Molte coppie iniziano con l’affido prima di fare domanda di adozione, anche per voi è stato così?
Inizialmente abbiamo fatto domanda di affido, potevamo fare quella perché per l’adozione serve essere sposati da tre anni. Il padre spirituale ci aveva detto “pensateci bene, ma siete sicuri…”, noi ci siamo buttati e per 5 anni abbiamo avuto Alessandro. La grazia più grande è stata comunque la comunione tra di noi, davvero frutto del sacramento del matrimonio. L’affido è stata un’esperienza devastante, aveva ragione il padre spirituale, perché Ale era un bambino con delle ferite laceranti, e quindi i suoi atteggiamenti erano esasperati sia in positivo che in negativo, non c’erano mezze misure. Le difficoltà sono state tante, è stata dura, ad un certo punto ti guardi in faccia e dici “ma che stiamo facendo?” anche perché non è una vera e propria esperienza di genitorialità, quel figlio giustamente non ti chiama mamma, non starà con te per sempre ma rientrerà in famiglia, tu lo accompagni e ti comporti come un genitore ma è chiaro che non è figlio tuo per te e per lui. È una situazione davvero a perdere, il massimo della gratuità, ed il peso si sente tanto, veramente quando si dice l’amore pesa, è così. Il grande servizio che ci ha fatto Alessandro è che ci ha fatto toccare il limite, laddove non eravamo più disposti ad amare, perché è arrivato un punto in cui l’esasperazione era tale – mi vergogno un po’ di questa cosa ma la dico per amore della verità – in cui io ad un certo punto non ne potevo più, ero troppo frustrata e ho chiamato gli assistenti sociali e gli ho detto “venite a riprendervelo”. Lì mi sono uscite le croste dagli occhi: io che mi sentivo brava, buona perché avevo il bambino che soffriva in affido e mi accorgo che non sono disposta a volergli bene fino in fondo, perché dove tocca il mio egoismo io lo mollo, lo scarico. Poi è passato tutto e lo abbiamo tenuto con noi fino a che il giudice non lo ha rimandato a casa. L’affido finisce ma non finisce mai in realtà, Alessandro oggi ha 18 anni, i baffi, la fidanzatina e fuma, e stamattina ha chiamato mio marito Christian per farsi accompagnare ad una visita. Lui sa che casa nostra è sempre aperta per lui, ogni tanto arriva, mangia, scrocca la wifi, dorme. Fa parte della famiglia.
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E se qualcuno vi chiedesse: se in fondo in fondo non avete rimpianti per non aver potuto generare un figlio nella carne?
Ogni tanto me lo chiedono: “all’esperienza del pancione non ci pensi?” Non lo so, mi viene da dire che quello che ho mi basta e quello che non ho non mi manca. Questa è la mia storia, non poteva essere un’altra, oggi lo so. Per me la prima ecografia è stata vedere la foto di Miguel quando ci hanno convocato per proporci l’abbinamento, tutto può essere in qualche modo paragonato alla genitorialità biologica, ma è ancor più vero il contrario: ogni genitorialità biologica in realtà somiglia alla genitorialità adottiva molti di più quando non si possa credere. Anche chi porta un figlio nel grembo deve ricordarsi che quel figlio non è suo, è una persona che ti è affidata da Dio, non è mai proprietà. la nostra psicologa del servizio adozioni dice sempre: diventare genitori è sempre un’adozione, tutti i genitori sono adottivi e tutti i figli sono adottivi. Nel paradigma dell’adozione c’è tantissimo della fede, tutti noi siamo figli adottivi nel Padre. Solo i bambini adottivi sanno affidarsi veramente contro ogni logica, sono un modello di fede, fanno quel salto nel vuoto, vanno via con te che sei praticamente un estraneo, la prima notte si addormentano tra le tue braccia, lo fanno per non morire di solitudine, per spirito di sopravvivenza. Io e mio marito siamo rimasti scioccati davanti a tutto questo, ecco perché poi diciamo benedetta sterilità, guarda quanta bellezza che si dischiude.
