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Una riflessione sul valore profetico dell’«Humanae vitae»

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 11/01/19

Il paradosso dell’oblio del corpo femminile

Anticipiamo un articolo in uscita sul prossimo numero di «Vita e Pensiero», intitolato La dignità della donna e l’Humanae Vitae.

di Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz

In che cosa risiede l’elemento “sconveniente” che tutt’oggi risuona nell’enciclica Humanae vitae di papa Paolo VI, uscita in quell’anno inquietante che fu il 1968? Nella frase «che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita» (Humanae vitae, 11). E ancora, che questa dottrina si fonderebbe «sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (ibidem 12). Frasi davvero esplosive. Anche se non nuove, nell’atmosfera surriscaldata della rivoluzione sessuale del 1968 ebbero un effetto non soltanto antiquato, ma chiaramente provocatorio. Il rigetto quasi senza eccezioni della tesi secondo cui amore e procreazione apparterrebbero inscindibilmente l’uno all’altra sarebbe stato avvalorato entro breve tempo dallo sviluppo medico della fecondazione extracorporea, anche se la prima “figlia in provetta”, Louise Brown, sarebbe nata in Inghilterra soltanto nel 1978.

L’enciclica è consapevole della sua sfida allo spirito del tempo e alla sua prassi indiscussa. Si presentano tuttavia due importanti obiezioni che occorre ponderare. La prima è di tipo psicologico e tocca l’unità complessiva del matrimonio che non è composto certo da singoli atti, ma è retto da un atteggiamento di base di reciproco affetto. Per questo è lecito domandare se davvero ogni singolo atto abbia in sé un’importanza tanto straordinaria. L’intero è sempre più delle sue parti; il matrimonio è più della somma dei rapporti sessuali. Ciò vale soprattutto quando è presente una volontà di massima di procreare, testimoniata nella promessa di matrimonio.

La seconda obiezione è di tipo empirico. La “natura” stessa separa l’uno dall’altra amore e procreazione: nei giorni infecondi della donna o durante la gravidanza o nel caso di una naturale sterilità maschile e comunque nella vecchiaia, dove i due ultimi fattori non rappresentano un ostacolo al matrimonio. Per questo motivo i matrimoni non volutamente infecondi non possono essere sciolti. La seconda obiezione pertanto afferma: amore e procreazione non sono irrevocabilmente saldati insieme, dato che il Creatore stesso ha allentato il legame tra i due.

Tuttavia, l’enunciazione dottrinale del Papa conserva l’enfasi originaria per cui ogni singolo atto sarebbe abbinato a un duplice orientamento: alla passione amorosa e alla volontà procreativa. È ovvio che sia la brevità del documento sia il permesso di “utilizzare” i giorni per natura infecondi non rispondano in dettaglio e neppure rimuovano del tutto i dubbi sollevati. Soprattutto ripiegare sui giorni infecondi veicola di per sé l’intenzione di escludere la procreazione. In alternativa, si procederebbe con modalità manipolative o chimiche (ad esempio, con la pillola). Ma cosa differenzia le due intenzioni?

Si può rinviare al fatto che, nel caso dell’infertilità periodica, viene mantenuto il dialogo fiducioso tra i coniugi e si tiene in considerazione il ritmo femminile, mentre nella contraccezione chimica un simile dialogo viene meno e il motto «Sempre pronta!» impone alla donna una costante disponibilità, con l’esito di una possibile strumentalizzazione del corpo femminile, per non parlare del continuo stress fisico dovuto alla pillola. Permettere l’“utilizzo” dei giorni infecondi può invece condurre a un rapporto dall’atmosfera più umana tra i coniugi e ha decisamente riguardo per la donna, apprezzando il suo ritmo naturale e accrescendo anche l’attesa reciproca.

Tuttavia, anche in questo caso, è in gioco l’intenzione. Probabilmente, però, siamo di fronte a una di quelle questioni che non possono essere decise in modo soddisfacente con le nostre categorie e per le quali non sono sufficienti i distinguo razionali. Perciò questa difficoltà, invece di essere indagata a partire dall’“intenzione”, potrebbe essere illuminata da un’altra angolazione: che effetto provoca sulla donna se amore e fertilità vengono separati? Non potrebbe forse emergere una comprensione della corporeità femminile posta in una luce degna di riflessione dall’enciclica? La donna (mulier) viene testualmente menzionata soltanto due volte nel documento, altrimenti si parla di coniugi o genitori. Tuttavia, il ragionamento dell’enciclica attribuisce indirettamente alla donna una rilevanza maggiore che all’uomo, poiché la ragionevole pianificazione dei figli coinvolge il suo ciclo mensile.

Già solo la considerazione della corporeità finemente differenziata della donna è un evidente guadagno nell’intera questione. Lo si può chiaramente constatare nel caso contrario, ossia laddove la fertilità della donna venga interrotta chimicamente o fisicamente (ad esempio, da una spirale). In un tempo come il nostro di esaltazione della “natura”, resta incomprensibile il motivo per cui giovani donne debbano sopprimere per due o tre decenni il loro ciclo mensile, iniziando purtroppo molto presto, a volte già nella pubertà quando l’organismo non è ancora adulto. Esperienze ginecologiche e psicologiche (frigidità), come si può dimostrare, parlano contro questa pratica. Inoltre, l’interruzione manipolativa dell’atto sessuale non consente che si sperimenti l’intimo convenire di uomo e donna nel fine accordo tra i loro organi, ma turba la loro appartenenza proprio nel punto culminante. La donna poi viene davvero fisicamente ferita da pratiche associate, come la pillola del giorno dopo o addirittura l’aborto. E una ferita fisica comporta sempre una ferita psichica. Da un punto di vista psicologico, la costante sterilizzazione del ciclo femminile conduce a blocchi che varrebbe la pena approfondire in ricerche a lungo termine. Ricerche che pare evidente non siano auspicate per ragioni ideologiche.

In questo senso la persistente neutralizzazione e “messa a disposizione” del corpo femminile può essere vista anche come un colpo di grazia al femminismo. L’emancipazione ottenuta a spese soprattutto della corporeità femminile è un’emancipazione dal proprio corpo, dalle sue esigenze e delle sue gioie, a vantaggio di una sottomissione celata e inconfessabile all’uomo. L’enciclica parla di una riduzione del corpo femminile a «strumento di godimento» (Humanae vitae 17), dunque di una classica reificazione.

Tali dubbi valgono, in senso contrario, anche per l’obbligo di procreazione. Certamente l’enciclica non propone alcuna argomentazione dettagliata al riguardo, ma cinquant’anni dopo si possono sentire gli effetti della separazione della procreazione dall’amore: banche di ovuli e di seme con allegato foglietto illustrativo genetico, procreazioni anonime in laboratorio; donatori di seme retribuiti piuttosto che padri (alcuni con più di cinquanta figli, come nel caso del francese n. 5010, raccontato dalla «Neue Zürcher Zeitung» nel luglio/agosto 2018); sul lato femminile: madri donatrici d’ovulo, madri in affitto, madri surrogate piuttosto che semplici madri. Come madre in affitto, la donna viene evidentemente ridotta a mero “utero”, per dirlo con un’espressione molto cruda, come “macchina da parto”, una vergognosa commercializzazione del basso ventre femminile (come anche della vita emotiva della donna durante la gravidanza). E il bambino diventa strumento dell’appagamento di un desiderio o, in ultimo, dello sfogo di “istinti” genitoriali; ma può anche venire “restituito” nel caso in cui non corrisponda all’“ordinazione”, se addirittura non si procede con l’aborto. I bambini vengono “fatti” e non generati.

Nel 1968 non era ovviamente possibile prevedere queste estreme riduzioni dell’umano, tuttavia l’enciclica formula in modo fondamentalmente corretto la logica di una procreazione separata dall’amore. Essa si colloca in un contesto storico-culturale di ammonimento — non soltanto interno al cattolicesimo — che avrebbe dovuto da tempo suscitare attenzione. Rainer Maria Rilke già negli anni Venti vedeva in atto un oblio profondo dell’origine biologica: «I padri, che come macerie di monte ci restano sul fondo, (…) il greto asciutto delle madri di un tempo (…) l’intero muto paesaggio» (Terza Elegia Duinese). Padri e madri sono venuti meno ai viventi e vanno perduti per la memoria, sebbene, dice l’elegia, la loro forza nutra gli uomini di oggi. Ancora, Brave New World, l’utopia negativa di Aldous Huxley, presentava nel 1932 l’immagine spaventosa di un’umanità costituita e manipolata in modo puramente biologistico, in cui gli esseri umani venivano generati con metodi industriali ed educati collettivamente. In questo mondo una parola era radicalmente vietata: “madre”. Dopo lavaggi del cervello ben riusciti, essa suscitava sensazioni disgustose. L’uomo nuovo non doveva intendersi come generato e nato, ma come prodotto, soltanto come unfactum, né genitum né natum. Doveva credere di essere debitore di tutto soltanto alla società tecnicizzata e a nessun altro, a nessun Tu personale più maturo — oppure, in ultimo, a un Dio. Del resto, la parola “padre” non ricorreva comunque più, evidentemente era stata ancora più semplice da eliminare di “madre”.

Nell’ambito della Chiesa (cattolica) è sempre stata presente la difesa della genitorialità e in particolare della maternità, ma ciò è rimasto senza effetto sul discorso femminista. Secondo il saggio “classico” Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, si possono ammettere soltanto domande strutturali (come si diventa una donna?) e non domande essenziali (che cosa è una donna?). Questo perché, per Beauvoir, la femminilità è un’invenzione dell’astuzia maschile per accollare alle donne compiti scomodi. Pertanto, la categoria del “femminile” sarebbe radicalmente da bandire in quanto repressiva, e di questo cadrebbe vittima anche la maternità. Ci sarebbero due “casi” di femminilità: una legata al figlio e una all’uomo; ed entrambi ricondurrebbero a una volontà vincolante e quindi a doveri permanenti. Soprattutto il figlio rappresenterebbe, a causa della sua dipendenza psico-fisica, la “catena” naturale della donna. Il corpo femminile dovrebbe allora essere “trasceso” e neutralizzato dal livellamento chimico del bioritmo, nel peggiore dei casi dall’aborto. La femminilità resterebbe così definita soltanto dall’astratta autonomia del sé. È stato questo femminismo egualitario («la donna deve diventare uomo») a dominare fino a oggi il discorso.

Con la teoria del gender ha prevalso un oblio ancora più profondo del corpo, che certo parla di donne e uomini, ma sostituendo le costanti biologiche con costrutti sociali (cfr. H.-B. Gerl-Falkovitz, Frau–Männin–Menschin. Zwischen Feminismus und Gender, Kevelaer, 2016). In questo caso, il corpo vivo viene ridotto a corpo neutrale e la maternità viene trattata principalmente nel quadro di una fertilità tecnicamente realizzabile. Il fatto che un uomo transessuale allatti suo figlio (in gravidanza era ancora una donna) viene celebrato come un grande passo avanti. Ma è una follia, poiché dimostra soltanto che è ancora una donna.

Su un profondo oblio del corpo si fondano poi, ad esempio, le influenti teorie del corpo di Judith Butler e Donna Haraway, nel solco di Simone de Beauvoir. In esse si arriva (involontariamente?, in ogni caso in modo implicito) a una svalutazione del corpo femminile, nella sua mascolinizzazione in Beauvoir o nella sua derealizzazione (deontologizzazione) in Butler o anche nella sua tecnicizzazione illimitata (snaturalizzazione) in Haraway. Il corpo è in ogni caso il “punto cieco” dell’attuale emancipazione. Piace accusare il cristianesimo di ostilità verso il corpo e le donne. Ma entrambe le modalità si possono oggi rinvenire in modo evidente sia nel femminismo radicale sia nella tendenza gender dominante.

L’enciclica verrebbe senz’altro sottovalutata se la si leggesse soltanto a partire da ciò che è assente nella sua considerazione — sarebbe un trionfo troppo amaro. Pertanto torniamo ancora una volta alle dichiarazioni di merito sulla donna. Se davvero ogni atto coniugale includesse passione e fecondità, ciò significherebbe per la donna e per l’uomo la capacità di giungere a un linguaggio in grado di rendere possibile un reciproco armonizzarsi. L’impegno fisico molto più profondo della donna verso il proprio figlio implica chiaramente un’asimmetria tra i sessi.

E questa deve condurre sempre di nuovo a dialogare sulla resilienza della donna in occasione del parto, sulla divisione dei compiti, sulla scelta di soluzioni congiunte — al posto di una mera scelta automatica di infertilità. L’esistenza è corporeità — con diverse implicazioni rispettivamente per la donna e per l’uomo. È un aspetto che si può ulteriormente approfondire da un punto di vista teologico. Nel cristianesimo l’incarnazione di Dio diventa una nuova posta in gioco e una sfida: come può Dio assumere un corpo e un sesso? Questo andare contro qualsiasi idealizzazione di una divinità incorporea segna la vera differenza da tutte le altre tradizioni religiose, persino dall’ebraismo. Caro cardo — la carne è il cardine. L’incarnazione di Dio pone l’intero fenomeno della corporeità sotto una luce nuova, inesauribile — non meno della risurrezione del corpo a una vita immortale.

Anche la Chiesa viene vista come corpo, e il rapporto di Cristo con la Chiesa come quello con una sposa (Efesini 5, 25), mentre il matrimonio si trasforma in sacramento, segno della presenza reale di Dio in coloro che si amano. È questo rinvio del sesso, nelle sue possibilità centrifughe, all’essere umano nella sua interezza ciò che la Scrittura rende presente: in modo che l’intero essere umano trascenda se stesso, senza che la sua biologia o il suo spirito cerchino di distaccarsi in un vuoto privo del tu.

Resta importante sottolineare che, se la buona riuscita della sessualità non può essere garantita né dal sacramento né da altre benedizioni, l’enciclica indica tuttavia gli elementi in base ai quali il difficile equilibrio può riuscire: riconoscere il corpo a) nel suo sesso e b) nella sua disposizione prestabilita alla procreazione. In altre parole: rimanere nella finitezza e nel sesso, non accontentarsi di “morire” nel figlio. Non si tratta più di una concezione ingenua della natura, ma della trasposizione creativa della natura stessa in una natura raffinata, accettata, finita. Tuttavia, e proprio per questo, essa si colloca nello spazio del trascendimento e non in un piatto materialismo. Anche l’eros c) viene posto nell’ambito del sacro: nel sacramento. E ugualmente lo sono la procreazione e la nascita, quali doni conferiti in Paradiso (Genesi 1, 28). Dal cristianesimo (e dall’ebraismo) non viene mai glorificata la mera natura primitiva: occorre piuttosto elevarla nello spazio del divino, elaborarla rendendola libera. Una bella frase di Ildegarda di Bingen afferma che uomo e donna sarebbero «l’uno opera per mezzo dell’altro» (unum opus per alterum). Proprio il figlio mostra quanto una simile opera sia profondamente ancorata nel corporeo. «La corporeità è il compimento delle opere di Dio», affermava il pietista Friedrich Christoph Oetinger. «La fecondità è il compimento delle opere di Dio», si potrebbe riformulare in questo contesto, in senso corporale e spirituale.

Al di là di tutte le dottrine morali, poco convincenti, si può forse oggi rinnovare quella visione secondo cui nell’entrare in relazione con l’altro sesso si esprime una tensione divina, una fecondità vitale e la necessità di una comunità asimmetrica? Un’alterità creatrice, concessa, corporea sul terreno di una comune dotazione divina di fondo — con il volto di donna o uomo: questa è la proposta dell’Humanae vitae contro ogni decostruzione, neutralizzazione, reificazione del sesso.

QUI L’ORIGINALE

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