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Suicidio, tentato suicidio, pulsioni suicide: come farvi fronte

SUICIDE OF JUDAS

Jim Forest CC BY-NC-ND 2.0

Padre Joël Pralong - Giovanni Marcotullio - pubblicato il 23/11/18

Superiore del seminario della diocesi di Sion, in Svizzera, padre Joël Pralong torna per Aleteia sul dramma che rappresenta il suicidio dei giovani.

Mi guardo indietro e realizzo che da più punti di vista sono ormai un sopravvissuto (o reduce che dir si voglia): «nel mezzo del cammin di nostra vita» ho già salutato diversi parenti, diversi amici, nonché versato una certa quantità di lacrime. Mi è passata accanto più volte, pure, la gelida ombra del suicidio: compagni d’infanzia, compaesani, vicini di casa, parenti, congiunti… e ho pure visto qualcuno che – grazie a Dio – «non ce l’ha fatta», lasciando a noi da fare, tutti insieme, quel che non s’era fatto prima e quel che andrà fatto poi (ché “dopo” niente può essere più come “prima”).
L’uomo di cui ho tradotto l’intervista è uno che nell’abisso di chi si suicida ci ha guardato a fondo – tradurlo mi ha smosso qualcosa dentro. Il commento musicale l’ho aggiunto io, erano le canzoni che mi risuonavano dentro mentre traducevo. Ringrazio anche i miei vecchi amici Luciano Ligabue e Fabrizio De André, miei veri comites vitæ: coi loro pregi e coi loro difetti, sono una parte di me e li amo. Anche perché a me e a moltissimi altri hanno dato alcune parole sufficientemente impregnate di speranza da farci sostenere il meraviglioso carico dell’esistenza [G. M.].

Aleteia: «Ha scelto di lasciarci», si dice spesso quando si dà l’annuncio di un suicidio. Si sceglie davvero di mettere fine ai propri giorni?

Joël Pralong: Il suicidio è davvero una libera scelta, possiamo dirlo con cognizione di causa? La domanda ne implica un’altra: siamo davvero liberi, nella vita, di scegliere cosa sia bene per noi? In generale abbiamo il sentimento di essere liberi nelle nostre scelte. Però ci capita pure, guardandoci indietro, di rimpiangere la scelta che abbiamo fatto: «Ah, se avessi saputo non l’avrei fatto…». Questo rimorso mostra che il sentimento di scegliere liberamente è forse illusorio, e che allora ciò che sembra essere bene in realtà ci ha fatto del male. Alle volte anche noi agiamo sotto la pressione di un leader, di un’opinione, della tale corrente di pensiero, del tale gruppo politico, della tale moda d’abbigliamento eccetera. E talvolta sotto la spinta di forze interiori: paure, angosce, panico, collera, stato di carenza… ad esempio, prendere una decisione su una botta di malinconia, un colpo di testa, un colpo di fulmine, un colpo al cuore o un istante di disperazione non è un atto di libertà né di responsabilità. Come non si sceglie di innamorarsi. L’atto dettato dalla paura, dal panico, dalla gelosia, dalla collera, diminuisce di molto la responsabilità della persona e talvolta semplicemente l’abolisce. Donde la definizione di “suicidio” data da Victor Hugo: «Il suicidio non è un atto di vigliaccheria, come dicono i predicatori che esagerano. Non è neppure un atto di coraggio. È una lotta tra due paure. C’è il suicidio quando la paura della vita vince sulla paura della morte».

A.: Di che cosa è atto il suicidio?

J. P.: Diciamolo chiaramente: il suicidio non è un atto di vigliaccheria né di coraggio, né di libertà – cosa che potrebbe renderlo attraente. Il coraggio sarebbe piuttosto quello di vivere malgrado le difficoltà. La maggior parte dei suicidi non qualifica il suicidio come un gesto di coraggio o di vigliaccheria. Per loro, il suicidio rappresenta la forma meno cattiva di mettere fine a una sofferenza diventata insopportabile. Meno che un atto libero, è un gesto di disperazione fatto sotto la pressione di un dolore diventato insopportabile.


SUICIDE OF JUDAS

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A.: Come fa il desiderio di morte a diventare più forte dell’istinto di conservazione?

J. P.: In realtà, la persona che mette fine ai propri giorni cerca confusamente di ritrovare la pace interiore. La nostra natura è rivolta verso la vita. Prendete una torcia ardente, rivoltatela in tutti i sensi… la fiamma tenderà e si eleverà sempre verso l’alto, perché quella è la sua natura. Così è della natura umana: alla ricerca di felicità, fatta per la felicità, sempre tesa verso il Bene… verso Dio. Allora come spiegare questo gesto di morte che è il contrario del bene, della felicità? In realtà, perturbato e condizionato dal dolore, il suicida si sbaglia sul bene. L’intelligenza giudica come “bene” ciò che in realtà è un “male”, donde la citazione di Blaise Pascal: «Tutti desiderano essere felici, anche quelli che vanno a impiccarsi». Altrimenti detto, cercando di mettere fine ai suoi giorni il suicida desidera ciò che pensa essere un bene, e questo bene lo uccide. Sbaglia strada. E se Dio è il Bene ultimo a cui il nostro cuore aspira, allora possiamo sperare che il suicida abbia trovato Dio…

Nessuno di noi vive per sé stesso e nessuno muore per sé stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.

Rom 14, 7-8

A.: Perché l’adolescente è particolarmente vulnerabile? Ci sono nature più fragili di altre?

J. P.: «Dietro il desiderio di morte si nasconde più spesso nell’adolescente un formidabile desiderio di vivere in un altro modo», scrive padre Jean-Marie Petitclerc:

Ci si sbaglia di grosso quando si pensa che un adolescente suicida sia affascinato dalla morte. In realtà, egli prova un grande desiderio di vivere, ma in un altro modo, perché la realtà della sua vita nel quotidiano gli pare troppo deludente rispetto alle proprie aspirazioni. […] Ciò che è terribile è che un tale desiderio di vivere conduca tanti giovani verso la morte.

In realtà il giovane non ha voglia di morire, vuole solamente cambiare una situazione divenuta ingestibile, trovare un isolotto di pace. Donde l’importanza di osservare i suoi stati d’animo, i suoi cambiamenti di umore e di attitudine, le frasi minacciose che butta là, il suo comportamento a scuola, i suoi risultati scolastici… Sono altrettanti indizi da non trascurare. Certo, un adolescente è più fragile perché spesso fa fatica a mettere una distanza tra i suoi sogni, le sue aspirazioni, e la dura realtà del quotidiano. Un adolescente può mettere fine ai propri giorni per una semplice ventata di malinconia: un brutto voto a scuola, un dispiacere amoroso, il sentimento di essere escluso dal gruppo e via dicendo. Recentemente ho incontrato Valérie, dopo il suo tentativo di suicidio. Le ho chiesto di ricordarsi che cosa le fosse passato per la testa in quel momento cruciale della sua adolescenza, e come intravedesse la morte. Mi ha risposto:

All’epoca avevo diciassette anni e stavo male nei miei panni. Avevo l’impressione che nessuno mi amasse, io stessa non amavo il mio corpo, chi mi stava vicino mi sminuiva di continuo, mi detestavo. Allora per farmi accettare recitavo una parte, quello della ragazza gentile che dice di sì a tutti, e tutti mi trovavano gioviale, pensavano che fossi a mio agio, mentre quello che accadeva dentro di me era tutta un’altra storia. Allora una domenica ho deciso di finirla con questa vita diventata insopportabile. Il mio gesto suicida l’ho preparato lucidamente, in maniera riflessa e responsabile: sapevo ciò che stavo per fare. Avevo la fede, credevo in Dio, ma la questione dell’aldilà non è venuta a ostacolare i miei pensieri. Ero determinata, non vedevo altre soluzioni. Nella mia idea, la morte non aveva il colore che in generale le si dà. Per me, morire significava abbreviare le mie sofferenze, stare meglio, trovare la pace e la liberazione dalle mie pene… non la fine di tutto. Ero francamente stufa di essermi smarrita. Poi mi sono fatta aiutare e, poco a poco, ho imparato ad amarmi, a confidarmi coi miei amici. Mi sono rimboccata le maniche dicendomi che la vita valeva certamente la pena di essere vissuta.

A.: Che dire ai compagni di scuola di un giovane che si è suicidato?

J. P.: I giovani reagiscono violentemente allo choc. Sono spaesati, afoni. Un grave silenzio pesa su tutto l’avvenimento: «Se avessi saputo, se fossi stato là… Signore, perché non hai fatto nulla per impedirlo?». Il primo gesto dell’adulto, del prete, è di essere presente lì in mezzo a loro, di vivere quel momento di silenzio – per pesante che sia. Ascoltando la rivolta quando prende a grondare, la loro incomprensione, il loro domandare circa l’assenza e il silenzio di Dio… Vivere l’emozionale senza forzare il razionale. Essere lì, umilmente… poveramente. Se i giovani percepiscono l’adulto benevolo e amante in mezzo ai loro singhiozzi, al loro mutismo e ai loro scoppi d’ira, allora lo sentiranno dalla loro parte come una forza, un sostegno, un padre, e più tardi torneranno da lui a confidarsi. Si stringerà un dialogo attorno alla storia di colui che è dipartito, del perché del suo gesto, del senso della vita, della loro eventuale responsabilità, della loro mancanza di ascolto o di osservazione… magari. Verbalizzare i mali per cercare insieme nuovi cammini di vita, di solidarietà e di speranza gli uni verso gli altri, in modo da non restare prigionieri dell’avvenimento, del senso di colpa, del nonsenso della vita.

A.: L’ascolto ha ruolo principale, in queste situazioni?

J. P.: Scrivono Michel Massy e Marie-Françoise Salamin nella rivista Lumen vitæ, dedicata alla pastorale dei funerali:

L’incontro con i vicini richiede una grande disponibilità di tempo e soprattutto di spirito, di cuore. La vita di queste persone ha oscillato pericolosamente nella tristezza, nell’orrore. Hanno più bisogno di ascolto che di grandi parole. Per permettere loro di “drenare” il loro sovraccarico emotivo è cosa buona nominare con semplicità ciò che lì con loro percepiamo: siete sconvolti, non comprendete, non siete voluti venire, vi sentite in colpa. Questo permette all’altro di sentirsi prossimo a qualcuno, compreso, e gli danno modo di precisare ciò che sente. È una tappa importante in questo processo di elaborazione del lutto: sono persone che nei giorni a venire sentiranno tante parole, alcune delle quali non improntate a un’intelligenza delle cose dello spirito umano… Farsi prossimi come Gesù con i discepoli di Emmaus, come Gesù con Marta e Maria quando muore il fratello Lazzaro. Poi viene il momento di accompagnarli oltre, di rivelare con discrezione il vero volto di Dio, che è Amore, Misericordia – per loro e per la persona deceduta. Il tono rassicurante, la benevolenza, il silenzio sono attitudini che aiutano queste persone gravemente disorientate.

A.: Che dire a un giovane che mi rivela il proposito di suicidarsi?

J. P.: Anzitutto darsi il tempo di ascoltarlo, di sentire il suo malessere testimoniandogli il nostro interesse e il nostro amore. Attenzione: mai banalizzare o evacuare una confidenza con un prontuario di parole stereotipate – «Ma no, non dire così, guarda, la vita è bella… questo è un ricatto eccetera» – o al contrario tentare di proteggere a oltranza – «Stasera resti da me e non ti faccio ripartire… chiamo un medico… lo dico ai tuoi genitori…». Un giovane che si arrischia a confidarsi è una cosa enorme! È la prova che ha rotto il suo bozzolo mortifero.

Confidarsi – dice Odette Morin, psicoterapeuta – non è soltanto raccontare i propri problemi, ma rimettersi in tutta fiducia allo sguardo dell’altro. È mettere le nostre preoccupazioni fuori di noi per guardarle in modo più obiettivo – cosa che ci permetterà di orientarci di nuovo, se necessario.

A.: Come trovare la giusta distanza da tenere?

J. P.: Un giovane suicida che si confida non ha più autostima, è un mendicante d’amore. Ecco perché è importante l’ascolto, l’empatia… Poi il dialogo per aiutarlo a cercare le soluzioni giuste per lui: verbalizzare il senso del suicidio, vedere se ci sono i mezzi per trovare altre strade per stare meglio. Metterlo anche davanti alla fredda realtà del suicidio: la violenza del gesto e quella inflitta alle persone vicine, la responsabilità che si prende eccetera. Fargli comprendere finalmente che si tratta di una tua decisione: «La rispetto, ma sappi comunque che io ne soffrirò terribilmente. Ciò detto, resto a tua disposizione. Sì, sarò sempre qui per te, quando avrai bisogno di discutere, di tornare a fare il punto della questione». Come prete, concludo simili incontri con una preghiera spontanea, rimettendo il ragazzo nelle mani di Dio. Mi ricordo di quel monaco che, al termine della discussione con un giovane che aveva fermamente stabilito il proprio intento suicida, gli fece scivolare nella mano un rosario dicendo: «Io non posso fare niente per te, ma la Vergine Maria sì». Questo gesto di fede, spogliato di paternalismo e di iperprotettività, l’aveva talmente sconvolto che il ragazzo rinunciò a mettere fine ai suoi giorni.

A.: Chi è responsabile: lui, i genitori, la società? Siamo tutti in colpa per non aver saputo/potuto aiutarlo?

J. P.: A rischio di passare per un utopista, penso che più a monte dovremmo sforzarci di costruire una civiltà dell’amore (Paolo VI) opposta alla civiltà della morte che svuota l’uomo a vantaggio della Finanza e dei sistemi di sfruttamento dell’uomo mediante l’uomo, sistemi in cui contano solo il rendimento, il profitto, l’egoismo e l’individualismo. Una società che assassina la speranza nei giovani. Il suicidio di un giovane o di una persona meno giovane non dobbiamo considerarlo un semplice fatto individuale (era malato, depresso, non era in pace con sé stesso…), ma come un fenomeno sociale, segno di una società depressa che non riesce più a tenere in vita i suoi membri, che non sa più essere creatrice di senso e di felicità. La tragica dipartita di uno di noi ci mette radicalmente in discussione: che cosa abbiamo fatto di lui, di lei? «Dov’è tuo fratello?». Il suicidio ci lancia un messaggio, una bottiglia nel mare: «Questo mondo è troppo duro, questo mondo che siete voi, questo mondo di indifferenza con quella sedicente tolleranza di cui tutto il tempo vi riempite la bocca ma che, in realtà, si disinteressa delle sofferenze profonde segretamente custodite, a forza di “tollerare” che ciascuno faccia quel che vuole». Alla fin fine… non è “un suo problema”? Non abbiamo fabbricato un sistema individualistico, basato sulla competizione e sui rapporti di forza, che a sua volta fabbrica dei frustrati e degli infelici? Insieme dobbiamo invertire la direzione di questa macchina infernale dagli ingranaggi troppo ben lubrificati, che scarta brutalmente il debole che non produce abbastanza, che non è sufficientemente competitivo, per rimettere in primo piano la relazione o, molto semplicemente, l’umano.


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A.: Come uscire dal dolore che opprime le persone vicine a una persona che si è suicidata?

J. P.: Nella speranza, abbiamo il diritto di affermare «che ora sta meglio», perché «niente può separarci dall’amore di Dio» (Rom 8, 35). Celebrando i funerali di suicidi, la Chiesa desidera affidarli alla misericordia di Dio, sicuro che Dio appronti loro delle vie particolari per accedere alla sua luce. Essa ci invita a pregare per quelli che se ne sono andati in modo che la nostra preghiera li sostenga e li accompagni sul cammino verso Dio, perché «da parte loro» abbiano l’audacia e il coraggio di dire “sì” alla Misericordia, poiché «non si può cadere più in basso che nelle braccia di Dio» (santa Teresa di Lisieux). Però bisogna volerlo… Perché la scelta della vita è cosa che dipende dalla nostra libertà. Dal punto di vista cristiano, la morte è il momento in cui l’anima si separa dal corpo per andare «a dimorare presso il Signore». Ma come accade questa separazione? Si può parlare di una durata? Che cosa accade nell’essere profondo di chi lascia questa terra? Le opere compiute prima della morte decideranno in modo irrimediabile della sua salvezza eterna? C’è ancora una possibilità di scegliere, di rialzarsi? Il Catechismo ci dice che «la morte mette fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accoglienza o al rifiuto della grazia divina manifestata in Cristo». Dunque la morte è quel momento di totale lucidità durante il quale l’essere può dire sì o no a Cristo che gli apre le braccia. Il rifiuto della salvezza non è mai dalla parte di Dio: Egli vuole sempre perdonarci. E tuttavia, avremo noi l’umiltà necessaria a gettarci nelle sue braccia al momento del grande passaggio? Il suicidio non è mai una partenza piacevole, è sempre una violenza inflitta alla vita: tanto a quella del suicida quanto a quella dei suoi cari. Questa violenza suscita una giusta collera in quanti restano, e la collera permette di oggettivare l’avvenimento, di qualificarlo di ingiusto e violento… Poi viene il momento del perdono: perdonare la persona che se n’è andata, forse chiederle scusa per la nostra parte di responsabilità nel suo gesto; perdonare sé stessi, chiedere perdono a Dio… Il perdono permette di elaborare il lutto, di vederci chiaro, di sostenere il suicida in cammino verso il Signore. Per concludere, mi ostino a dichiarare che l’atto del suicidio non è la via buona e giusta per raggiungere la pace, è oggettivamente un male perché fa soffrire terribilmente quelli che restano. E tuttavia la nostra speranza nella Misericordia di Dio resta testarda. Dobbiamo pregare molto per i suicidi, è così che li sosteniamo sul cammino che conduce a Dio.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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