“Gaudete et exsultate” è sicuramente uno dei documenti più rappresentativi del pontificato bergogliano. Sul primo numero dicembrino de La Civiltà Cattolica il gesuita Diego Fares ha analizzato il capitolo V dell’Esortazione Apostolica, ricavandone una concisa ed efficace “to do list” per la santificazione nel quotidiano. Che poi è il fine ultimo dei documenti, del Vaticano, della Santa Sede, delle definizioni dogmatiche e della stessa incarnazione, passione, morte e risurrezione di N.S.G.C.…
[…] Un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola: […] di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo.
Con questa frase memorabile Alessandro Manzoni concludeva, nel 1840, l’introduzione alla seconda edizione del suo capolavoro. Mi ha sempre stupito considerare come una duplice osservazione che trabocchi tanto buonsenso debba cozzare con un’altrettanto cruda constatazione, che una volta si esprimeva nell’adagio “libri ex libris fiunt”. La maggior parte della civiltà occidentale, e non solo di quella, si riduce in fondo a una formicolante impresa di commento (pro vel contra) di pochi grandi monumenti dello spirito umano: testi religiosi come i Veda, il Corano e (di gran lunga più feconda) la Bibbia giudaico-cristiana; epopee epico-fondative come l’Iliade e l’Odissea; corpi filosofici come quello platonico e quello aristotelico.
Non tutti i libri, non tutte le parole, si fanno “carne e sangue”
Non che Manzoni avesse torto, il fatto è che al mondo ci sono libri di cui si potrebbe fare a meno (talvolta anche volentieri); libri che val bene leggere e rileggere, se si è bravi perfino commentare ma le cui chiose non diventano a loro volta “letteratura” con la L maiuscola (è il caso degli stessi Promessi Sposi, o della Commedia o dell’Eneide); e poi ci sono libri la cui fecondità è tanto vitale e prorompente che anche le opere derivanti diventano plebiscitariamente “Letteratura”.
La Bibbia, come accennavo, gode di una particolare sovreminenza anche sugli altri capolavori: qual è la ragione, posto che ogni buon libro è “nutrimento per l’essere umano”? La risposta teologica è a portata di mano: è un testo ispirato, anzi – in senso pieno e stretto – essa è il testo ispirato (più di qualunque altro e così tanto che quando un testo si dice “ispirato” lo si dice analogamente a quello). La teologia però può permettersi di offrire spiegazioni trascendenti dei fenomeni, non di sostituirsi ad essi: la risposta fenomenica, dunque, è che – usando una parola confluita nel Simbolo niceno-costantinopolitano – le Scritture di cui consta la Bibbia sono vivificanti, ossia non solo sono vivaci (anche Molto rumore per nulla è un’opera vivace), ma rendono vivo tutto ciò che si accosta a loro, a cominciare dalle vite dei suoi lettori.
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Questa vita nuova, che è pure una novità viva, la teologia giudaico-cristiana la chiama “santità”, ed è il motivo radicale per cui la Bibbia non invecchia mai e resta così in testa a tutta la letteratura mondiale che in qualche modo ne sta al di sopra: a differenza di tutti gli altri libri, la Bibbia non è stata scritta e trasmessa per produrre letteratura, bensì per produrre santi.
La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale.
Così leggiamo nel celeberrimo capitolo V della Didaché a proposito dei cristiani, e questo è pure il motivo per cui Tommaso d’Aquino affronta nella prima quæstio della Summa la domanda su che tipo di scienza sia la “divina dottrina”: curiosamente, il Dottore Angelico afferma non trattarsi di scienza teoretica (il grado più alto nella tassonomia epistemologica aristotelica), bensì di scienza pratica (per lo Stagirita tali scienze erano l’etica e la politica).
Trittico bergogliano
Dev’essere per questo che, a mio personale giudizio, lo scritto più importante di Papa Francesco è l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, nella quale mi paiono riecheggiare (e contemporaneamente trovare distinzione) alcune belle pagine di Evangelii Gaudium. Altro documento capitale è Laudato si’, ma qui sarebbe lungo illustrare i nessi con gli altri due testi (speriamo solo di non accorgercene troppo tardi…).
In un tempo che ha offerto a molti osservatori lo spunto per stigmatizzare l’estrema prolificità del magistero pontificio ordinario, mi pare che Gaudete et exsultate brilli per essenzialità: la forza delle sue pagine sta nel loro rimettere schiettamente al centro dell’attenzione il fine stesso di tutta l’avventura cristiana – dalla Chiesa alla Scrittura al Magistero, lungo tutto il corso della Viva Tradizione – e per questo pur essendo numerose non risultano ridondanti né superflue.
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A rimandarmi a Manzoni, però, è stato stavolta padre Diego Fares, un gesuita che sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica ha proposto un commento al solo capitolo V della Gaudete et exsultate: un articolo su un’esortazione apostolica, anzi su un suo specifico capitolo, la quale a sua volta è per propria natura un’opera che ricapitola e rilancia un contenuto della Tradizione cristiana, anzi il contenuto pratico fondamentale – quello senza il quale gli uomini neppure conoscerebbero «i due misteri fondamentali della fede». La sfida alla ridondanza partiva con termini svantaggiosi… eppure le chiose del padre Fares sono state perfino illuminanti (qui l’abstract sul sito de La Civiltà Cattolica).
Un “protocollo sostanziale”
Anzitutto Fares mette in evidenza una singolare anomalia nel linguaggio di Papa Francesco: “protocollo” è vocabolo relativamente ricorrente – prima nell’intervista al Direttore Spadaro, poi a Santa Marta nella memoria di sant’Ireneo, ancora nell’incontro brasiliano coi giovani argentini (sempre nel 2013) e varie altre volte – ma che colpisce in quanto si tratta di
un termine polisemico che, a seconda del contesto, può significare qualcosa di meramente formale, come le regole di comportamento in una cerimonia, o qualcosa che ha importanza vitale, come le procedure da seguire nel caso della cattura di ostaggi o nel corso di una catastrofe, dove sono richiesti coordinamento, rapidità e precisione per salvare il maggior numero possibile di vite.
Diego Fares, Un “protocollo” per la buona battaglia spirituale, in La Civiltà Cattolica 4043, 426
È quindi nella Chiesa-ospedale da campo che il “protocollo” torna non solo utile, ma talvolta essenziale. Per questo Francesco metteva le mani avanti:
Non ci si deve aspettare qui un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni che potrebbero arricchire questo importante tema, o con analisi che si potrebbero fare circa i mezzi di santificazione. Il mio umile obiettivo è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità.
Gaudete et exsultate 2
Fares osserva che
Francesco si è servito di questo termine ogni volta che ha fatto riferimento al giudizio finale. A nostro parere, ciò equivale a dire: l’unica cosa per cui valga la pena specificare dei protocolli è la misericordia. Questa, in quanto inesauribilmente creativa, evita qualsiasi rischio che il protocollo diventi meramente formale; al contrario, nel concretizzarlo, gli dà dinamismo.
Fares, cit. 426-427
Un protocollo efficace dev’essere chiaro e agevole, e così è per il “grande protocollo” (GE 95), nel quale Fares distingue quattro semplici tappe.
Fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita
Per strappare il testo papale alla disattenzione strutturale del lettore “abituato a certa letteratura”, il padre Fares osserva:
C’è una domanda pertinente da formulare: fare festa quando il Signore vince “in che cosa”? E la risposta è: in ogni passo avanti che noi, suoi discepoli, facciamo nell’annuncio del Vangelo. Egli stesso festeggia le nostre vittorie quando, resistendo alle tentazioni e alle opposizioni del Maligno, facciamo progressi nell’annuncio del Vangelo.
Ivi 427
Il gesuita offre quindi un commento estremamente suggestivo e “plastico” che integra, si parva licet magnis componere, la comunicatività dell’immagine bergogliana con un corollario ecclesiologico: nessuna storia di santificazione è una gara individuale, ma piuttosto il momento personale di un gioco di squadra.
Questo combattimento non ha una bellezza che si possa contemplare “dal di fuori”, restandone spettatori. Avviene, in questo caso, qualcosa di simile a ciò che accade tra i giocatori che hanno segnato un punto o ne hanno evitato uno dell’avversario: si scambiano reciprocamente congratulazioni e rallegramenti. Lo spettatore non coglie appieno queste continue felicitazioni, mentre i protagonisti sì. Per loro, esse fanno parte integrante della lotta: festeggiare ogni punto li lega come squadra, rende tutti partecipi di ciò che ha fatto uno di loro, fissa un risultato positivo – anticipazione del trionfo sperato – come qualcosa di bello da cui partire in vista del punto successivo e, cosa di non minor conto nella battaglia, fa presagire la sconfitta dell’avversario.
Ivi 428
Immagine di eloquenza veramente straordinaria: così è la Chiesa, dove il successo di uno è il trionfo di tutti e la vittoria comune è gloria personale di ciascuno. Come diceva il san Bernardo di Dante a proposito del Poeta:
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti i miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,[…]
[…] vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!Pd XXXIII 28-39 passim
All’immagine sportiva – da Paolo in qua grande immagine della vita spirituale – Fares aggiunge le coordinate della spiritualità ignaziana, anche impreziosendo la pagina di perle come questa (estratta dagli Esercizi Spirituali predicati ai gesuiti nel 1978):
Tra noi [gesuiti], per quanto possa sembrare paradossale, la vanagloria più ricorrente è il disfattismo. Ed è vanagloria, perché preferiamo essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che soldati semplici di un battaglione che, per quanto decimato, continua a combattere.
Fares, cit. 428-429
Non ostinarsi a guardare la vita solo con criteri empirici
Le immagini belliche sono costitutive dell’ambrosia di cui si nutrono tutti i gesuiti del mondo, dal momento che l’immaginario del loro fondatore è in principio quello di un soldato di ventura. Il realismo con cui Ignazio ha insegnato a guardare a Satana – nella meditazione nota come quella “dei due eserciti” – viene ripreso da Francesco e da Fares per tenere desta l’attenzione del battaglione e dei singoli soldati: quando combatti ricòrdati che davanti a te non c’è “la tua idea di male”, “i tuoi limiti”, “le tue imperfezioni”, ma colui che ultimamente causa e sfrutta tutto ciò per rovinarti la vita e renderti una prova vivente (così s’illude il Nemico) del fallimento di Cristo.
Si può cogliere profondamente, intus legere, soltanto ciò che è amabile e si ama. L’amore è l’elemento vitale della conoscenza profonda. E poiché non si può amare il male, questo è inconoscibile nella sua essenza. Il male è una di quelle realtà che «vanno pensate soltanto quanto basta a prendere la direzione opposta, per respingerle senza entrare in dialogo» [Meditation on the Tarot]. Per questo il Papa suggerisce di utilizzare i criteri della Sacra Scrittura, nella quale il Maligno è presente dalla prima pagina della Genesi fino all’ultima dell’Apocalisse, e incentra la nostra fede – criterio soprannaturale – sull’insegnamento di Gesù, che ci fa chiedere al Padre di liberarci dal Maligno. Non soltanto dal male in generale o in maniera astratta, ma dal Maligno, espressione che «indica un essere personale che ci tormenta» (GE 160). Questa convinzione di fede, basata sul Vangelo, «ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva» (ivi).
Ivi 430
Il tutto senza indulgere in fantasticherie teologiche o rivelazioni private (neppure se autenticate dalla Chiesa): «Chi sia Satana – Fares ricorda che lo scrisse Romano Guardini – lo dice in modo competente solo la Rivelazione».
Non smettere di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella
Questa è forse la parte del protocollo che più mi ha commosso, perché mentre la leggevo già lumeggiava la risposta alle mie obiezioni: come si fa a essere sicuri di star lavorando per il Signore e per “la Squadra” (cioè la Chiesa) e non per soddisfare il proprio narcisismo, che è tanto più pericoloso quanto più è spirituale? Come si fa a “discernere”, cominciando dal discernimento fra bene e male per passare a quello tra bene e meglio e infine a quello tra vero e falso discernimento? Fares spiega cristallinamente il dettato ignaziano soggiacente al testo di Francesco:
Incentra i sogni e i desideri sulla nostra dedizione, di cui possiamo essere protagonisti e di cui è sempre possibile sperimentare la bellezza. Si tratta di sognare di offrire, non di sognare di possedere.
Ivi 431-432
E quando Francesco torna a scrivere che “il tempo è superiore allo spazio” (affermazione così aperta da prestarsi a equivoci, e tuttavia spesso usata dal Pontefice) ciò che si intende è precisamente che in quell’offerta di sé – inconfondibile con il desiderio, talvolta velleitario, di “diventare questo” o “essere quello” – «diventa realtà il principio». Ed è per questo che soltanto nel tempo – non negli spazi che si conquistano – si acquista la certezza di aver operato e di star operando per il bene.
Non spaventarsi delle cose grandi, ma concentrarsi su quelle piccole
Squisitamente ignaziano, o perlomeno gesuitico, anche questo passaggio, che è la parafrasi bergogliana dell’adagio proprio della Compagnia “non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo, divinum est”. Il padre Miguel Ángel Fiorito (maestro spirituale del giovane padre Bergoglio, e dunque fonte interessante per indagare l’uso dell’espressione in Francesco) spiegava che il detto
si potrebbe tradurre così: «Non essere costretto da ciò ch’è più grande, essere contenuto in ciò ch’è più piccolo, questo è divino». […] Potremmo tradurlo anche così: «Senza indietreggiare davanti a quel che è più elevato, piegarsi a raccogliere ciò che è apparentemente piccolo al servizio di Dio», oppure: «Tendiamo a ciò che è più lontano, preoccuparsi di ciò che è più vicino».
Ivi 425
Protendersi verso l’alto e piegarsi verso il basso sono i due movimenti che descrivono la tensione parabolica della santità cristiana: non è il perseguimento dell’atarassia né la dissipazione nell’assistenzialismo – è contemplazione e servizio, soprattutto disponibilità a lasciarsi guidare da Uno che opera per vie immediate e per vie mediate, cosa che esige la disponibilità a lasciar fare, a non pretendere di scegliere in toto quale via di santificazione correre, quali umiliazioni attraversare, quali compagni di strada avere e cosa ricevere da loro. Una via di spoliazione che riveste di ricchezza incorruttibile.
In una delle sue lezioni – conclude Fares –, Bergoglio collegava questa immagine del burattino a un’altra altrettanto suggestiva, quella dell’aquilone. Ammoniva riguardo a due tentazioni: quella di fare abortire i grandi desideri della gioventù «trasformandoci in una specie di aquilone senza cielo» o, al contrario, di non tradurre i sogni nella «piccola bottega della fedeltà quotidiana [che] si trasforma in una vistosa scenografia affollata di sagome e marionette», facendo di noi «un aquilone al quale il cielo abbonda, ma gli manca il filo: inevitabilmente si perde nell’oscurità dello sforzo sprecato».
Ivi 434
Il posto di battaglia del “soldato semplice”
È questo il profilo di una santità concreta, palpabile, fatta di grandi vette nascoste in vite insospettabili: la luce di questa santità è palese e occulta come la nota lettera di Poe, che nessuno vede perché sta sul tavolo. Così Fares ricorda che nella prima parte dell’esortazione apostolica Papa Francesco aveva fatto l’esempio della signora che va al mercato e torna a casa, e che nel suo tragitto quotidiano incontrava (e sfruttava bene) occasioni di santificazione fatte di mortificazioni dell’uomo vecchio e di atti di carità, di preghiera, di ascolto, di laboriosità. E non è una “santità di serie B”, diciamo “quel che si può fare senza diventare Trappisti”:
Quattro passi avanti – spiega Fares –, quattro uscite da sé, nelle quali, grazie all’ascolto – al suo saper ascoltare il figlio con pazienza e affetto e al suo sentirsi ascoltata dalla Vergine nella sua angoscia –, questa donna passa dal resistere alla maldicenza al coltivare la conversazione spirituale.
Ivi 435
Manzoni non fu l’unico a preoccuparsi del rango della sua letteratura, ovvero ad avvertire che il suo capolavoro si sarebbe attestato (con onore) tra i libri belli ma non tra quelli i cui commenti sarebbero stati a loro volta letteratura, perché già scrivere pagine vivificate è moltissimo, per una penna mortale – che le stesse siano pure vivificanti è cosa che solo il Cielo dispensa. Ma in un’altra introduzione – quella bellissima e malinconica introduzione agli Adagia – Erasmo da Rotterdam annotava mestamente un pensiero su cui si arrovellava, dopo aver accatastato con incredibile e certosina pazienza innumerevoli massime, proverbi e detti in greco e in latino: «E quando avverrà che tutta questa mole di carta possa insegnarci a vivere meglio?».
Ecco, la signora che andava al mercato stava riuscendo proprio in ciò cui Erasmo e Manzoni – ma pure Ignazio e Francesco e Fares – erano e sono protesi.