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Come si fa a ringraziare Dio per la propria sterilità? La storia di Michela e Christian

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Famiglia Cinti

Silvia Lucchetti - pubblicato il 15/12/18

Il diario di bordo delle due adozioni di una coppia di sposi che, nonostante tutto, ha creduto alla promessa del Signore

“Questa navicella sta entrando in orbita. Diario di bordo di una famiglia adottiva” (Tau edizioni) di Michela Serangeli e Christian Cinti è un libro speciale che commuove, fa sorridere, riflettere su come Dio conduca la storia di ciascuno di noi. Racconta con un tono leggero, di chi intelligentemente non si prende troppo sul serio, ma profondo, due viaggi decisivi nella vita di Michela e Christian: quelli che hanno intrapreso direzione Colombia per andare a conoscere i loro due figli adottivi Miguel Àngel e Moisés David.

I passaggi che più mi hanno colpito di queste due bellissime cronache adottive però non riguardano strettamente le emozioni, i sentimenti, il diario dell’incontro dei due sposi prima con l’uno e, poi tempo dopo, con il secondo figlio ma quando nel testo la coppia ringrazia Dio per la sterilità.

“(…) facendo i conti con la nostra infertilità, dopo aver pianto lacrime e sangue, abbiamo iniziato a sospettare che dietro a quella che poteva sembrare una maledizione, o quanto meno una privazione, potesse nascondersi in realtà qualcosa di più grande. E, infatti, dopo aver adottato i nostri due bambini – talmente belli che se li avessimo fatti noi non sarebbero stati altrettanto, e talmente simili a noi che non si capisce proprio come ci siamo potuti combinare così bene – possiamo affermare con convinzione che la nostra sterilità era la cosa migliore che potesse capitarci, la cosa migliore per noi. Conoscendoci, non poteva andarci meglio di così. Chi ci conosce lo sa. Allora ringraziamo Dio per essere stati condotti attraverso questa porta stretta a scoprire qualcosa di insospettabile, ad intraprendere un viaggio galattico fuori e dentro di noi”.

Forse qui il lettore avrebbe potuto comunque arricciare il naso, non capire fino in fondo, per questo ho pensato di contattare Michela per chiederle come si possa ringraziare il Signore di una condizione di incapacità generativa. Ecco quello che con dolcezza, umiltà, simpatia mi ha rivelato…




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Cara Michela, chi legge il vostro libro potrebbe domandarsi come sia possibile ringraziare il Signore per la “disgrazia” della sterilità. Infatti in un passaggio del racconto scrivi:

“Ci troviamo ancora una volta a ringraziare Dio per la nostra sterilità. Era la cosa più giusta per noi. Al di là di quello che potevamo immaginarci, non ci poteva andare meglio di così”.

Lì per lì non pensavo all’infertilità come una cosa buona per noi. Quando ci siamo sposati già sapevamo che non avremmo potuto avere figli, io sono andata in menopausa a 21 anni e quindi era una condizione irreversibile. La mia ginecologa mi disse che l’unico modo per restare incinta per me sarebbe stata la fecondazione eterologa che a quei tempi era ancora illegale in Italia. Io e Christian eravamo lontani dalle cose di Dio, eppure ci parve subito umanamente inaccettabile. Lì per lì non ci preoccupò più di tanto, in quel momento non pensavamo ai figli. Ma sai, dopo il matrimonio, in una stanza molto nascosta del nostro cuore nutrivamo comunque la speranza di riuscire ad avere un bambino. Dopo un anno e mezzo di matrimonio realizziamo davvero che questo figlio non sarebbe arrivato. Proprio mentre prendevamo consapevolezza della nostra impossibilità avevamo intorno gli amici con cui condividiamo un cammino di fede francescano che continuavano a sfornare bambini. Non ti nascondo che abbiamo vissuto momenti bui. Mi domandavo: che cosa succede? dov’è la promessa che Dio ci ha fatto per la nostra vita? Quando dico benedetta sterilità lo dico con il senno del poi, prima non sarei mai stata capace di dire una cosa del genere. Ma dopo la nostra esperienza…

Facciamo un passo indietro allora, raccontaci come è iniziata la vostra storia

Quando eravamo fidanzati litigavamo continuamente, mentre adesso litighiamo ma c’è una progettualità. Allora c’era soltanto il fatto che ognuno doveva salvare la propria pelle. Infatti eravamo proprio devastati, ci facevamo del male, non eravamo felici. Io ho il ricordo di me come una ragazza scontenta di tutto, di me, di lui, c’era una gelosia tremenda. Eravamo lontani dalla fede, anzi, parlavamo male della Chiesa.

E poi cosa è successo?

Tutto cambiò quando a Todi vennero i francescani di Santa Maria degli Angeli a fare una missione al popolo e ci accolsero. Noi eravamo a pezzi sia individualmente che come fidanzati, eravamo ai minimi termini. Andammo ad ascoltare le catechesi dei dieci comandamenti, e ci fu una riscoperta, una fioritura, scegliemmo la castità e tutto improvvisamente si sistemò. Secondo me la castità ha portato tanto ordine nella nostra storia, la gelosia è sparita e non si è ripresentata più e per noi era un problema che ci faceva soffrire da morire. E poi abbiamo cominciato a decidere insieme le cose, le scelte si prendevano insieme ed è stata una palestra per il matrimonio. Anche oggi litighiamo ma ci sono cose che sono legge, i punti fissi, i criteri che ci ha dato il Signore, in fondo sono quattro cose, non di più, ma ci guidano. Tutte le nostre scelte sono maturate dentro un cammino di fede, accompagnati dal nostro padre spirituale, con il sostegno della preghiera, dei sacramenti, della Parola, la preghiera degli amici. Noi non ce l’avremmo fatta senza questa grazia. Io caratterialmente sono una che si piange molto addosso non so quale miracolo mi ha permesso di non stare sempre lì a fare il pianto greco. Mi sarei chiusa, avrei detto “povera me”.


COPPIA PER MANO

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Con quale spirito vi siete avvicinati alla prospettiva dell’adozione?

Le coppie che vogliono adottare fanno un errore umano e comprensibilissimo di pensare solo al loro punto di vista e dicono “noi che vogliamo un figlio, noi che vogliamo una famiglia”, e soltanto dopo quando incontrano il bambino in carne ed ossa si rendono conto che non è una cosa che riguarda solo loro, questo figlio è una persona e anche lui sta aspettando una famiglia, anche lui ha una solitudine, vive una privazione. Noi siamo stati privati della capacità di generare, ma a lui è stato privato un diritto fondamentale crescere con una mamma e con un papà, essere allattato, ricevere le coccole. Quando ti prepari all’incontro ti fai mille domande: che facciamo? ci avviciniamo noi? è meglio che vado io? è meglio che vai tu? cosa gli diciamo? lo abbracciamo? e se piange? Tu fai mille congetture su cosa farai quando vedrai questo bambino e poi magari non tieni conto del fatto che può darsi che sarà lui a fare qualcosa. E quando prendi coscienza di questo capisci che non eri solo tu che aspettavi ma anche lui che aspettava, e che come tu hai pensato che non fosse giusto vivere quella situazione, l’infertilità, anche lui lo avrà pensato. Allora ti rendi conto che Dio si è inventato una cosa straordinaria per curare due solitudini.

Quali timori si devono affrontare in questo percorso?

Una coppia che aspetta di conoscere suo figlio è piena di paura e di domande: mi vorrà bene? mi riconoscerà come mamma? se ne andrà via? tornerà dalla sua famiglia? è tutto incentrato su di te. Poi ti accorgi che la relazione si instaura da sola, va avanti da sola, io oggi non ho più la paura che andranno via, perché se ne andranno via, perché tutti i figli se ne vanno via. Quello che accade è così ricco di provvidenza, ricco di senso, che io mi sono detta: “Caspita era proprio questo quello che volevo, era proprio questo che cercavo, forse il Signore lo sapeva prima di me meglio di me. Mi ha condotto in un modo tanto misterioso nella mia storia”.

Molte coppie iniziano con l’affido prima di fare domanda di adozione, anche per voi è stato così?

Inizialmente abbiamo fatto domanda di affido, potevamo fare quella perché per l’adozione serve essere sposati da tre anni. Il padre spirituale ci aveva detto “pensateci bene, ma siete sicuri…”, noi ci siamo buttati e per 5 anni abbiamo avuto Alessandro. La grazia più grande è stata comunque la comunione tra di noi, davvero frutto del sacramento del matrimonio. L’affido è stata un’esperienza devastante, aveva ragione il padre spirituale, perché Ale era un bambino con delle ferite laceranti, e quindi i suoi atteggiamenti erano esasperati sia in positivo che in negativo, non c’erano mezze misure. Le difficoltà sono state tante, è stata dura, ad un certo punto ti guardi in faccia e dici “ma che stiamo facendo?” anche perché non è una vera e propria esperienza di genitorialità, quel figlio giustamente non ti chiama mamma, non starà con te per sempre ma rientrerà in famiglia, tu lo accompagni e ti comporti come un genitore ma è chiaro che non è figlio tuo per te e per lui. È una situazione davvero a perdere, il massimo della gratuità, ed il peso si sente tanto, veramente quando si dice l’amore pesa, è così. Il grande servizio che ci ha fatto Alessandro è che ci ha fatto toccare il limite, laddove non eravamo più disposti ad amare, perché è arrivato un punto in cui l’esasperazione era tale – mi vergogno un po’ di questa cosa ma la dico per amore della verità – in cui io ad un certo punto non ne potevo più, ero troppo frustrata e ho chiamato gli assistenti sociali e gli ho detto “venite a riprendervelo”. Lì mi sono uscite le croste dagli occhi: io che mi sentivo brava, buona perché avevo il bambino che soffriva in affido e mi accorgo che non sono disposta a volergli bene fino in fondo, perché dove tocca il mio egoismo io lo mollo, lo scarico. Poi è passato tutto e lo abbiamo tenuto con noi fino a che il giudice non lo ha rimandato a casa. L’affido finisce ma non finisce mai in realtà, Alessandro oggi ha 18 anni, i baffi, la fidanzatina e fuma, e stamattina ha chiamato mio marito Christian per farsi accompagnare ad una visita. Lui sa che casa nostra è sempre aperta per lui, ogni tanto arriva, mangia, scrocca la wifi, dorme. Fa parte della famiglia.


GABRIELLA GAMBINO

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E se qualcuno vi chiedesse: se in fondo in fondo non avete rimpianti per non aver potuto generare un figlio nella carne?

Ogni tanto me lo chiedono: “all’esperienza del pancione non ci pensi?” Non lo so, mi viene da dire che quello che ho mi basta e quello che non ho non mi manca. Questa è la mia storia, non poteva essere un’altra, oggi lo so. Per me la prima ecografia è stata vedere la foto di Miguel quando ci hanno convocato per proporci l’abbinamento, tutto può essere in qualche modo paragonato alla genitorialità biologica, ma è ancor più vero il contrario: ogni genitorialità biologica in realtà somiglia alla genitorialità adottiva molti di più quando non si possa credere. Anche chi porta un figlio nel grembo deve ricordarsi che quel figlio non è suo, è una persona che ti è affidata da Dio, non è mai proprietà. la nostra psicologa del servizio adozioni dice sempre: diventare genitori è sempre un’adozione, tutti i genitori sono adottivi e tutti i figli sono adottivi. Nel paradigma dell’adozione c’è tantissimo della fede, tutti noi siamo figli adottivi nel Padre. Solo i bambini adottivi sanno affidarsi veramente contro ogni logica, sono un modello di fede, fanno quel salto nel vuoto, vanno via con te che sei praticamente un estraneo, la prima notte si addormentano tra le tue braccia, lo fanno per non morire di solitudine, per spirito di sopravvivenza. Io e mio marito siamo rimasti scioccati davanti a tutto questo, ecco perché poi diciamo benedetta sterilità, guarda quanta bellezza che si dischiude.

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