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Scopre il tradimento la sera prima delle nozze, lo sbugiarda sull’altare

SPOSA, LACRIME, MATRIMONIO

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Annalisa Teggi - pubblicato il 19/11/18

Ma poi, anche servita calda, la vendetta non può che lasciare il gelo nel cuore

La storia arriva dall’Australia ed è rilanciata sui siti d’informazione e gossip di mezzo mondo. È una vicenda senza volti e con nomi fittizi, forse potremmo trattarla come una trama dal titolo “Cosa faresti se …”. Innanzitutto riassumiamo l’accaduto: al sito Whimn una ragazza, a cui viene attribuito il nome di Casey, racconta la sua orribile notte prima delle nozze; da un numero sconosciuto le vengono spedite le trascrizioni dei messaggi che il suo fidanzato si scambia con un’altra donna, frasi esplicite e che lasciano intendere non una semplice infatuazione ma un rapporto vero e consumato.




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Anziché parlare immediatamente con lui, Casey trascorre la notte in un tormento comprensibilmente delirante. Alla fine, la futura sposa decide di procedere come da copione: si veste con l’abito di nozze e va in chiesa, arrivata sull’altare prende parola e racconta davanti a tutti, per filo e per segno, l’amaro retroscena scoperto la sera prima. Si scusa con tutti perché non si celebrerà il matrimonio, lo sposo se ne va senza proferire parola e la festa si trasforma in una celebrazione dedicata all’onestà. Proprio così ha deciso Casey:

“Non ci sarà un banchetto di nozze oggi, ci sarà una festa in nome dell’onestà, sulla ricerca del vero amore e sul seguire il proprio cuore anche quando fa male”.

Non è dato sapere altro. Quel che mi più mi colpisce nella narrazione dei fatti, fosse anche solo un racconto, è il silenzio tra lei e lui. Un vuoto di rapporto nel momento più cruciale e ferito: lei non parla con lui, ma parla agli invitati; lui non risponde a lei, e se ne va in silenzio. Credo sia anche la parte più autentica della storia, cioè quella più simile alla vita vissuta di molti: l’incapacità di incontro nel momento della prova. L’incapacità di guardarsi a macchie scoperte.


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Il giudizio universale

Per fortuna noi non siamo Dio. Mi è venuto in mente il racconto di Dino Buzzati La fine del mondo, in cui immagina che in un certo giorno il pugno di Dio squarci il cielo e punti l’indice contro l’umanità; la gente intuisce che è arrivato il momento del giudizio universale e si precipita in cerca di un confessore. Tutti vogliono salvarsi, tutti vogliono confessarsi, tutti vogliono arrivare puliti al tribunale divino. Anche io ogni tanto penso al giorno del Giudizio e di una cosa sono certa, non sarà come lo penso io …. cioé una enorme, colossale, sbugiardata pubblica. Quanto mi vergogna l’idea che ogni frammento del mio male recidivante sia gettato sulla pubblica piazza dell’universo, visto senza veli da tutti.

Sarà un’altra cosa, sarà essere guardati per davvero per la prima volta. Potremo forse dire di conoscerci per la prima la volta dopo lo sguardo giudicante di Dio, forse addirittura ci ameremo un briciolo di più attraverso il suo discernimento.

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Qualcosa di questo avvenimento viene anticipato, per frammenti, nel matrimonio: è l’ipotesi di guardarsi non più riflessi allo specchio ma negli occhi di un altro, grazie a un Altro. Perciò il tradimento è una ferita così profonda, perché non altera solo il volto del compagno, ma anche il nostro. Fedeltà è una delle parole incarnate più belle da custodire assieme, perché non è un battaglia che si può combattere al singolare. Da sola io non riuscirei mai a essere fedele a qualcosa, tradisco anche i miei progetti più amati.

Ho fatto una promessa insieme a mio marito, perché sia un’ipotesi di richiamo reciproco quello di rimanere, restare, tentare di non sviare.


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Eppure capita, sale dallo stomaco, un istinto sordo di vendetta non appena uno dei due commette un gesto anche piccolo di tradimento, si infrange una promessa per smemorattezza o anche con deliberato consenso. Allora vorrei gridarla a mari e monti la ferita che brucia dentro, fare vedere il male e puntargli contro l’indice, svilire e ferire a mia volta chi doveva essere il mio alleato preferito e invece mi ha deluso o, peggio, umilato. Proprio in quei momenti, vorrei che il gallo cantasse anche per me; a ricordarmi che Pietro non fu inchiodato alle sue colpe.

Dipendesse da noi, il Giudizio Universale sarebbe un tribunale a porte aperte pieno di documenti probanti e testimonianze circostanziate su ogni minimo errore. Dipendesse da noi, temo non ci sarebbe assoluzione e vorremmo la standing ovation per la severità del verdetto.

Pubblica piazza vs sguardo intimo

Ho letto molti degli articoli pubblicati sulla storia di Casey e non credo sia un caso che in nessuno di questi racconti si azzardi un giudizio umano sulla vicenda. Si moltiplicano, invece, i commenti a fondo pagina. Quasi tutti lodano il gesto della futura sposa e applaudono alla pubblica denigrazione. Alcuni s’interrogano sul silenzio dello sposo traditore che volta le spalle e basta; certi suppongono che lui abbia gongolato di non essersi preso un impegno così pressante davanti a Dio. I maniaci dei dettagli si mettono a dissertare sul fatto che se il banchetto è stato fatto ugualmente, allora è stato pagato dalla sposa. Il luogo comune su cui si arena l’intera vicenda è il vaso di Pandora che si può aprire sbirciando nel cellulare del proprio fidanzato.

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Sì, a dare in pasto queste notizie alla nostra pancia se ne ricava una lievitazione di tristi episodi personali in cui una moglie o un marito sono stati capacissimi di dare il peggio di sé. Casey, alla fine, ha deciso di celebrare l’onestà, ma temo che sia uno di quegli ingredienti che nel matrimonio non è portato in dote dai coniugi. Perché nel sentire comune, si intende per onestà tutta una serie di comportamenti trasparenti e immacolati, come se volersi bene fosse rispettare delle regole di reciproco candore.

Sono troppo pochi i dettagli della storia di questi due fidanzati per esprimere qualsiasi ipotesi; vero è che, messa sulla pubblica piazza una simile vicenda, tutti si mettono a parlare dei tradimenti subiti e nessuno parla di quella prova tosta tostissima che l’amore autentico si merita, il perdono. Ecco perché torno a quel gallo che cantò tre volte.


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Se penso a qualcuno che mi tradisce, vorrei vederlo appeso a un albero come Giuda. Se penso a me che tradisco, vorrei essere guardata come Pietro. Ovvero: la vendetta è una misura che applicata a noi stessi sentiamo malvagia, anche quando ce la meriteremmo. Perdoniamo a fatica, ma vorremo essere perdonati sempre.

Forse anche io mi sono avvicinata all’altare pensando a tutte le parti belle di me che avrebbero reso felice la vita di mio marito, e viceversa. Molto presto ho capito che il giorno delle nozze non ho dato nulla di buono, ma ho ricevuto la Compagnia di chi può trasformare in bene il cammino entusiasta e sgangherato di due persone. La fedeltà l’abbiamo promessa, perché sappiamo bene di non averla in tasca. E abbraccia questioni molto più quotidiane e permeanti dell’adulterio.

Non posso avere e non avrò mai uno sguardo immacolato con cui guardare mio marito, né lui lo avrà per me. Quando arriva il mattino – dopo la notte del male – e il gallo canta, ciascuno di noi mette sul tavolo i propri cocci: bugie, mancanze, cattiverie, perfidie, semplici noncuranze. È davvero così ad ogni nuova alba, eppure desidero che alba sia davvero. I riflettori del mondo, le voci del pubblico a cui potrei consegnare questa caterva di matrimoniali sconfitte sarebbero un coro all’unisono con il pollice all’ingiù. Scandirebbero: occhio per occhio dente per dente. Brinderebbero con me all’onestà che manca, ma io voglio stare a tavola con Lui che cucinò il pesce in riva al lago e lo condivise con Pietro il traditore. Sapeva tante cose su di lui, tante avrebbe potuto fargliene confessare. Ma lo vedeva come nessun altro occhio avrebbe potuto. Allora gli chiese: “Simone, mi ami tu?”.

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