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La Santa Messa e le quattro lezioni più importanti della nostra infanzia

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Sito di p. Paulo Ricardo - pubblicato il 28/11/18

Poter dire a Dio “Perdono”, “Ti voglio bene”, “Per favore” e “Grazie” nella Santa Messa non è solo un privilegio unico per una semplice creatura. È un atto che trasforma costantemente

Una delle domande del vecchio Catechismo di San Pio X era: “Per quali fini si offre il Santo Sacrificio della Messa?” La risposta veniva data in quattro parti:

1. “per onorarlo (Dio) come si conviene, e per questo si chiama latreutico;
2. per ringraziarlo dei suoi benefici, e per questo si chiama eucaristico;
3. per placarlo, per dargli la dovuta soddisfazione dei nostri peccati e per suffragare le anime del purgatorio; e per questo si chiama propiziatorio;
4. per ottenere tutte le grazie che ci sono necessarie, e per questo si chiama impetratorio” (n. 657).

Adorazione, azione di grazie, richiesta e soddisfazione: la menzione di questi quattro obiettivi è presente in molti messali antichi, ed è ancora una lezione attuale di qualsiasi catechesi tradizionale sulla Messa. Quello che generalmente viene trascurato, però, è il rapporto di questi fini con le nostre vite concrete come esseri umani. In che modo queste quattro cose si relazionano al nostro benessere psicologico, emotivo e spirituale?

Un modo per affrontare la questione è tenere a mente le quattro cose più importanti che impariamo a dire quando siamo bambini: “Ti voglio bene”, “Grazie”, “Per favore” e “Scusa”. Queste quattro semplici espressioni non solo sono in grado di collocare giovani e adulti sulla via della felicità umana, ma offrono anche un’utile analogia per ciò che accade in ogni sacrificio della Messa.

Lezioni per la vita

La tragedia del linguaggio dopo l’Eden è che uno strumento originariamente progettato per indicare la realtà in modo corretto (come vediamo in Adamo nel caso degli animali) è diventato spesso un mezzo per manipolarla o offuscarla. Dire “Ti voglio bene”, “Grazie”, “Per favore” e “Scusa” può essere un atto di tremenda dissimulazione e perfino di sfruttamento, ma mi sembra evidente che quando un buon padre trasmette queste parole al figlio non è per dotarlo di strumenti di manipolazione.

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Per quanto possiamo parlare dell’importanza di insegnare ai nostri figli a “dire” “Per favore” e “Grazie”, il nostro obiettivo finale è far provare davvero queste cose. Quando una madre fa scusare il figlio con la sorella per averle tirato i capelli, in genere non le basta uno “Scusa” freddo e con uno sguardo di sfida e ostinato. Ovviamente il suo obiettivo è far capire al bambino che ciò che ha fatto è sbagliato, perché possa provare un vero pentimento per quanto ha commesso e cerchi di correggere l’ingiustizia, non limitandosi a pronunciare una sequenza specifica di suoni verbali. Lo stesso vale per le altre tre cose che istruiamo i nostri figli a “dire”.

Implicito, quindi, nell’obiettivo di educare bambini che dicano “Ti voglio bene”, “Grazie”, “Per favore” e “Scusa” è qualcosa di più grande di una semplice abitudine di buone maniere, o di una conformità e sottomissione senza senso alle convenzioni sociali. In qualche modo, l’idea è quella di trasformare una mente giovane nel tipo di persona amorevole, grata, deferente e, quando necessario, contritamente determinata a riparare. Forse perché queste qualità non sono solo scelte degne in sé, ma portano all’acquisizione di altre virtù.

Chi conosce l’importanza del pentimento, ad esempio, conosce anche l’importanza di perdonare (il che non è poco), e una persona veramente grata è più facilmente generosa con gli altri. Sicuramente una delle ragioni per le quali credenti e non credenti ritengono il servo spietato della parabola (cfr. Mt 18, 23-34) tanto riprovevole è il fatto di aver violato in modo grossolano entrambi questi principi di buonsenso.

Dietro queste semplici espressioni, quindi, risiede un’antropologia morale sana, un ampio abbozzo di quello che significa vivere bene. Parlando a livello ideale,

  • una persona in grado di dire sinceramente “Ti voglio bene” è capace di impegno, devozione e sacrificio;
  • una persona in grado di dire sinceramente “Grazie” riconosce, come vedremo, il dono immeritato della propria esistenza e il suo debito nei confronti di un mondo più ampio che non ha creato;
  • una persona in grado di dire sinceramente “Per favore” confessa la sua dipendenza da una realtà al di fuori di sé e respinge il principio per cui “la verità è relativa”, trascendendo l’egoismo debilitante che ne farebbe, per usare l’espressione di Walter Scott, un vile “disgraziato, tutto concentrato su se stesso”;
  • una persona in grado di dire sinceramente “Scusa” (o “Perdono”, per offese maggiori) sta facendo il difficile ma fondamentale ingresso nel mondo della conoscenza di sé, senza scuse né camuffamenti, mostrando il coraggio di riconoscere i propri errori e la volontà di correggerli.

Al contrario, una persona che non è stata educata in questi quattro ambiti e nelle disposizioni sottostanti è stata oggetto di una grave ingiustizia, perché non è stata stimolata a superare il proprio egoismo o, il che finisce per essere la stessa cosa, a comprendere la realtà della condizione umana.

I quattro obiettivi della Messa

Curiosamente, questa via quadriforme assomiglia in modo formidabile alla teologia tradizionale della Santa Messa. Per essere più specifici, dire “Ti voglio bene” in casa è analogo all’atto di adorazione che si verifica nella Messa, “Grazie” all’azione di grazie, “Per favore” alla supplica e “Scusa” alla soddisfazione.

Quando Nostro Signore si è offerto sulla croce come un sacrificio vivo, quel sacrificio includeva un atto infinito di adorazione nei confronti di suo Padre, di azione di grazie verso di Lui, di supplica o impetrazione per la nostra causa e di soddisfazione (o propiziazione, espiazione) per i peccati dell’umanità. Queste quattro componenti, a loro volta, vengono presentate da Cristo attraverso l’azione del sacerdote in ogni Messa, e noi fedeli assistiamo alla Messa per prendere parte ed essere arricchiti da questi fini.

I nostri atti di devozione non sono, ovviamente, identici a quelli di Nostro Signore. L’espiazione di Cristo, ad esempio, non includeva “Scusa” nello stesso modo del nostro, perché Egli non aveva nulla di cui essere perdonato, ma il nostro fragile tentativo di compensare i nostri errori in un atto di espiazione diventa efficace per l’infinita liberalità del nostro Dio crocifisso e risorto, esistendo quindi una profonda differenza tra i due atti.

I quattro turbamenti dello spirito

Un motivo per il quale questa analogia è significativa, dunque, è il fatto che indica che il sacrificio della croce – e per estensione quello dell’altare – contribuisce in modo potente alla perfezione soprannaturale del nostro potenziale naturale al bene, e anche alla restaurazione della nostra natura dopo la Caduta.

Per dimostrarlo, dobbiamo solo considerare il substrato emotivo di base dell’essere umano, alla luce dei quattro turbamenti dell’anima: allegria, desiderio, paura e tristezza. Questa utile classificazione è stata utilizzata da Cicerone (cfr. De finibus bonorum et malorum, 3, 10; Tusculanae Disputationes, 4, 6), il quale l’ha presa in prestito dagli stoici, e poi verrà usata da pensatori cristiani come Sant’Agostino (cfr. Confessioni, X, 14, 22).

Le quattro emozioni a cui si riferisce Cicerone riguardano un interessante rapporto con le quattro espressioni di cui abbiamo parlato e con le quattro finalità della Messa – non che si incastrino perfettamente l’una nell’altra allo stesso modo, ma atti positivi di adorazione, azione di grazie, supplica e restituzione contrita portano alla perfezione i nostri istinti più fondamentali di gioia, desiderio, paura e tristezza.

Desiderio

Sul piano naturale, ad esempio, il puro desiderio personale viene umanizzato e sublimato dall’atto semplice e sincero di dire “Per favore”. Anziché strappare ciò che vogliamo, ci riconosciamo un limite di proprietà e chiediamo umilmente che questo limite venga ridisegnato, scambiando la brutalità della coercizione con la gentilezza della cortesia. La supplica consiste, quindi, in una sublimazione del desiderio, non nel senso corrotto di Freud di sopprimere la libido, ma nel senso genuino di rendere il desiderio sublime o elevato.

È questo senso di sublimità che trova la sua espressione più elevata nella Messa, in cui il desiderio personale viene perfezionato in modo soprannaturale nella richiesta altruista che rivolgiamo non solo per noi stessi, ma per tutti gli uomini. Quanto è lontano dal materialismo della “preghiera di Jabes” (cfr. 1 Cronache 4, 10), in cui i cristiani vengono incoraggiati a pregare per le piccolezze di questa vita come se dentro di sé non portassero alcun desiderio di eternità. La Messa, al contrario, esiste sia per espandere e riordinare i nostri desideri perché i beni maggiori abbiano la priorità su quelli inferiori che per trascendere anche questi.

Ciò è particolarmente chiaro nelle preghiere della colletta del Messale tridentino per le domeniche dopo la Pentecoste, il periodo dell’anno liturgico corrispondente al tempo della Chiesa. Le collette riflettono una tendenza ricorrente a riorientare e aumentare il desiderio dei fedeli. Oltre a chiedere che vengano esaudite le nostre richieste, ad esempio, le preghiere chiedono un cambiamento in ciò che chiediamo:

  • Fac nos amare quod praecipis, “facci amare i precetti della tua legge” (XIII domenica);
  • Insere pectoribus nostris amorem tui nominis, “infondi nel nostro cuore l’amore per il tuo nome” (VI domenica);
  • Fac eos, quae tibi sunt placita, postulare, “fa’ che ti chiedano [coloro che ti invocano] ciò che ti è gradito” (IX domenica), ecc.

E una volta che i nostri desideri si sono orientati verso i beni maggiori, la Chiesa va oltre e dichiara che Dio supererà perfino quei beni e ci darà, come si dice nella colletta della XI domenica, quod oratio non praesumit, “quello che non osiamo sperare dalla povertà delle nostre preghiere”.

Tutta questa teologia del desiderio, dell’impetrazione e della trascendenza in nessun altro punto è forse più bella ed espressa succintamente che nella colletta per la V domenica dopo la Pentecoste:

“O Dio, che hai preparato per chi ti ama beni invisibili, infondi nei nostri cuori il fuoco del tuo amore e fa’ che, amandoti in tutte e al di sopra di tutte le cose, raggiungiamo l’effetto delle tue promesse, che superano ogni nostra speranza”.

Sarebbe necessario un altro saggio per svelare i diversi presupposti di questa colletta per quanto riguarda il telos della mente umana e il suo rapporto con l’ordine creato e il suo Creatore. Ci basti dire che il “Per favore” del desiderio umano viene qui trasposto a un livello completamente nuovo.

Paura e tristezza

Dall’altro lato, paura e tristezza sono entrambe responsabili per l’atto di chiedere scusa e offrire riparazione, ma solo se questi atti sono autentici. Una richiesta di scuse imperfetta ha come unica motivazione la paura: “Ti sto chiedendo scusa non perché sia veramente pentito di ciò che ho fatto, ma perché ho paura di quello che mi farai se non ti chiedo perdono”. La richiesta di scuse perfetta, al contrario, comporta il sentimento della tristezza: “Vedo che ti ho ferito in qualche modo e questo mi ha davvero rattristato”.

Una richiesta di scuse perfetta, comunque, implica anche la paura – non della rappresaglia, come nel caso precedente, ma di essere allontanati dalla persona amata. San Tommaso distingue due tipi di timore:

  • quello servile, come quello di uno schiavo che ha paura di essere punito dal suo signore;
  • quello nobile o filiale (cfr. Summa Theologiae, II-II, q. 19; anche I-II, q. 67, a. 4, ad 2; II-II, q. 7, a. 1), come quello di un marito che teme di fare qualcosa per la moglie per paura che lei perda il rispetto che nutre nei suoi confronti, non temendo che lei lo aggredisca per ciò che ha fatto.

Anche se il timore servile ha la sua importanza in questa vita (essendo anche sufficiente per fare un atto di contrizione, pur se imperfetto), è ovviamente inferiore al timore filiale, motivato più dall’amore che dalla semplice preservazione di sé.

Lo stesso accade con la propiziazione nel culto divino, che presuppone una tristezza per le ingiustizie che commettiamo e una paura di offendere il Dio che amiamo e che ha fatto tanto per noi.

Sì, il timore può spesso essere solo quello di andare all’Inferno, quel presentimento per cui se dormo la domenica anziché andare a Messa sto commettendo un peccato mortale; quella paura, per quanto possa sembrare poco nobile, può portarmi a Messa e perfino aprirmi alle grazie che vi possono essere ottenute. Ma come ha osservato ironicamente una volta Sant’Agostino, “le persone che hanno paura di peccare a causa dell’inferno hanno paura non del peccato, ma del fuoco”. Come l’uomo emotivamente maturo è motivato dalla paura nobile più che da quella servile, l’uomo spiritualmente maturo teme più il potere distruttivo intrinseco al peccato e l’effetto che questo ha sull’amicizia con il suo Creatore del giudizio estrinseco che lo attende alla fine di questa vita.

Gioia

Il sentimento della gioia, infine, accompagna gli atti sinceri di dire “Ti voglio bene” e “Grazie”. L’amore, di fatto, non è sempre accompagnato da un’allegria euforica; spesso comporta tristezza e sofferenza. Anche se sembra strano, però, perfino il dolore dell’amore è meglio della sua mancanza (assumendo che stiamo parlando di un amore ben ordinato, non della concupiscenza), ed è solo attraverso l’amore che si può sperimentare la vera gioia.

Lo stesso vale per la gratitudine, anche se non è più tanto facile riconoscerlo come prima. Per pensatori come Immanuel Kant, dover dire “Grazie” è un’occasione più di tristezza che di gioia, perché a suo avviso la gratitudine implica il debito, e questa è una minaccia all’autonomia personale, la base della filosofia kantiana e della democrazia liberale moderna.

Questa visione legalista ignora però l’effetto di liberazione che i legami umani hanno sull’individuo. Per gli antichi, la risposta appropriata al difficile lavoro dell’interdipendenza umana era la pietas, quella nobile devozione alla propria famiglia, alla propria terra, e in ultima istanza a Dio stesso. Era un “debito” che le persone erano felici di avere, perché risiedeva in un’abbondanza di beni che sapevano di aver ricevuto in modo immeritato. L’atto di ricordare questi benefici, a sua volta, era una fonte di felice gratitudine. Con le parole di Seneca, “l’uomo più ingrato di tutti è quello che ha dimenticato un beneficio… non è possibile che un uomo sia grato se ha perso completamente la memoria” (De beneficiis, 3, 1).

La gratitudine, quindi, non è solo una componente importante del carattere morale di qualcuno, ma un sintomo del conformarsi alla realtà, ovvero la capacità di ricordare in modo debito i veri benefici che qualcuno ha ricevuto da benefattori reali, e di reagire a queste verità in maniere appropriato.

E, dirlo dovrebbe essere superfluo, tutto questo indica in modo speciale l’azione di grazie che prestiamo a Dio nella Messa, quell’atto supremo di anamnesis istituito dal Signore stesso, di ricordare e quindi rappresentare il bene più grande già ricevuto dall’umanità nella storia. Non senza ragione, l’Aquinate vede la gratitudine come una virtù radicata nell’amore, un amore che non ha limiti (cfr. Summa Theologiae II-II, q. 106, a. 6, ad 2). Quanto è bello e appropriato, quindi, che le ultime parole della Messa, sia nel rito antico che nel nuovo, siano semplicemente “Rendiamo grazie a Dio”!

Conclusione

Il nostro paragone tra le quattro finalità della Messa e le quattro grandi cose che impariamo nell’infanzia ci offre l’opportunità di sottolineare un’ultima idea sull’importanza del sacrificio eucaristico. Pensare al fatto di assistere alla Messa come a un peso legalista impostoci dalla Chiesa impoverisce quanto pensare alle buone maniere come meri capricci e appendici del potere.

Anche se in qualche modo sono sufficienti, le buone maniere sono uno strumento che ci orienta verso l’ordine creato, e quando vengono inserite in modo corretto ci aiutano a raggiungere il nostro pieno potenziale come esseri umani. In modo simile, l’adorazione, l’azione di grazie, le suppliche e la soddisfazione che realizziamo nella Messa ci orientano al Creatore della nostra natura, facendoci sviluppare non solo il nostro potenziale naturale, ma anche la nostra capacità di partecipare alla natura di Dio stesso.

Essere capaci di dire “Scusa”, “Ti voglio bene”, “Per favore” e “Grazie” al nostro Padre celeste, attraverso suo Figlio e con l’aiuto del suo Spirito, non è solo un privilegio unico per una semplice creatura, ma anche un atto costantemente trasformatore. E per questo dono possiamo solo dire Deo gratias!

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