Abbiamo naturale repulsione per il dolore, ancor più se colpisce gli innocenti, i bambini. Ma se ce ne teniamo ad eccessiva distanza non capiamo davvero cosa significhi e che occasione offra. Non è un abisso, è un crinale…di Massimo Ippolito
Quasi un anno fa, a Roma, veniva annunciata l’uscita del libro sulla famiglia di Filippo, o meglio, sulla famiglia di Stefano e Anna. Ricordo tutte le domande che riempirono l’attesa di quell’annuncio: chi sapeva del libro da tempo, chi invece credeva che la novità… consistesse in una nuova gravidanza, poi arrivò il giorno e tutti seppero. Anche i più tardi a capire, come me.
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Appena appresi del libro e vidi l’immagine della copertina proiettata sul maxischermo, un velo di malinconia mi coprì: avevo letto da meno di un anno la storia di Chiara Corbello Petrillo e mi bastava. Non avrei voluto leggere un altro libro dove il finale era più famoso dell’inizio.
Per oltre sei mesi non volli leggere il libro ma a Giugno ruppi gli indugi e feci una scelta, così me lo feci regalare per il compleanno. Lo dovevo innanzitutto a Filippo – che non ho mai conosciuto – perché è facile fare applausi a scena aperta a chi porta la croce senza però capire quanto fa male o quanto si è stanchi nel portarla. Allora ho fatto il cireneo virtuale, il cireneo emotivo. Ho preso il libro in mano e mi sono preparato a tuffarmi nell’abisso del dolore pregando che durasse il meno possibile, un po’ come i 10 metri che fece Mino Damato di corsa sui carboni ardenti a piedi nudi.
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Ma accadde un imprevisto.
Non trovai l’abisso del dolore. Trovai sì il dolore, ma non l’abisso. Spesso si associa la profondità al tema del dolore, come ad esempio l’espressione: un profondo dolore. Oppure vi si associa il buio, perché se il dolore è in profondità si immagina sia buio anche il luogo dove ti conduce.
Io invece ho trovato nella storia di Filippo un crinale del dolore, non un abisso. Sembra che il dolore immobilizzi per sempre. Sembra che si perda nel momento in cui il dolore ti tocca. Sembra che non ci siano più scelte da fare: se nel mondo di apparenze in cui viviamo, il dolore ti tocca, hai già perso, non hai più da scegliere niente. Nella storia di Filippo, invece, le scelte fatte sono tantissime. E quando ci entri capisci: quando uno è scomodo non rimanda le scelte. Quando uno è scomodo non si addormenta nelle abitudini o nelle comodità. Quando uno è scomodo, rimane sveglio. Le comodità invece rammolliscono, ti addormentano se non vengono viste come doni, come trampolini, come opportunità. E non basta capire la trappola della comodità per diventare immuni al meccanismo.
E’ nel crinale che scegli, non in fondo all’imbuto. Soffrire non aggiunge niente ai propri meriti morali, ma mi porta a schierarmi, a scegliere. Perché è più difficile stare fermi quando si è scomodi. Il crinale mi permette di rischiare (quindi di vivere: rischia chi è vivo!), il fondo dell’abisso è come il punto più basso di una V: non ho più energia e non ho alternative. E’ la fine del Diavolo dantesco. Il dolore invece porta sul crinale, come il punto più alto di una A: posso fare bene o male, scegliendo uno dei due versanti, ma posso scegliere.
Questo ha fatto la famiglia di Filippo: non ha smesso di scegliere, di sperare, di combattere. Non è questa la vita?
Noi ci accorgiamo della vertigine che proviamo quando ci capita di essere sul crinale? Ci sentiamo come Dio o no? Lui ha scelto sul crinale. Lui è persino morto su un crinale. O preferiamo vederci già in fondo alla “V” per non rischiare? Facendo scegliere al fato barbaro, senza reagire, senza combattere? Senza sperare?
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Troviamo normale sentir parlare di profondissimo dolore mentre stonerebbe sentir parlare di altissimo dolore, a meno che altissimo non venga scritto con la A maiuscola.
A come crinale.