Una domanda ormai frequente per l’ampia diffusione di pratiche come lo yogaCosa pensa la Chiesa cattolica dei metodi orientali di meditazione ispirati, ad esempio, all’induismo e al buddismo?
Esiste già una risposta ufficiale della Chiesa a questa domanda.
Nell’ottobre 1989, la Congregazione per la Dottrina della Fede, sotto la presidenza dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, ha diffuso una lettera indirizzata a tutto l’episcopato cattolico per chiarire la natura della preghiera cristiana e i modi errati di pregare.
Il documento insiste innanzitutto sul fatto che la meditazione cristiana non è un semplice sforzo umano, i cui risultati possano essere ottenuti osservando certe tecniche psico-fisiche di respirazione o rilassamento. Pur non prescindendo da una partecipazione attiva del fedele, la preghiera cristiana presuppone in fondo un’azione divina, ovvero un intervento libero e soprannaturale della grazia di Dio. Il documento, però, ammette con una certa benevolenza che la preghiera cristiana non è del tutto incompatibile con certi elementi di alcuni metodi orientali, sottoposti a un esame attento e a una depurazione da qualsiasi residuo pagano incompatibile con l’integrità della fede.
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In ogni caso, bisogna sempre tenere a mente che la differenza fondamentale tra questi metodi e la meditazione cristiana è di finalità: mentre i primi vogliono produrre determinati “stati” interiori di pace e serenità, non sempre collegati alla dimensione morale del resto della vita, la preghiera cristiana vuol essere un incontro personale tra l’anima e Dio, un dialogo reverente tra due cuori che conduca, come complemento spontaneo, a un vivere il Vangelo in modo più puro e impegnato.
Oltre a questo, i metodi orientali, assimilati in modo imprudente in un contesto cristiano, presentano il grave rischio di “abbassare ciò che viene accordato come pura grazia al livello della psicologia naturale, come “conoscenza superiore” o come “esperienza”” (n. 10). Essendo metodi naturali, le pratiche orientali di meditazione appartengono essenzialmente al piano psichico umano, e sono quindi del tutto incapaci di promuovere quegli stati mistici straordinari che Dio concede, per pura grazia, a chi vuole e quando vuole. Sarebbe insensato pensare che per via dell’esercizio reiterato di certe tecniche l’uomo possa giungere da solo a stati di unione con la divinità che superano di per sé le nostre forze naturali.
La preghiera cristiana non è nemmeno un lasciar vagare la mente nel “vuoto”. Essendo dialogo presuppone un contenuto, ed essendo un dialogo con Dio la materia della sua meditazione dev’essere ovviamente ciò che riguarda la vita e i misteri di Dio, ovvero il contenuto positivo della fede cattolica. Per un cristiano, pregare non dev’essere mai una ricerca esclusiva di se stessi, ma una ricerca di colui che sappiamo che ci trascende sempre e che si degna di parlare con noi non perché lo meritiamo, ma perché è stato Lui ad amarci per primo:
“L’amore di Dio, unico oggetto della contemplazione cristiana, è una realtà della quale non ci si può “impossessare” con nessun metodo o tecnica; anzi, dobbiamo aver sempre lo sguardo fisso in Gesù Cristo, nel quale l’amore divino è giunto per noi sulla croce a tal punto che Egli si è assunto anche la condizione di allontanamento dal Padre” (n. 31).
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Per questo, concludeva la lettera ai vescovi, dobbiamo “lasciar decidere a Dio la maniera con cui egli vuole farci partecipi del suo amore. Ma non possiamo mai, in alcun modo, cercare di metterci allo stesso livello dell’oggetto contemplato, l’amore libero di Dio” (idem). A noi spetta di avvicinarci a Lui con umiltà, supplicandolo di concederci l’ausilio della sua grazia, di illuminare la nostra intelligenza con la luce della fede e, mediante la sua misericordia, di muovere la nostra volontà tanto debole e attaccata alle cose del mondo ad aspirare ai sacri tesori del cielo.