Una ragazza sbandata e gravemente malata, un amico frate che tenacemente la accompagna fino all'incontro con Dio, col perdono, con la pace anche nella sofferenza.
di Padre Umberto Davoli
“Non solo la perdiamo, Padre; il peggio è che si perderà anche lei!”. E il povero papà mi snocciolò una storia di angoscia e pena simile a tante già udite, purtroppo.
Sconvolta da un assurdo e irrazionale amore per un giovinastro alla deriva, senza arte né parte e per di più schiavo della droga, già da tre anni (ancora quindicenne!) la figlia s’era allontanata non solo dalla fede ma anche dagli affetti più cari. Tentata di abbandonare casa e famiglia, sempre più spesso frequentava un branco di sbandati, fin che l’aveva bloccata il male del secolo e ora languiva in ospedale, inconsapevole di essere condannata a una morte rapida e atroce. “Dovesse solo intuire la verità – concluse il padre – temo farebbe una pazzia.”
Era venuto il fratello Marcello a chiamarmi – un bravo studente in medicina – che mi aveva narrato la tragedia incombente. L’avevano ricoverata per misteriosi dolori allo stomaco, ma ai primi esami non era apparso nulla di particolare, al punto che avevano pensato a un caso psico-somatico, e volevano rilasciarla con un vago trattamento a base di ‘placebo’, tantoper tranquillizzarla. Poi, all’ultimo momento, un professore si disse inquieto e aveva insistito che si doveva aprirla per controllare meglio ed era a un tratto apparsa la terribile, devastante realtà: tumore in piena metastasi! Le avevano dato tre mesi di vita.
“Devi fare qualcosa, padre – aveva concluso il ragazzo – ma non devi presentarti come prete, se no non vorrà nemmeno vederti”.Ambedue in borghese, andammo all’ospedale di Vergato. Mi presentai come amico del fratello e subito intavolai un colloquio leggero, scherzando e facendola ridere per conquistarne la simpatia. La cosa mi riuscì oltre ogni speranza, al punto che un’ora dopo, quando mi accinsi ad accomiatarmi, fu lei stessa a insistere che dovevo ritornare a trovarla. Prima di uscire dalla stanzetta, però, sentii il dovere di rivelare la mia vera identità. “Luciana… io sono un frate, sai?” Pensò a uno scherzo: “Se tu sei un frate, io sono una vescova”, disse ridendo. Insistetti, con dolcezza e serietà: “No, sono frate davvero; missionario, per giunta!”
Quando capì che era proprio vero, si lamentò con disappunto: “Questa non me la dovevi fare!”. Protestai scherzoso: che lo sapesse o meno, prete lo ero già quando mi aveva accettato come amico e se a lei piacevano i preti, di chi era la colpa? Rise, finalmente e mi pregò ancora di tornare a trovarla, cosa che mi feci scrupolo di fare ogni giorno, fino a quando la dimisero dall’ospedale.
Una volta uscita, chi sa perché, sembrò rifiorire, come se avessero sbagliato diagnosi. Riprese colore e parve perfino rimettersi in carne. A volte veniva a trovarmi e si sbilanciava in lunghi dibattiti sulla ‘non esistenza’ di Dio. Finché una bella Domenica me la vidi entrare in chiesa mentre mi accingevo a leggere il Vangelo della messa delle 12.00. A messa finita mi raggiunse in sacrestia e prese a snocciolarmi i vari punti dell’omelia su cui – diceva – non era affatto d’accordo, ma la Domenica seguente la rividi puntuale all’appuntamento.
Una sera mi fece chiamare in parlatorio. Era col suo ragazzo, che subito mi aggredì vociando che “era tempo che la smettessimo, noi celibi, di parlare d’amore nelle nostre chiese fumose d’incenso!” E che l’amore lui voleva “vederlo in carne e ossa sulle strade e nei crocicchi della vita”. Stavo per aprire bocca quando inaspettatamente Luciana sbottò: “Ma sta zitto, va là! Di che amore vai cianciando, proprio tu che sfrutti tutti quelli che dici di amare! Umberto qui, non mi ha mai chiesto nulla; mi ha solo dato: il suo tempo, la sua amicizia, il suo rispetto, ma tu …” Non mi sarei mai aspettato una difesa così appassionata!