Non importa quanto sia competente chi abbiamo di fronte: noi abbiamo appena googlato qualcosa e siamo sicuri di poter sostenere un confronto dialettico – ma diciamo pure uno scontro – “alla pari”. Almeno da dietro uno schermo… e qual è la ricaduta di questa diffusissima finta cultura nel mondo vero, nelle relazioni di cui è composto? Risponde l’autore di un saggio dedicato alla “morte della competenza”.Vale per gli economisti e per i vaticanisti, per i sinologi e per i teologi: la dittatura dei like e degli share ha reso la parola di ogni specialista equivalente a quella di qualsiasi opinionista (anzi è sensibilmente meno quotata). Le “legioni di imbecilli” che – ricordava Umberto Eco nel giugno 2015 dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in Cultura dei media all’Università di Torino – «una volta parlavano solo al bar dopo due o tre bicchieri di rosso, e quindi non danneggiavano la società», oggi potrebbero perfino avere rappresentanza politica.
Si sarebbe però ingenerosi a tacciare certi macrofenomeni di essere causa di questo male, laddove evidentemente non ne sono se non espressioni, sintomi. Giorni fa però Tom Nichols – studioso statunitense, “conservatore anti-Trump” – ha dichiarato cose interessanti in un’intervista rilasciata a Eugénie Bastié per il Figaro. Soprattutto sui social, anche nel milieu cattolico, tutti facciamo esperienza della contrarietà a cui ci espone l’apparente democratizzazione del sapere… o viceversa della tentazione di “spiegare il Credo agli apostoli”. Ne riportiamo quindi ampi stralci (e lasciamo in fondo il video della presentazione dell’edizione italiana).
Eugénie Bastié: Nel suo libro, The Death of Expertise [“La morte della competenza”, pubblicato in italiano col titolo “La conoscenza e i suoi nemici”] lei deplora il fatto che l’ignoranza sia ormai divenuta una virtù. Che cosa intende?
Tom Nichols: La gente è sempre stata diffidente riguardo agli intellettuali e agli esperti. È perfettamente normale voler interrogare il proprio dottore, soprattutto quando ci porta cattive notizie oppure afferma qualcosa che non vogliamo sentire. Ciò che cambia oggi non è che la gente diffida degli esperti, ma che si pensino più intelligenti di loro, pressappoco in tutti i campi. Una cosa è voler dire al proprio medico “gradirei una seconda diagnosi”; altro dirgli “lasci che le spieghi l’oncologia e la virologia”. Pressappoco in tutti i settori, dall’insegnamento alla diplomazia, passando per mestieri dalle competenze scientifiche assai tecniche, ho raccolto, storia dopo storia, le testimonianze di esperti che hanno incontrato profani i quali non soltanto non volevano sentir parlare delle loro competenze, ma pretendevano anche di rivolgere loro rimproveri e consigli. «Lei è un ambasciatore? Lasci che le spieghi la diplomazia». La follia.
E. B.: Lei descrive il crescente ascendente dell’emozione sulla ragione. Quali sono le sorgenti di questo nuovo anti-intellettualismo?
T. N.: Io penso che esso si radichi in due aspetti della società moderna: l’abbondanza e il narcisismo. Nei Paesi sviluppati, generalmente la gente non si considera “ricca”, anche se conduce una vita incredibilmente facile, anche se paragonata alla mia infanzia negli anni 1960. Diamo per scontato che le cose funzionino – e parlo di cose semplici come dell’acqua potabile, dei viaggi aerei sicuri o dei cellulari. […] Questa società dell’abbondanza ci porta a pensare che le cose siano più facili di quanto esse non sembrino, e così siamo stupefatti e sconvolti quando le cose non vanno come noi auspichiamo. E in quel caso montiamo su tutte le furie, in modo irrazionale.
Il peggior problema, tuttavia, è il narcisismo. Siamo ormai a diverse generazioni di distanza dai movimenti di ribellione della gioventù degli anni 1960, ma continuiamo a idealizzare la giovinezza e consideriamo “la rimessa in discussione dell’autorità” come un fine in sé. Abbiamo tirato su generazioni di bambini – almeno qui, negli Stati Uniti, e so che è un problema anche in alcune parti del Canada e dell’Europa – che si credono intelligenti come non importa chi, ritengono che le loro opinioni su qualsivoglia argomento abbiano un valore e che non esistano risposte sbagliate. Abbiamo creato un mondo in cui è privilegiata l’uguaglianza di fronte alla legge, e abbiamo trasformato quest’obiettivo politico in un ormai impazzito egualitarismo. “Uguaglianza” significa ormai “uguaglianza su tutti i fronti”. E così siamo divenuti dei difensori militanti dei nostri gusti, del nostro comfort e delle nostre credenze, e non possiamo più sopportare di sentire che ci sbagliamo su un argomento.
E. B.: Lei è un conservatore. Non pensa che il relativismo culturale e il generale declino della cultura siano una conseguenza della decostruzione e dell’egualitarismo favoriti da una certa sinistra, in particolare nell’università?
T. N.: Negli Stati Uniti è molto alla moda addossare la responsabilità dell’anti-intellettualismo alla destra, e in particolare agli evangelici. E non mancano ragioni a sostegno di questa tesi. Ma sì, di certo: il postmodernismo universitario, secondo il quale la realtà dipende dalla percezione che ciascuno ne ha, ha contribuito a gettare le basi che hanno distrutto il pensiero critico dei nostri ultimi quattro decenni. Non c’è poi chissà quale gran passo, dal postmodernismo alla postverità, soprattutto quando si insegna che la “verità” è una sorta di costruzione sociale, piuttosto che qualcosa di conoscibile in sé.
E. B.: Qualche anno fa qualcuno ha potuto considerare che l’Internet permetterebbe la democratizzazione del sapere. Una tale supposizione era un errore?
T. N.: Il problema con l’Internet – e io sono un tecnofilo che ama l’era dell’informazione – è che non ci sono guardiani. Senza guardiani, l’Internet non è una biblioteca o una università a cielo aperto, ma un carnevale: potete sempre ottenere quel che volete, anche se non è cosa buona per voi. Io ricordo sempre ai miei studenti che l’Internet non dice ciò che abbiamo bisogno di sapere. Al contrario, risponderà a tutte le domande stupide che gli porremo, e ci darà sempre la risposta che siamo venuti a cercare.
E. B.: Che fare per riconciliare la democrazia e il sapere?
T. N.: Tanto i profani quanto gli esperti devono fare uno sforzo. Gli esperti condividono una parte della responsabilità: non sono abbastanza trasparenti sui loro metodi di lavoro, così come pure sugli errori che commettono – e ne commettono molti, come tutti gli esseri umani. Dovrebbero tendere la mano ai loro concittadini. Ora, gli esperti preferiscono sempre di più parlare unicamente tra loro, cosa che a mio avviso è un’ammissione di fallimento. Ma i profani debbono anch’essi dar prova di un po’ più di umiltà e ricordarsi che una società moderna riposa sulla divisione del lavoro, e che nessuno può sapere tutto in ogni momento. Essi devono dialogare con gli esperti ponendo domande ed ascoltando le risposte, e non dando lezioni a persone che hanno alle spalle decenni di studi e di esperienza nei relativi settori. Ancora più importante, bisogna impostare le nostre conversazioni sulla base della buona fede, piuttosto che partendo dall’ipotesi di essere più intelligenti di tutti quelli che incontriamo.