i racconti, a dispetto di alcuni riferimenti geografici apparentemente circostanziati (i fiumi del giardino dell’Eden) lasci indeterminati luoghi e spazi riconoscibili almeno finché non si arriva ad Abramo (e al capitolo dodicesimo). Sinteticamente, dovendo «tener conto tra l’altro dei generi letterari», e quindi dovendo collocare in particolare i primi tre capitoli di Genesi, dobbiamo dire che lo stile letterario è quello del mito, il genere mitologico.

Simile conclusione consegue dal fatto che questi capitoli non riportano, per stile e caratteristiche, testimonianze di una tradizione che risale a qualche evento facente parte della storia di un popolo, se non al modo di richiami a tradizioni comuni anche al mondo circostante (pensiamo al diluvio, all’albero, al giardino). Ciò motiva la prima parte della risposta alla domanda “Adamo ed Eva sono personaggi storici?”: ebbene, storici no. “Dio non potrebbe rivelare in visione o in locuzione eventi ignoti ed inaccessibili?”, ecco l’obiezione. Certo che si, ma lasciando integre le «loro facoltà e capacità» (DV 11), e dove abbiamo testimonianza di visioni abbiamo l’esplicito richiamo di colui che vede nel testo (Ez 37, 1ss; Dn 10, 1-8; Ap 1, 9-11): se vogliamo andare alla lettera (pur senza essere letterali), la lettera dobbiamo leggerla. E quindi, Adamo ed Eva non sono personaggi storici.

“Esistiti sì”

Forse che questo è tutto? Dicendo che il genere è mitologico in genere si ottiene una condanna al Tribunale dell’Immediatezza per falsità: il mito è falso, dunque il racconto è falso. Il Tribunale dell’Immediatezza è spesso in errore, in questo caso poi è Tribunale che giudica per Superficialità. Il mito in genere veicola un tipo di verità ad un livello diverso dalla cronaca storica, non si tratta dunque di un falso: può esserlo al modo di chi, volendo dire il vero, sbaglia, non al modo di chi dice cose di cui non sa nulla (come il sottoscritto sulla battaglia di Qadesh). Nello specifico Genesi utilizza il linguaggio del mito per veicolare un tipo di verità che richiede sì forma narrativa, ma non una cronaca storiografica. Qualcuno (con cui faccio fatica a riconoscere il minimo debito, ma vi sono costretto: è Karl Rahner) ha chiamato i primi tre capitoli di Genesi un racconto eziologico, ovvero volto a svelare la causa di qualcosa che è connaturato all’uomo, in questo caso il male e il dramma che è la storia umana.

Questo è il livello in cui si colloca la comunicazione di verità che l’autore umano ha fatto propria e nel quale l’Autore per eccellenza ha depositato l’inesauribile verità contenuta nella Scrittura. E quindi, chi sono Adamo ed Eva veramente? I nomi, come acuti interpreti evidenziano, richiamano più dimensioni simboliche dell’essere umano, Adamo fatto di terra ed Eva come colei che dà la vita, di quanto siano nomi propri veri e propri. La narrazione che li vede protagonisti, dal secondo capitolo di Genesi in avanti, ci dà le dimensioni fondamentali in cui collocare l’essere umano di fronte ai suoi simili e soprattutto rispetto a Dio. Dio ha fatto buona ogni cosa, e molto buona la prima coppia di esseri umani, in cui sono contenuti tutti gli esseri umani attraverso l’espediente della genealogia. Essi rappresentano ogni essere umano nella forma in un certo senso più pura, ideale, di esseri appena usciti dalle mani del Creatore.

Con impazienza quindi ci chiediamo: sono esistiti? Non sono personaggi storici, rappresentano l’essere umano: esistono soltanto nel senso in cui si può dire che raccontano l’uomo, cosa molto buona, che prende in mano la sua libertà e quando lo fa cade, liberamente, ma con puntuale inesorabilità? In questo senso senz’altro esistono, ma non soltanto.

Due sono le fondamentali dimensioni della verità che Genesi ci trasmette. Prima la fontale, radicale, fondamentale bontà di tutto ciò che è creato in quanto creato e voluto tale, cioè buono e bello da Dio. Seconda la misteriosa presenza del male (il mysterium iniquitatis) nella creazione a partire dal primo giorno di vita dell’uomo, però come qualcosa di estraneo all’intenzione e al progetto di Dio. Giobbe e soprattutto la Crocifissione dimostrano che non era sufficiente questo racconto a convincercene, ma «l’ammirabile condiscendenza della eterna Sapienza» dovrà fare altri passi verso di noi, tuttavia Genesi ci presenta il male come estraneo al progetto di Dio. Il male si presenta attraverso una misteriosa creatura (il serpente), come opposizione al disegno di Dio, ma diventa effettivo soltanto quando l’uomo (maschio e femmina) con un identico, ma duplice atto di libertà personale lo pongono in essere.

Queste due dimensioni di verità sono irrinunciabili per il cristiano, sono essenziali alla Rivelazione. Partendo da esse possiamo giungere a comprendere la risposta iniziale (storici no, esistenti sì). Se è vero che Adamo ed Eva non sono personaggi storici, perché i testi della Scrittura non ci permettono di affermarlo (se rispettiamo gli autori umani come “veri autori”), tuttavia devono essere esistiti. Dicendo “devono” intendo che la necessità che siano esistiti Adamo ed Eva è teologica. Bisogna sgombrare il campo da equivoci: proprio per quanto detto sull’obiezione “visioni” (dell’autore sacro sul passato), non si tratta di recuperare per una via traversa quello che abbiamo lasciato per la via diretta della lettura del testo e dell’analisi del genere letterario. La necessità è teologica […].

Lo “schema” che Bianchi ammette esplicitamente e fin da subito di voler oltrepassare – quello dello stato edenico privo di morte e di peccato – non è affatto “semplicistico”, come ben illustra Lusetti: è un necessario postulato teologico, strettamente inerente alla rivelazione cristiana. E non è un argomento cogente l’affermare che gli ebrei leggono i medesimi capitoli con tutt’altra intenzione: il canone ebraico è più breve dello stesso Antico Testamento cristiano, si presenta con una disposizione interna differente e rispondente a un distinto scopo comunicativo – con degli orizzonti ermeneutici tanto distanti come ci si potrebbe stupire della distanza su singoli testi? Altro discorso sulle “tradizioni cristiane orientali”, che fra poco vedremo meglio.




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Enzo Bianchi, il diavolo e Freud

Del resto non è onesto attribuire a Bianchi ciò che Bianchi non dice: non mi pare, ad esempio, che si riscontri nelle sue dichiarazioni l’affermazione secondo cui il diavolo non esisterebbe. Egli dice invece, e più volte, che «al diavolo non si deve credere, se ne fa esperienza». E più volte invita i suoi ascoltatori a “guardarsi dentro” per vedere se davvero siano estranei alla presa della tentazione. Poi è vero che talvolta nelle sue frasi può sembrare che il diavolo coincida con “la forza della tentazione” invece di esserne l’agente, ma questo non basta in sé ad affermare che Bianchi neghi l’esistenza del diavolo. Piuttosto, si può magari contestare la scelta dell’espressione “credere al” diavolo, perché uno che ha in mano le categorie della teologia capisce benissimo che l’uso del dativo dopo il verbo “credere” si riferisce esclusivamente «a Dio che si rivela», e in tal senso è ovvio che al diavolo non si debba credere (anzi, pecchiamo proprio quando gli crediamo). Ma che il diavolo esista non solo lo si crede, ma lo stesso Bianchi sembra qui affermarlo.


FRESCO,SAN BRIZIO,DUOMO

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La questione delle “tre libidines”, invece, presenta un carattere più anodino: Bianchi dice più volte che questa è la terminologia di Freud e che oggi anche la Chiesa spiega così il peccato originale. Nei Tre saggi sulla teoria sessuale di Freud – che a quanto ne so sono l’opera in cui si esprime la teoria freudiana della libido – si parla di tre fasi infantili dello sviluppo della libido (orale, anale e genitale), le quali sono normalmente seguite da una fase di latenza e tornano poi nella pubertà come una nuova e definitiva fase genitale (che richiede di essere integrata olisticamente nella persona – aggiunge la rilettura personalistica): ma per quanto posso giudicare mai Freud ha scritto di queste “tre libidines”. In realtà non mi riesce di trovare alcun documento magisteriale in cui se ne parli. Di “libido amandi, libido possidendi e libido dominandi” leggiamo su molti siti e blog, nonché su La Stampa e perfino su Avvenire (nota bene: in questi contesti ci si guarda bene dal nominare Freud)… ma si tratta sempre e solo di testi che hanno Bianchi per autore o per letteratura di riferimento. Insomma, queste “tre libidines” non sono categorie freudiane più di quanto non siano categorie magisteriali: sono invece categorie di Enzo Bianchi, il che è perfettamente legittimo (anzi personalmente le trovo utili e feconde), ma pur potendo esse aspirare, in linea di principio, a influenzare il magistero della Chiesa… al momento non sembrano esserci riuscite.

La Genesi, il maschilismo e Giovanni Paolo II

Sul “maschilismo nella Genesi” mi pare che si faccia molto rumore per nulla: da un lato è fin troppo evidente che il Sitz im-Leben della Genesi sia connotato dall’istituto del patriarcato, dall’altro resta metodologicamente illecito ipotizzare “cosa ci sarebbe scritto se…” («con i se e con i ma…») mentre si corre fortemente il rischio di buttare con “l’acqua sporca” del contesto anche importanti dati che il testo vorrebbe forse comunicarci sulla differenza e sulla reciprocità fra uomo e donna. Giovanni Paolo II ha avviato un fecondo filone magisteriale che, pur affondando solidamente le radici nel portato scritturistico, si confronta con le categorie delle scienze umane del XX secolo e con le riletture personalistiche che rinnovavano la philosophia perennis: quel filone magisteriale – noto come “Teologia del corpo” – ha convertito, sostenuto, alimentato e perfezionato negli ultimi trent’anni innumerevoli vite. Difficile che Bianchi possa non tenerne conto.


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Le rimanenti due questioni – che s’intersecano a vicenda – trovano risposta da un lato nella comprensione di cosa sia il “mito eziologico” nella prospettiva rahneriana esposta sopra da Lusetti; dall’altro nella raffinatezza della dottrina cattolica elaborata nella fucina ipponense di Agostino (non uno che si possa snobbare alla leggera) e poi in quelle dei concili di Orange e di Trento. Bianchi dice infatti: «Non esiste un peccato originale, esistono molti peccati originali». E motiva l’affermazione col dire che dopo il peccato edenico ci fu l’omicidio di Caino, e dopo ancora molti e molti altri fino al diluvio universale; ma pure col dire che «nessuno di noi può ricordare il proprio primo peccato, perché il male è presente in noi fin da subito, ben prima che ce ne accorgiamo». Ottimo Bianchi: proprio per questo motivo la dottrina cattolica da Agostino in poi ha sempre distinto – molto meglio di quanto abbia fatto lui in questa conferenza – fra peccato originale originante e peccato originale originato, intendendo col primo la “colpa archetipica”, quella dei progenitori con i quali la natura umana tutta è decaduta; e col secondo l’inclinazione esistenziale al male con cui ciascun uomo viene al mondo.

Le critiche a Martelet sono buone anche per Bianchi

Poiché nella conferenza del 14 dicembre scorso l’ex Priore di Bose ha di fatto (ed esplicitamente) ricalcato la lezione di Gustave Martelet, salvo aggiungere qualche “ricamino” personale come le “tre libidines”, si possono efficacemente riproporre per lui le critiche puntuali che al gesuita francese mosse il confratello italiano Giovanni Marchesi, fine teologo dogmatico nonché redattore de La Civiltà Cattolica (morto nel giugno 2007).

Al di là dei suoi incontestabili pregi letterari, l’opera del p. Martelet testimonia un lodevolissimo intento apologetico teso non solo a trasmettere l’insegnamento della Chiesa, ma anche ad aiutare i cristiani disorientati e i non cristiani a comprendere e ad accettare un dogma che può sembrare uno “scandalo” per una mentalità scientifica. La sua “libera risposta” non è priva di interesse, di vigore, ma contiene affermazioni eccessive, che oltrepassano ciò che, nel quadro della dottrina definita, è permesso a una legittima ricerca di intelligibilità. In particolare, due punti appaiono carenti: il legame tra il peccato originale e la morte e la trasmissione del peccato di Adamo a tutti gli uomini.

Giovanni Marchesi, Gustave Martelet, Libera risposta ad uno scandalo, in La Civiltà Cattolica 3327 (1989), 196-199, 196

Come scriveva Pio XII ai suoi tempi e come afferma Marchesi di Martelet, anche Bianchi sarà certo guidato da zelo apostolico e da desiderio divulgativo: nondimeno il risultato viene pregiudicato (almeno) da queste due gravi mancanze, che difatti nella conferenza del 14 dicembre balzano all’occhio dell’ascoltatore non digiuno di teologia.

Non è sul diavolo, dunque, che Bianchi ha detto cose trasgressive rispetto alla fede cattolica, e Marchesi lo spiega bene:

In sé non è certamente erroneo mettere in discussione […] l’esistenza di un legame di causalità diretta tra il peccato originale e la morte empirica. Infatti è lecito pensare che la morte, intesa come il termine dello status viatoris, appartiene alla costituzione ontologica dell’uomo, così come egli fu creato all’inizio. Tuttavia il p. Martelet crede di poter identificare questa dimensione creaturale, propria dello status-viæ e di per sé indipendente dal peccato, con la morte fisica come essa viene sperimentata nella nostra condizione presente. In tal modo, non solo egli giunge a negare che questa morte sia una conseguenza del peccato originale […], ma va più lontano, fino ad assimilare praticamente la finitudine creaturale al male inerente al nostro destino attuale. Sottolineando in modo unilaterale «il male di finitudine» […], «la morte di finitudine e di dolore che sono naturali alla nostra condizione» […], o ancora la «miseria di dolore e di morte naturale nel grande senso innocente del termine» […], l’Autore dà così l’impressione che il Dio creatore ne sia responsabile, come se la creazione, nella sua origine, non fosse intrinsecamente buona e avesse bisogno, in quanto tale, di essere redenta da Cristo.

Ibid.

La nemesi del naturalismo… e il Concilio di Trento

Marchesi mosse poi a Martelet una critica armata coi ferri dell’esistenzialismo novecentesco di matrice heideggeriana: non si può distinguere morte biologica da morte spirituale come se la morte dell’uomo, anche in natura, non fosse già sempre un evento spirituale. È nota la tesi del filosofo di Freiburg per la quale l’uomo è l’unico animale capace di morire, e che anzi si comprende come un Essere-per-la-morte: in tal senso concepire una morte biologica così separata da quella spirituale da poter sussistere indipendentemente l’una dall’altra è cosa non solo impossibile al limite dell’impensabile, ma che riecheggia ironicamente la dottrina della “natura pura” che Bianchi tanto (giustamente) aborre quando si parla di fini dell’uomo. Marchesi prosegue richiamando la profondità del depositum fidei:

Quando la Scrittura afferma: «Dio non ha creato la morte», Egli «ha creato l’uomo per l’immortalità» (Sap 1, 13; 2, 23), essa intende l’evento della morte, così come l’uomo lo vive nella sua condizione presente. Questo insegnamento, ripreso dal Concilio di Cartagine e dal II Concilio di Orange, mostra il piano originario di Dio, che non ha voluto la morte così come essa tocca concretamente l’uomo d’oggi. Anche a livello fisico, questa morte – come sottolinea il Concilio di Trento […] – è legata al peccato originale. Ciò significa che l’uomo si trova soggetto a una forma di morte che originalmente non gli era destinata: al termine del suo pellegrinaggio terrestre egli muore non solo della morte dovuta alla finitudine, ma di una morte che deriva dal peccato (cf. Rom 5, 12) e che, nella misura in cui non è recuperata dalla grazia redentrice di Cristo, lo “priva” per sempre «della gloria di Dio» (cf. Rom 3, 23).

Per san Paolo questa morte è il sintomo primordiale della propagazione della colpa originale attraverso il genere umano. Sullo sfondo ultimo del “peccato del mondo”, c’è il «regno del peccato per la morte» (Rom 5, 21), il “peccato di Adamo”, in conseguenza del quale «tutti sono morti» (Rom 5, 15). Un tale principio adamitico originario responsabile della morte secondo il disegno di Dio creatore non avrebbe dovuto colpire l’uomo nello stesso modo in cui lo colpisce nell’umanità dopo Adamo.

Ivi, 197

Padre Marchesi non lo cita espressamente, ma il sostantivo “propagazione” che usa nel secondo di questi due paragrafi è precisamente quello che si usa nel terzo anatematismo del Decreto Tridentino sul Peccato Originale, ove si afferma appunto che “il peccato di Adamo” «è uno solo quanto alla sua origine e viene trasfuso a tutti per propagazione, non per imitazione, e a ciascuno inerisce come cosa propria» (DH 1513). È vero, sì, che nel quarto anatematismo si parla invece di “generazione”, e dunque sembra che si alluda più strettamente a una “discendenza genealogica”, ma sembra che la scelta di tale parola nel contesto sia da comprendersi alla luce della giustapposizione a “rigenerazione”.




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Piuttosto, è vero che la questione del traducianesimo – ossia di come possa il peccato dell’umanità primordiale trasmettersi agli altri uomini – appare compressa dalla scelta della traduzione latina che i Padri Tridentini adottarono per Rom 5, 12 (“ἐφ’ ᾧ πάντες ἥμαρτον” viene reso con “in quo omnes peccaverunt” invece che con “eo quod omnes peccaverunt”), ma anche considerando quel pronome maschile e non neutro l’immagine che ne risulta è simbolica, non biologica (certo non s’intende che nelle gonadi del protoplasto fossero presenti tutte le anime degli uomini fino alla fine del mondo!).

L’“immortalità preternaturale”

E qui viene la questione della tradizione orientale, a cui tanto volentieri e tanto spesso Bianchi si richiama: è vero, sì, che il diavolo è stato ed è indagato a Oriente più nelle sue operazioni sull’anima dell’uomo che nella sua identità personale (i dottori orientali sono spesso maestri spirituali, non pensatori metafisici); è vero pure che – per la medesima ragione – fin dai tempi dei Padri in Oriente si pensa più ai peccati attuali dei singoli uomini che a quelli “trascendentali” dei protoplasti (innegabilmente l’espressione “originale peccatum” è un conio occidentale); ma non è vero che in Oriente si prospettava ad Adamo una morte analoga a quella che vive l’umanità decaduta. Marchesi muoveva l’obiezione a Martelet:

A questo proposito l’Autore, che si appoggia preferibilmente sui Padri greci, avrebbe potuto ricordare l’idea di immortalità preternaturale, un’ipotesi che significa tutt’altra cosa che una vita empiricamente prolungata in æternum. In tutta la Tradizione, soprattutto greca, la morte dell’uomo, immagine e somiglianza di Dio, è presentata all’interno di una dialettica di scelta: se l’uomo non pecca, entrerà tutto intero nell’aphtarsia [cioè nell’incorruttibilità, N.d.R.]; se egli cade, sarà dominato da quest’ultima e non potrà entrare nella gloria se non attraverso la corruzione (exire de corpore, dice il Concilio di Cartagine […]).

Ibid.

Il gesuita italiano cercava di valorizzare il lavoro del confratello francese, e così vorremmo noi oggi – si parvos licet magnis comparare – con Enzo Bianchi:

Con piena ragione l’Autore si oppone a una concezione di Adamo come causa efficiente della corruzione di tutta l’umanità, se s’intende questa causalità in un senso per così dire scientista, come una sorta d’influsso fisico che procede dall’antecedente al conseguente. Ma l’espressione tridentina, di cui meglio avrebbe dovuto tener | conto, non afferma affatto ciò; al contrario è significativa proprio la sua riservatezza su questo punto. Non si può affermare – così dichiara esattamente il Concilio – che Adamo non abbia nociuto che a se stesso […]. Si tratta quindi, se si vuole, di una causa “deficiente”, che colpisce la natura e attraverso di essa si ripercuote sulla persona, secondo il vecchio adagio: Adamo corruppe la natura, la natura corrotta corrompe quindi la persona [trad. d.R.].

Ivi, 197-198

Ascoltando la registrazione della conferenza di Bianchi a Banchette Borgonuovo sembra di poter dire, con le parole di Marchesi su Martelet:

Nonostante alcune esplicite affermazioni che vanno nel senso dell’insegnamento della Chiesa, egli rischia, nelle spiegazioni offerte, di ridurre il peccato originale a un semplice dato culturale contingente, o ancora di limitare il legame tra il peccato originale originante e quello originato all’ordine di una mera esemplarità di tipo modale.

Ivi, 198

Illusione e disincanto dal Vaticano II in qua

Malgrado da questo mio scritto non possa sembrare, io devo molto al fondatore di Bose, foss’anche solo per alcuni titoli di Qiqajon. Quel che in generale trovo giovi poco alla sua credibilità è il continuo tentare di accreditarsi come l’interprete autentico dello “spirito del Concilio”, laddove non solo nello spirito ma anche nella lettera sembra talvolta discostarsene non poco. Quello stillicidio di “una volta si credeva… ma oggi invece ormai sappiamo”, inframmezzato di approssimazioni e imprecisioni (vuoi Freud, vuoi propagatio e la distinzione tra peccato originale originante e originato…) dice meno di uno spirito eversivo che di un cuore inquieto stretto dalla nostalgia di un’utopia – quella che tanti vissero nel primo post-concilio – di chi anche nella Chiesa voleva “al potere la fantasia”. Gli suggerirei di riascoltare il messaggio a braccio del suo amico Benedetto XVI nel cinquantesimo del “discorso alla Luna” di Giovanni XXIII:

[…] Eravamo felici, direi pieni di entusiasmo. Il grande Concilio ecumenico era inaugurato: eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera nella Chiesa, una nuova Pentecoste, una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo. Anche oggi siamo felici, portiamo la gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile: in questi cinquant’anni abbiamo imparato e esperito che il peccato originale esiste e si traduce sempre di nuovo in peccati personali, che possono divenire strutture di peccato, visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania, che nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi, abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volte abbiamo pensato “il Signore dorme e ci ha dimenticato”.

Questa è una parte delle esperienze fatte in questi cinquant’anni, ma abbiamo anche avuto una nuova esperienza della presenza del Signore, della Sua bontà, della Sua forza. Il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo non è un fuoco divoratore, distruttivo, è un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità, che trasforma dà luce e calore.

Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica, anche oggi, a Suo modo, umile. Il Signore è presente e dà calore ai cuori, mostra vita, crea carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio. Sì, Cristo vive, è con noi ed è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la Sua bontà non si spegne ed è forte anche oggi. […]

Ero anche io sotto la finestra di Benedetto XVI, quella sera, e personalmente avvertii nel fremito della sua voce il segno di una nostalgia simile a quella che sento in Bianchi (ma Ratzinger non credette mai ad alcuna utopia), il peso di un forte disincanto, perfino il dolore della tentazione di disperare. Eppure Pietro era lì, segnato dalla notte infruttuosa sulle onde, ma pur sempre lì davanti a noi.

Diavolo e peccato originale in Papa Francesco

In questi ultimi anni Pietro parla per bocca di Francesco, e anche da lui abbiamo ricevuto parole di conferma nella fede, anche riguardo al peccato originale:

Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto. Il loro rifiuto della benedizione di Dio approda fatalmente ad un delirio di onnipotenza che rovina ogni cosa. E’ ciò che chiamiamo “peccato originale”. E tutti veniamo al mondo nell’eredità di questa malattia.

[…]

La misericordiosa protezione di Dio nei confronti dell’uomo e della donna, in ogni caso, non viene mai meno per entrambi. Non dimentichiamo questo! Il linguaggio simbolico della Bibbia ci dice che prima di allontanarli dal giardino dell’Eden, Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì (cfr Gn 3, 21). Questo gesto di tenerezza significa che anche nelle dolorose conseguenze del nostro peccato, Dio non vuole che rimaniamo nudi e abbandonati al nostro destino di peccatori. Questa tenerezza divina, questa cura per noi, la vediamo incarnata in Gesù di Nazaret, figlio di Dio «nato da donna» (Gal 4,4). E sempre san Paolo dice ancora: «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Cristo, nato da donna, da una donna. È la carezza di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri sbagli, sui nostri peccati. Ma Dio ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è quella più forte che porta avanti questo progetto

Così diceva Francesco in Piazza San Pietro il 16 settembre 2015. E nella prima omelia di quest’anno a Santa Marta, commentando il passo biblico di Elkanà con le due mogli Anna e Penninà, il Papa non ha perso tempo a criticare l’istituto della poligamia e a ipotizzare una Bibbia segnata dalla poliandria (abbiamo una sola Bibbia: quella che abbiamo); neppure ha tergiversato sull’amore sincero e tenero di Elkanà per Anna, la quale pure non gli aveva dato figli. Francesco ha parlato invece delle parole cattive di Penninà – la realizzata e la potente – verso Anna – la sterile, la meschina –:

Aggredire e disprezzare la persona più debole, perché straniera o disabile, è una «traccia del peccato originale» e dell’«opera di Satana». […]

Io ricordo — questo succede anche tra i bambini — da bambino, avrò avuto sette anni: nel quartiere c’era una donna, sola, un po’ mattocca. E lei tutta la giornata camminava per il quartiere, salutava, diceva stupidaggini e nessuno capiva cosa dicesse, non faceva del male a nessuno. Le donne del quartiere le davano da mangiare, qualcuna anche qualche vestito. Viveva da sola. Girava tutta la giornata e poi andava nella sua stanza, viveva in una stanzina povera, lì.

Si chiamava Angiolina, e noi bambini la prendevamo in giro. Uno dei giochi che noi avevamo era: “andiamo a cercare la Angiolina per divertirci un po’”. Ancora, quando penso a questo, penso: «Ma quanta malvagità anche nei bambini! Prendersela con il più debole!». E oggi lo vediamo continuamente, nelle scuole, con il fenomeno del bullying: aggredire il debole, perché tu sei grasso o perché tu sei così o tu sei straniero o perché tu sei nero, per questo aggredire, aggredire. I bambini, i ragazzi… Questo significa che c’è qualcosa dentro di noi che ci porta a questo, all’aggressione del debole. Credo che sia una delle tracce del peccato originale, perché questo — aggredire il debole — è stato l’ufficio di Satana dall’inizio: lo ha fatto con Gesù e lo fa con noi, con le nostre debolezze. Noi lo facciamo con gli altri. Non c’è compassione in Satana: non c’è posto per la compassione. E quando si aggredisce il debole, manca compassione. Sempre c’è bisogno di sporcare l’altro, di aggredire l’altro, come faceva questa donna [Penninà, N.d.R.].

Si tratta di un’aggressione che viene da dentro e vorrebbe annientare l’altro perché è debole. Gli psicologi daranno spiegazioni buone, profonde — ha aggiunto — ma io soltanto dico: [lo fanno] anche i bambini; questa è una delle tracce del peccato originale, questa è opera di Satana. Come quando abbiamo un buon desiderio di fare un’opera buona, un’opera di carità, diciamo: “È lo Spirito Santo che mi ispira a fare questo”; quando noi ci accorgiamo che abbiamo dentro di noi questo desiderio di aggredire quello perché è debole, non dubitiamo: c’è il diavolo, lì. Perché questa è opera del diavolo, aggredire il debole.

Esiste il peccato originale, come insegna Pietro, ed esiste il diavolo non solo come tentazione, ma soprattutto come tentatore. A fratel Enzo lascio queste parole invitandolo a prendersi del tempo per rifletterci su: ripetere la tesi degli anni Ottanta di uno scrittore francese – tesi nata vecchia e già allora criticata nei suoi punti deboli – non è affatto un servizio alla Parola; ancor meno esprime quel “sentire cum ecclesia” che fino a ieri abbiamo ammirato nella mitria di Romero esposta alla GMG di Panama… È forse sostenere un’utopia, forse perseguire un progetto di apostolato, ma il Signore ci chiede anzitutto un’altra cosa, prima di andare a «rendere discepole tutte le nazioni». Diventare discepoli noi per primi. E imparare un po’ della compassione di Gesù per questa umanità, a cui il Vangelo andrebbe dato puro.

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