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“Io credo risorgerò” il canto di Chiesa adottato dai tifosi dell’Hellas

Tifosi Verona anni ’80

Wikimedia

Lucandrea Massaro - pubblicato il 08/01/19

C'è chi si indigna per l'uso di questo canto, ma non è forse un segno di un seme ancora piantato in profondità?

Il calcio è forse rimasto l’unico rito collettivo che riesce ad unire gli italiani, è un’altra chiesa, per così dire, che mette fianco a fianco persone di tutti gli strati sociali, di tutti gli orientamenti, tutti uniti in quella che – non a caso – viene chiamata “fede”. Non c’è nulla di male, se essa non genera violenza o comportamenti antisociali. La sportività è un valore richiamato perfino da San Paolo che usa la metafora del lottatore per spiegare l’atteggiamento del cristiano di fronte al peccato, la stessa unzione crismale richiama agli oli che questi si mettevano addosso per diminuire la presa dell’avversario. Per il cristiano il Nemico è Satana, l’olio crismale l’aiuto contro la presa demoniaca. Non stupisce quindi di vedere in curva preti e – talvolta – suore, sorprende invece – e tutto sommato positivamente – il grido a cui la curva del Verona (attualmente quarta in serie B) si è appellato da qualche anno a questa parte per i momenti di gioia o di sconforto, per invocare la Salvezza, fosse anche solo quella dalla retrocessione. La curva infatti canta “Io credo risorgerò”, senza parodie, senza intenti canzonatori, ciascuno certo a modo suo, chi devoto, chi ateo, chi indifferente. Sanno che è un canto di chiesa, sanno cosa vuol dire, ma in fondo in fondo sperano, e la speranza è già un moto positivo dello spirito

In questa curva, tra i tifosi, troviamo appunto un giovane sacerdote Cristian Tosi, 31 anni, oggi parroco a Vago di Lavagno, fondò con il nome dello stesso canto un Hellas club che oggi conta 120 persone. «È proprio quando le cose vanno male», sentenzia, «che bisogna avere fede» dice a L’Arena, storico giornale di Verona.

«È il coro giusto per questa stagione», spiega, non senza un sospiro. «Un canto che, però, ha fatto da sottofondo anche ai momenti felici: 18 maggio 2013, Verona-Empoli, promozione in serie A». Don Cristian è tifoso gialloblù da sempre: «Già alle medie io, ragazzino, prendevo da solo il pullman a Tregnago per andare allo stadio. La fede in Cristo e la fede calcistica sono cresciute insieme, dentro di me, senza mai ostacolarsi. Non sempre sacro e profano sono in conflitto». Il sacerdote tiene a precisare che «il nostro gruppo è aconfessionale e aperto a tutti. Il più giovane ha sei mesi, figlio di una coppia di tifosi. Il più anziano? Dico solo che, alla cena natalizia del club, ci ha raccontato gli aneddoti su Brescia-Verona 1947. Che noi abbiamo ascoltato, ovviamente, in religioso silenzio». Lui sa che la tifoseria non gode di ottima reputazione: «È una grande forza che va incanalata», risponde semplicemente. «Come un fiume, che non deve essere imbrigliato, né lasciato strabordare, ma convogliato nel giusto percorso». Ormai tutti, al Bentegodi, sanno che Cristian è don Cristian. «Sono stati rari i casi in cui mi hanno trattato da diverso oppure mi è stato mancato di rispetto. Perché allo stadio non conta il tuo ruolo sociale», sottolinea, «ti guadagni la fiducia con il tifo. E io, beh, ci metto molta passione. Quando la gente vede che canto, esulto, stringo i denti e vado in trasferta, le distanze si annullano». Inizialmente c’è stata, è vero, un po’ di «diffidenza» da parte di alcuni: «Una volta c’era un tale, proprio in fianco a me, che inanellava una bestemmia dietro l’altra. Sembrava lo facesse apposta. Gli ho detto: “Poi io e te facciamo un discorso”. Ma lui mi ha mandato a quel paese. “Lascia perdere, sono anticlericale e odio i preti”, mi ha ringhiato. “Grazie”. “Come, grazie?”. “È per gli irriducibili come te se il mio lavoro è a tempo indeterminato”». Sono diventati amici

Una presenza ormai apprezzata dalla curva, una presenza che suscita qualche conversione e che ci fa dire che forse la strada intrapresa da don Cristian è quella giusta: stare in mezzo a questo gregge, moderarlo, e farsi trovare pronto:

«Alla fine di un match sofferto sono arrivati da me in tre. “Don”, mi hanno detto, “ci è scappata qualche parola di troppo… Vorremmo confessarci”. Di stucco, ho chiesto da quanto tempo non si accostavano al sacramento della riconciliazione. “Da trent’anni!”. “Ragazzi”, ho concluso, “facciamo un lavoro ben fatto dopo la partita di ritorno”».
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