Possiamo imparare a non lasciarci definire dagli insuccessi ma ad usarli come un trampolino di lancio per riprovare a farcela!
Mi ricordo che da bambina quando facevo ginnastica artistica avevo paura di cimentarmi nella rovesciata indietro. Ai primi tentativi falliti persi fiducia e coraggio, pensavo “non posso farcela”. Le mie compagne invece – colte inizialmente dallo stesso timore – provavano, si buttavano, tentavano e nonostante le cadute ricevevano l’incoraggiamento e il plauso di noi altre, oltre che quello dell’insegnante. L’impegno veniva premiato, la mia era una resa.
Ho ripensato a questo episodio della mia infanzia leggendo un interessante articolo di Rebecca Minoliti del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica sulla rivistaBenEssere, la salute con l’anima del mese di gennaio.
L’autrice illustra due tipologie di approccio alla difficoltà e all’errore rifacendosi alle tesi di Carol Dweck, ricercatrice statunitense nell’ambito della psicologia della personalità, sociale e dello sviluppo, che verso le fine degli anni Ottanta esaminò il modo in cui le persone affrontano i fallimenti. La studiosa si concentrò sulle reazioni che i bambini di scuola primaria avevano nell’affrontare problemi troppo complessi per la loro età, ed individuò così due gruppi: da una parte quelli che si sentivano stimolati e dall’altra quelli dei rinunciatari che “mollavano” al primo insuccesso.

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“Ma perché questo? Dipende da come si vive l’errore: i primi lo considerano come una parte naturale dell’apprendimento, perché solo sbagliando è possibile conoscere un argomento e trovare soluzioni alternative più efficaci; per i secondi invece è uno scacco alle proprie capacità intellettive, una prova che non si possiedono le abilità necessarie” scrive nell’articolo Minoliti.
Da qui scaturiscono due visioni dell’intelligenza, continua l’autrice, una concezione (mindset) “entitaria” dell’intelligenza di chi la reputa una caratteristica innata e immutabile, e una visione “incrementale” di coloro che credono invece che essa sia migliorabile attraverso la costanza e l’esercizio.
E noi a quale delle due categorie apparteniamo?
Prima di rispondere approfondiamo ancora un po’ l’argomento…
“Insomma, per i primi è tutta questione di talento, per i secondi di impegno. Secondo Dweck la mentalità incrementale è ciò che ha consentito ai “grandi” di diventare tali. Questo non vuol dire pensare che chiunque, con la giusta motivazione e con il necessario insistere, possa diventare Einstein o Mozart! Una cosa è certa però: Mozart non è nato musicista; fin da bambino infatti passava ore e ore a studiare musica. In persone incrementali si sviluppa una vera e propria passione per l’apprendere, per l’impegno e per la costanza” afferma l’autrice nell’articolo.

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