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Ora che ho scoperto l’Amore di Gesù posso morire senza aver paura

RAGAZZA, SORRISO, LENTIGGINI

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Missione Francescana - pubblicato il 18/01/19

Una ragazza sbandata e gravemente malata, un amico frate che tenacemente la accompagna fino all'incontro con Dio, col perdono, con la pace anche nella sofferenza.

di Padre Umberto Davoli

“Non solo la perdiamo, Padre; il peggio è che si perderà anche lei!”. E il povero papà mi snocciolò una storia di angoscia e pena simile a tante già udite, purtroppo.

Sconvolta da un assurdo e irrazionale amore per un giovinastro alla deriva, senza arte né parte e per di più schiavo della droga, già da tre anni (ancora quindicenne!) la figlia s’era allontanata non solo dalla fede ma anche dagli affetti più cari. Tentata di abbandonare casa e famiglia, sempre più spesso frequentava un branco di sbandati, fin che l’aveva bloccata il male del secolo e ora languiva in ospedale, inconsapevole di essere condannata a una morte rapida e atroce. “Dovesse solo intuire la verità – concluse il padre – temo farebbe una pazzia.”


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Era venuto il fratello Marcello a chiamarmi – un bravo studente in medicina – che mi aveva narrato la tragedia incombente. L’avevano ricoverata per misteriosi dolori allo stomaco, ma ai primi esami non era apparso nulla di particolare, al punto che avevano pensato a un caso psico-somatico, e volevano rilasciarla con un vago trattamento a base di ‘placebo’, tantoper tranquillizzarla. Poi, all’ultimo momento, un professore si disse inquieto e aveva insistito che si doveva aprirla per controllare meglio ed era a un tratto apparsa la terribile, devastante realtà: tumore in piena metastasi! Le avevano dato tre mesi di vita.

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“Devi fare qualcosa, padre – aveva concluso il ragazzo – ma non devi presentarti come prete, se no non vorrà nemmeno vederti”.Ambedue in borghese, andammo all’ospedale di Vergato. Mi presentai come amico del fratello e subito intavolai un colloquio leggero, scherzando e facendola ridere per conquistarne la simpatia. La cosa mi riuscì oltre ogni speranza, al punto che un’ora dopo, quando mi accinsi ad accomiatarmi, fu lei stessa a insistere che dovevo ritornare a trovarla. Prima di uscire dalla stanzetta, però, sentii il dovere di rivelare la mia vera identità. “Luciana… io sono un frate, sai?” Pensò a uno scherzo: “Se tu sei un frate, io sono una vescova”, disse ridendo. Insistetti, con dolcezza e serietà: “No, sono frate davvero; missionario, per giunta!”


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Quando capì che era proprio vero, si lamentò con disappunto: “Questa non me la dovevi fare!”. Protestai scherzoso: che lo sapesse o meno, prete lo ero già quando mi aveva accettato come amico e se a lei piacevano i preti, di chi era la colpa? Rise, finalmente e mi pregò ancora di tornare a trovarla, cosa che mi feci scrupolo di fare ogni giorno, fino a quando la dimisero dall’ospedale.

Una volta uscita, chi sa perché, sembrò rifiorire, come se avessero sbagliato diagnosi. Riprese colore e parve perfino rimettersi in carne. A volte veniva a trovarmi e si sbilanciava in lunghi dibattiti sulla ‘non esistenza’ di Dio. Finché una bella Domenica me la vidi entrare in chiesa  mentre mi accingevo a leggere il Vangelo della messa delle 12.00. A messa finita mi raggiunse in sacrestia e prese a  snocciolarmi i vari punti dell’omelia su cui – diceva – non era affatto d’accordo, ma la Domenica seguente la rividi puntuale all’appuntamento.




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Una sera mi fece chiamare in parlatorio. Era col suo ragazzo, che subito mi aggredì  vociando che “era tempo che la smettessimo, noi celibi, di parlare d’amore nelle nostre chiese fumose d’incenso!” E che l’amore lui voleva “vederlo in carne e ossa sulle strade e nei crocicchi della vita”. Stavo per aprire bocca quando inaspettatamente Luciana sbottò: “Ma sta zitto, va là! Di che amore vai cianciando, proprio tu che sfrutti tutti quelli che dici di amare! Umberto qui, non mi ha mai chiesto nulla; mi ha solo dato: il suo tempo, la sua amicizia, il suo rispetto, ma tu …”  Non mi sarei mai aspettato una difesa così appassionata!

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Tornò la settimana seguente e quando, dopo il colloquio, l’accompagnai alla fermata del bus, vidi che non prendeva la solita corriera: “Ma questa non va a Sasso Marconi”, dissi. “No, non vado a casa subito”. “Dove vai, Luciana?” “Beh… ho promesso…” Sentii un brivido freddo lungo la spina dorsale, e non saprò mai spiegarmi quello che seguì. “No Luciana, tu ora vai subito a casa!” “Ma perché?” “Perché oggi voglio così”, dissi brusco. “Se non vuoi ascoltarmi, è meglio che la smetta di venire a vedermi”. “Ma non é giusto!”, si lamentò … e mi sentii tremendamente colpevole. Aggiunsi con dolcezza: “L’hai detto anche tu: non ti ho mai chiesto nulla… Oggi sento che debbo farlo. Per favore…” Molto riluttante, prese la corriera di casa.


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Il giorno dopo, assai prima dell’alba il telefono squillò e subito mi sentii martellare i timpani da singhiozzi convulsi: “Come potevi sapere…? Dio mio, che orrore…” E con voce allucinata mi raccontò che l’amica andata all’appuntamento era stata vittima di uno stupro di gruppo per tutta la notte e ora giaceva in ospedale. Da allora Luciana mi guardava con una specie di devozione e gratitudine commoventi.

Dopo qualche tempo dovetti andare a predicare due settimane di ‘missione’ a Tertenia, nell’aspra e pur sempre dolcissima terra sarda. Mancavano tre giorni al termine della missione quando il telefono ancora una volta mi riportò a una realtà che avrei preferito ignorare: “Il male è scoppiato all’improvviso in tutta la sua virulenza – mi disse Marcello – vieni subito!”  Quel fine-settimana tutta Tertenia pregò per Luciana. Il Lunedì mattina trovai Marcello all’aeroporto e mi portò subito dalla mia malatina. Per strada sussurrò desolato: “Urla giorno e notte; deve soffrire l’indicibile, ma si rifiuta di andare in ospedale”. Ero ancora in strada e già sentivo i suoi urli; feci i gradini a tre alla volta. Mi accolse con un sorriso straziante. Con l’aiuto di Dio riuscii a convincerla che doveva farsi ricoverare, almeno per alleviare la pena dei genitori. Poi parlai e parlai, carezzandole la mano, fin che si addormentò.


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Il mattino dopo – papà guidava e io le sedevo a fianco – le bisbigliai all’orecchio: “Per la seconda volta debbo chiederti qualcosa, Luciana”. “Che cosa?” “Voglio che tu riceva Gesù” “Lo sai che non posso”, sbottò ad alta voce. “Comincia a pensarci, intanto; ne riparleremo”.

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Non ne parlai più per diversi giorni, ma ingaggiai delle suore di clausura a pregare per lei. E un bel mattino l’apostrofai deciso: “Hai pensato a quanto ti dissi?” “Non posso, Umberto: non me lo merito!” “E chi se lo merita? E poi… con tutto quello che stai soffrendo! Lo sai che la sofferenza purifica e riavvicina a Dio?” “Sono così confusa, Umberto, con la mia fede a brandelli… e poi, come pentirmi davvero?”  “Hai solo bisogno di entrare in comunione con Gesù, e…” “Ma dovrei confessarmi prima e io non me la sento, non lo farei con tutto il cuore…”  “Ricevi Gesù e tutto ti diverrà chiaro! Anche per Zaccheo il pubblicano, fu solo dopo aver condiviso la mensa con Lui, che trovò la forza di convertirsi davvero!” “Lo vorrei tanto!” E dopo una lunga pausa: “Ma davvero mi porteresti Gesù domani?” “No. Te lo do ora!”




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Tolsi dal taschino la piccola teca che m’ero portato appresso ogni giorno in attesa del momento di grazia. Adorammo e pregammo insieme a lungo, e quando le diedi Gesù scoppiò in un lungo, silenzioso pianto liberatorio. Nulla fu più come prima: si confessò da santa, poi volle che chiamassi mamma, papà e Marcello, e appena arrivarono li apostrofò dolcemente: “Ma voi che credete, perché non lo ricevete tutti i giorni? E’ meraviglioso, sapete! Marcello, leggimi la Passione del Signore dal Vangelo di Luca, ti prego!”

Qualche giorno dopo chiese che uscissero tutti perché voleva confessarsi di nuovo. “Ma Luciana…” “No, falli uscire”. Appena soli mi lanciò un’occhiata biricchina: “Non voglio confessarmi. Voglio solo che tu mi dica tutta la verità. Vero che sto morendo?” Non potevo mentirle. “Sí, bimba mia… stai morendo… hai un cancro in piena metastasi.” “Quando?” “Potrebbe essere fra un mese… oppure stanotte” Sfoderò il suo sorriso più radioso: “Non ho paura, sai? Prima ne avrei avuta tanta, ma non ora! Diciott’anni o ottantuno… che differenza fa, se si è scoperto l’Amore? Se si è capito che tutto approda all’Amore. Ma non dire a papà che so tutto: penserebbe che potrei disperarmi.” Richiamai i famigliari ed ella subito disse: “Papá, vero che appena sto meglio mi porterai in montagna, a Temù?” “Ma certo, bimba mia” le rispose con voce rotta di pianto.


ANDREA MANDELLI

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La vidi per l’ultima volta il mattino della Domenica delle Palme, ormai in coma. Rimasi ai piedi del letto, in preghiera, fin che venne il momento di lasciarla. “Luciana – dissi (chi sa perché) ad alta voce – vado a celebrare la S. Messa di mezzogiorno, poi torno”. Mi parve di vederle tremolare le ciglia. Mi avvicinai e portai la mia bocca sul suo orecchio: “Luciana, mi senti? Vado a celebrare… Ti porto con me sull’altare…” Aprì gli occhi e sorrise. Poi con immensa fatica alzò un braccio e me lo lasciò ricadere attorno al collo… “Padre-amico, muoio felice… Grazie…” Al mio ritorno mi dissero che era morta poco dopo che me n’ero andato. Aveva continuato a sorridere, ripetendo il suo ‘grazie’, sempre più fioco.

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