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Tumore al seno: è giusto provare rabbia quando ci colpisce la malattia?

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Paola Belletti - pubblicato il 24/01/19

Dipende da quanto e con chi. Ma negare la rabbia e trasformarla in recriminazione verso gli altri fa ancora più male...

Leggendo in redazione la rivista BenEssere, in edicola col nuovo numero di febbraio, mi sono soffermata su una pagina che tratta un tema ricorrente e poteva sembrare un “classico”. La diagnosi di tumore al seno per una donna.


MAMMA, ALLATTA, CASA

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Invece mi sono imbattuta in una riflessione davvero interessante ed onesta. Viene dato “asilo politico” ad un’emozione che spesso si nega o si cerca di camuffare, lasciandola invece a covare e a ribollire dentro di noi o deviandola, sotto forma di accuse e recriminazioni, nei confronti degli altri.

Una lettrice pone alla Dr.ssa Giovanna Gatti, senologa dell’Istituto europeo di Oncologia e Centri medici Santagostino (Milano) e scrittrice, la seguente domanda:

A mia sorella hanno diagnosticato un tumore al seno. Fortunatamente, è stato scoperto, grazie alla mammografia annuale, allo stadio iniziale, quindi anche a detta dei medici – pur non sottovalutando la gravità della situazione – il post intervento dovrebbe essere sereno. Tuttavia, nonostante queste rassicurazioni, mia sorella ha sviluppato una rabbia grandissima, che riversa contro tutti e tutto. È un atteggiamento normale, a suo parere? Laura F., Livorno (BenEssere)

Cosa diciamo spesso in buona fede? Ed è la cosa giusta da fare?

Ho provato, prima di leggere la risposta, a pensare onestamente a cosa avrei detto alla persona colpita, a cosa diciamo abitualmente. Non siamo portati, in buona fede, a valorizzare subito il positivo, a dire “non lamentarti, devi essere contenta pur nella difficoltà”? Non ci prende spesso una specie di ansia di risolvere e forse anche di allontanare dalle nostre spalle il peso netto del dolore, dello scoraggiamento, dello spavento che ci provoca la sofferenza soprattutto in chi ci è vicino?

E allora è tutto un rincorrersi di “forza, ce la farai”, “devi essere positiva”, “lo devi ai tuoi figli, a tuo marito” e via motivando. Tutte cose vere e spesso sacrosante, ma non subito e non solo quelle.

O forse è la persona colpita stessa che, come racconta la dottoressa, censura questi sentimenti, nega a sé stessa il diritto di sentirsi colpita, non riconosce di essere arrabbiata.

Per superare una prova è necessario passarci in mezzo. Non vale scavalcare

Perché una prova possa essere superata occorre passarci in mezzo, lasciando che “provi”. La malattia non è “immediatamente” un’occasione, non è subito un terreno nel quale rifiorire. Prima è deserto; prima fa male; un tumore che scopriamo essersi sviluppato in noi è giustamente percepito come un estraneo, un invasore. Il nostro corpo e il nostro spirito si ribellano: siamo fatti per la felicità, per l’armonia, per la forza.

Solamente dopo, solo attraversando la tappa iniziale di quella che prima di essere una risalita è una discesa agli inferi del dolore e dello smarrimento, solo passato questo possiamo dire che siamo contenti, che preferiamo affermare la vita, che è un bene in ogni condizione, che anche la malattia, addirittura, può diventare alleata della nostra salute, interiore!


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Prima c’è il rifiuto, prima esplode la rabbia. E se non esplode passando dal camino giusto e uscendo dal cratere principale potrebbe causare danni ben peggiori di una “classica” eruzione vulcanica.

Se provi rabbia, sei psicologicamente sano

Sentite come risponde la dottoressa:

La diagnosi di tumore è un trauma gravissimo, anche quando le probabilità di cura sono alte. (…) nell’esperienza psicologica della donna l’incontro con questa malattia è comunque equiparabile a un lutto. Le incertezze sul futuro, la necessità di sottoporsi a cure chirurgiche, radioterapiche e farmacologiche, il modificarsi della forma fisica dopo l’intervento al seno sono fattori importanti in una reazione che, attraverso varie fasi del tutto normali, prevede la rabbia.

Addirittura il manifestarsi della rabbia è indice di un adattamento psicologicamente sano.

Piccolo aneddoto personale: quando ero ricoverata col mio piccolino del quale scoprivo ora dopo ora epilessia, cecità, ritardo psicomotorio, rischio di nuovi infarti emorragici, alla domanda della dottoressa di reparto che consisteva in “Ma lei è ansiosa?” mi sono sentita spiazzata, incompresa e decisamente sana. In quale altro modo sensato avrei potuto reagire se non con il pianto, (sebbene contenuto davanti a lei!), l’incredulità, il senso di angoscia?

Quando mai potrei trovare le risorse per lottare se non dopo aver accusato il colpo? Fine della faccenda.

Torniamo a questa donna, alla sorella, e a tutte le storie simili nelle quali ci possiamo imbattere una o molte volte nella vita.




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La rabbia che consegue a una diagnosi di tumore al seno si maschera con altri tipi di emozione e si manifesta in modo subdolo (anche se palese per gli specialisti): la critica costante nei confronti del partner, della famiglia, dei colleghi di lavoro dei sanitari, le reazioni abnormi alle notizie sulla malattia di personaggi pubblici, le espressioni tipo «vorrei vedere se capitasse a te», i commenti aggressivi sui social network, le azioni apparentemente “provocatorie” nei confronti del mondo nel nome della malattia che autorizzerebbe a ogni genere di sfogo. Nel profondo, si tratta di esternazioni chiarissime: da qualche parte cova il senso dell’ingiustizia, la legittima arrabbiatura perché per ragioni incomprensibili il corpo fisico ha tradito e ha messo in pericolo la vita.

Cosa ce ne facciamo di tutta questa rabbia? Usiamola come forza motrice e non per distruggere

Usando una storiella che ho utilizzato anche in ambito formativo e consulenziale, sapendo che l’ondata di piena arriverà, converrà forse scavare per tempo dei canali con argini robusti, con corsi sufficientemente lunghi e una capienza ragionevole. Così la rabbia, come l’acqua di un torrente dopo il disgelo, correrà senza distruggere e potrà addirittura rivelarsi un’utile risorsa.

La lettera si conclude così:

La malattia è dolore, quindi anche rabbia: chi è psicologicamente sano lo accetta. (Ibidem)

Ed è verissimo! E non dobbiamo mai passare alla “fase successiva” senza attraversare questo guado così impegnativo.

Ma ci serve un orizzonte di senso e solo Cristo lo dà, anzi solo Cristo è questo orizzonte

Ma dopo? Dopo e durante ogni tappa di un cammino che non abbiamo scelto possiamo fare scoperte meravigliose: sopratutto circa noi stessi e, per chi ha “la fortuna di appartenerGli“, circa la indistruttibile e dolce potenza di Colui che ha trasformato la sofferenza e reso vivibile e addirittura vivificante ogni malattia, dolore, menomazione, ingiustizia.


NADIA aCCETTI

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