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«Chi è l’addetto al discernimento e alla certificazione di un carisma?»

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Ricardo Camacho CC

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 08/11/18

Un lettore ci porge questa ficcante domanda, rispondendo alla quale proponiamo una dettagliata digressione nei dominî della coscienza in rapporto con la natura e con la Chiesa. «Ogni buon carisma e ogni dono perfetto – dice Giacomo – viene dall'alto e discende dal Padre della luce» (Gc 1, 17). Il punto, semmai, è saper distinguere “dove vada” un carisma. È questo ciò che il tanto discusso “discernimento” deve appurare. E come lo fa? Proviamo a spiegarlo.

Carissimi, non vogliate credere a ogni spirito, ma esaminate gli spiriti per conoscere se sono da Dio, poiché molti falsi profeti sono venuti nel mondo.

1Gv 4, 1

Quante volte ci siamo chiesti come si possa fare, praticamente, quel famoso “discernimento degli spiriti” di cui oggi tanto si parla, nel bene e nel male? Una volta di più ce l’ha domandato un lettore, il quale ha pure articolato la domanda con una certa precisione:

Come si può discernere se il dono/carisma di una persona derivi da Dio o meno? Chi è l’addetto al discernimento e a certificare che quel dono derivi dalla misericordia di Dio e non da altre fonti?

Discernimento e coscienza nel Pinocchio di Collodi e Disney

Che dunque la risposta stia nel “discernimento” è chiaro anche al lettore: domandando però chi sia “l’addetto” egli stesso riconosce che sovente “discernimento” è diventata una specie di parola magica, che si pronuncia supponendo che contenga la risposta giusta ma di cui si ignora anche il solo significato. E sì, ci vorrebbe un “ministro della conoscenza del bene e del male”, per dirla con la Fata Turchina, un “addetto al discernimento e alla certificazione” dei carismi. L’eco biblica della formula usata dalla Fata ci ricorda che il primo a proporsi per quell’ufficio (Gen 3, 5) fu proprio «il drago, il serpente antico che è diavolo e satana» (Ap 20, 2). E ci verrebbe da concludere che – stando così le cose – il Grillo Parlante coinciderebbe di fatto con il Gatto e la Volpe, con Mangiafuoco, con Postiglione e con tutti gli antagonisti di Pinocchio, l’essere animato-per-grazia cui è stata promessa (e fermata con caparra) un’altra e più piena forma di vita.


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Ora, in realtà questo non è plausibile, ma la difficoltà ci pone di fronte a un problema: perché Collodi e Disney hanno collocato la coscienza fuori da Pinocchio? E come fa una vera coscienza a non essere interna?




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Il fatto è che da un lato tutti abbiamo avuto l’esperienza della “vocina” che parla come un altro da sé, cioè come un’eco di una parola che non è nostra anche se risuona in noi con un timbro simillimo al nostro; dall’altro nessuno può diventare libero facendosi passivamente condurre da qualcuno-fuori-dal-sé. Nel film animato della Disney l’impasse viene illustrato con un dialogo in cui il Grillo – che già in Collodi è un altro in tutto e per tutto, rispetto a Pinocchio – descrive al burattino animato le ambiguità della vita morale in cui l’arte del discernimento dispiega le sue finezze. E Pinocchio non capisce, facendo però la felicità del Grillo con l’affermare di essere buono.

Qui Disney (che doveva stare in un’ottantina di minuti) ha semplificato assai il portato collodiano, ma i due esegeti italiani più noti della storia di Pinocchio – Giacomo Biffi e Franco Nembrini – hanno spiegato con chiarezza l’identità della “voce della coscienza morale” (Biffi):

Che cosa vuol dire che il Grillo abita in quella stanza «da più di cent’anni?». “Da più di cent’anni” è un modo per dire “da sempre”. Dal momento in cui Dio ha fatto il mondo, io ci sono: sono l’impronta divina, l’eco di quel mistero cui tutte le cose rimandano da sempre e per sempre. Tutte le cose hanno in sé questa potenza di segno, hanno in sé questa capacità di attirarti e di richiamarti all’infinito e all’eterno. E a maggior ragione tu, figlio di Dio: «Io, questa voce, sono il tuo cuore, il tuo desiderio, quel che ti fa diverso dal tuo gatto e dal tuo cane, quel che fa l’uomo uomo».

Franco Nembrini, L’avventura di Pinocchio 43

Ora, la voce della coscienza è capace di riconoscere – cioè di discernere – i doni di Dio (in greco, i “carismi”) proprio in quanto ha con essi una certa connaturalità. In tal senso essa risuona “esterna” all’uomo, giacché lo precede, e simultaneamente “interna”, perché parla nel suo intelletto, ma come un altro – riverbero dell’Altro.




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E fino a qui sembrerebbe tutto facile: la ragione per cui il Grillo disneyano s’imbroglia nell’esporre i principî dell’etica a Pinocchio (che poi è uguale e contraria a quella che differenzia il Burattino collodiano da quello filmico) è che sono principalmente le intenzioni a dire la bontà o la malizia dei carismi.

In teologia diciamo che “tutto è grazia”, cioè tutto è dono. Tutto è carisma: la bellezza di Lucifero, ossia il suo intelletto puro, non è un grande dono di Dio? E la sua stessa libertà non è un dono di Dio? Perfino il fatto che detta libertà sia potuta divenire «pervertita e pervertitrice» (cf. Paolo VI, 15 novembre 1972) non dipende da un’arcana liberalità dell’Onnipotente?




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È precisamente questo – lasciandoci ormai alle spalle l’analogia con Pinocchio, che ci ha accompagnati fino a dove ha potuto – a fare la difficoltà del discernimento dei carismi. Sempre da ciò deriva un corollario: se tutto è grazia – giacché «se Tu avessi odiato qualcosa non l’avresti neppure creata» (Sap 11, 24) – che cos’è esattamente il carisma?

Il problema, insomma, non è solo di capire se un carisma sia buono o cattivo – perché abbiamo anticipato sia che tutti i carismi sono buoni in principio sia che tutti possono pervertirsi nell’intenzione di chi li amministra –: il problema è anche di capire dove un carisma sussista e dove no.

Una pagina del giovane Ratzinger

«Ma perch’io non proceda troppo chiuso» richiamo adesso una pagina del giovane Ratzinger, tratta dai resoconti delle sessioni del Concilio Vaticano II. In particolare questa parla delle animate discussioni registratesi nell’assise tra il 16 e il 22 ottobre 1963:

D’altra parte non si può negare che la discussione sui laici, benché ricca di interventi, sia rimasta un po’ scialba e noiosa, eccettuato il vivace attacco al testo da parte del cardinal Ruffini, il 16 ottobre, e il grande discorso del cardinale belga Suenens, il 22 ottobre. Forse questo è stato determinato dal fatto che il problema è stato impostato in forma poco concreta e impegnativa. Divenne concreta quando Suenens esortò a concedere anche alle donne il permesso di partecipare al Concilio come uditrici laiche e quando propose di | immaginare una struttura carismatica della Chiesa fondata sugli apostoli e sui profeti, accanto alla sua struttura ministeriale. E concreta divenne quando, sul versante opposto, il cardinale di Palermo [cioè il già menzionato Ernesto Ruffini, N.d.R.] negò assolutamente l’esistenza dei carismi nella Chiesa post-apostolica e ridusse praticamente la funzione del laico all’obbedienza alla gerarchia. L’arco di tensione della discussione si è determinato in questa antitesi, che però non riuscì agli oratori a riempire di vita. Ciò che colpì fu che nonostante tutti gli sforzi nessuno fu in grado di dare una definizione positiva del laico. E forse è proprio questo il vero motivo di quel sentimento di scontentezza, che nemmeno una discussione sincera era in grado di evitare. Ci si è abituati a concepire il laico in antitesi al sacerdote e al religioso, come qualcuno che non è né l’uno né l’altro. È un’abitudine inveterata; la caratteristica della teologia dei laici dei nostri giorni è solo che, pur mantenendo questa doppia premessa negativa – né prete né monaco – tenta di inserire un elemento positivo che permetta di fondare la pietà, la spiritualità del laico e simili. Ma qualcosa di negativo non diventerà mai positivo, per il fatto che si valorizza. E non ci si dovrà meravigliare che anche chi presta maggiore attenzione non avverte nessuna idea positiva. Non può che essere così, se per definizione si è partiti da qualcosa di negativo, anche se poi si celebra come qualcosa di grande. Se si vuole fare un passo avanti, non si potrà più far derivare il positivo esclusivamente da fattori mondani, non ecclesiali, e chiarire poi la collocazione nell’ambito ecclesiale a partire da qualcosa di negativo, ma ci si dovrà chiedere se accanto al ceto sacerdotale e monastico non esistano altre positive possibilità ecclesiali. Il cap. 12 della Prima lettera ai Corinti, che era percepibile sullo sfondo del discorso del cardinal Suenens, offre del materiale abbondante a questo proposito, del quale però ci si è serviti soltanto con molta parsimonia.

Benedetto XVI, Opera Omnia 7/1, 394-395

Come si evince da questa analisi del giovane Ratzinger – notevolmente acuta, per un osservatore contemporaneo ai fatti – ci si trova talvolta ad affermare o a negare l’esistenza di certi carismi a prescindere da presupposti che non necessariamente sono corretti. Usciamo dagli stereotipi da fiction: Ratzinger non stava parlando di “un buono” e “un cattivo” (Ruffini fu un ecclesiastico integerrimo dalla vita straordinariamente avventurosa e piena di grandi opere), anzi la posizione dell’arcivescovo di Palermo aveva una sua sensatezza. Siamo tutti concordi nel ritenere, ad esempio, che l’ispirazione dei libri sacri sia da ritenersi conclusa con la morte degli apostoli: dunque tutte le opere posteriori a quel periodo o esterne a quel circolo, sono sempre state ritenute ecclesialmente venerabili ma non normative. Perché? Perché la Chiesa non vi ha riconosciuto il carisma dell’ispirazione, e anzi essa ha esplicitamente escluso che tale carisma possa sussistere, in senso stretto e pieno, oltre uno sfumato ma pur determinato limite geostorico. Se possiamo dire questo del carisma dell’ispirazione – su cui perlomeno abbiamo riflettuto e scritto ininterrottamente per venti secoli – perché non potremo dirlo del carisma della profezia, al quale riscontriamo appena ondivaghi e ambigui accenni nel Nuovo Testamento e catastrofiche esperienze nella storia della Chiesa (pensiamo a Montano)?




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Dunque cosa spetta ai laici? Obbedire e basta? Il Codice pio-benedettino di Diritto Canonico lo dice esplicitamente, ma anche i Padri Conciliari che sarebbero voluti andare oltre non hanno trovato le parole per farlo: hanno avvertito, sì, il “gemito inesprimibile” dello Spirito (cf. Rom 8, 26) ma in quei giorni non sono stati capaci di fare di più.

Il dato positivo sarebbe poi stato ravvisato nella “vocazione universale alla santità” (capitolo V di Lumen Gentium), e soprattutto nell’effervescente stagione postconciliare è sembrato a tutti di assistere a una vera e propria primavera carismatica, a un’effusione di carismi ecclesiali che pareva potersi dire una nuova Pentecoste.




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Poi la storia ha fatto le sue verifiche: alcuni movimenti ecclesiali sono morti, come da sempre sono nati e morti gli ordini religiosi, altri si sono pervertiti al punto da richiedere l’intervento disciplinare della suprema autorità ecclesiastica, altri hanno prosperato e – come esige il dettato della parabola evangelica (cf. Gv 15, 1-11) – si sono rese necessarie le opportune potature, che mai avvengono «senza effusione di sangue» (Eb 9, 22), «perché portassero più frutto».




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Torno ora con la mente al “candido lettore” che spero di non avere spaventato con questa (assicuro non eccessiva) problematizzazione: dalla complessità della questione su cosa sia un carisma torniamo con rinnovato impeto alla domanda “chi fa il discernimento”. La risposta è semplice e ovvia: la Chiesa lo fa. Ma tutto ciò che abbiamo detto ci mette in guardia dalle due tentazioni principali, che poi sono quelle stesse descritte da Ratzinger come operanti nell’assemblea sinodale senza che tra le due si riuscisse a pervenire a una sintesi costruttiva:

  1. da una parte la tentazione di ridurre la Chiesa alla sua gerarchia ecclesiastica;
  2. dall’altra la tentazione di ignorare apertamente il confronto con i pastori, ossia di contrapporre a una gerarchia ecclesiastica (tendente alla sclerosi) una gerarchia carismatica (tendente all’anarchia).

La “meditazione sulla Chiesa” di De Lubac

Dieci anni prima dei dibattiti conciliari riportati dal giovane Ratzinger, ossia nel 1953, Henri De Lubac – che del promettente teologo tedesco era già un punto di riferimento – pubblicò la prima edizione della sua meravigliosa Meditazione sulla Chiesa. In essa spiegava come e perché la categoria di “corpo mistico” (sulla quale nel 1943, dieci anni prima, Pio XII si era espresso con un’enciclica e dopo il Concilio Ratzinger sarebbe stato chiamato a dire anch’egli una parola importante) sia quella fondamentale dell’ecclesiologia, cioè quella capace di tenere insieme tutte le altre:

Senza organizzarsi in un tutto logico, esse si completano, si correggono, si equilibrano le une le altre. Tutte concorrono così a darci della Chiesa non un’idea esaustiva – ipotesi assurda – ma una conoscenza adatta alla nostra condizione.

Henri De Lubac, Méditation sur l’Eglise, 101

Nella pagina successiva il grande gesuita francese lumeggia più diffusamente gli aspetti salienti della categoria paolina della Chiesa come “corpo di Cristo”:

[…] con quest’espressione metaforica, l’Apostolo designa un certo organismo che egli concepisce come eminentemente reale e le cui membra sono al contempo diversificate e unite. Questo corpo è una società visibile e strutturata, in cui regna una certa “divisione del lavoro”, perché le funzioni delle sue membra sono, per esempio, di insegnare, di governare o di compiere miracoli, di discernere gli spiriti: è la duplice differenziazione, “gerarchica” e “carismatica”. Esso è però al contempo una comunità di vita intima e misteriosa, perché tutte le diversità e le opposizioni naturali di quelli che lo compongono, così reali, così irriducibili per quanto permangano nel loro ordine, in esso si aboliscono. Nella diversità stessa delle loro funzioni, tutti, «abbeverati a un unico Spirito», non sono che uno solo in Cristo Gesù [1Cor 12, 4-30]. Si tratta – come è stato detto – dell’insieme unificato di tali funzioni, «presentate come l’epifania concorde di un medesimo Spirito»; ciò non designa nella Chiesa un aspetto delle cose, ancora meno una realtà «che si possa contrapporre a quello che oggi chiamiamo la gerarchia», bensì appare «come la rivelazione della sua realtà profonda».

Ivi, 102

Insomma è la Chiesa a fare il discernimento, e lo fa nell’organica sinergia di tutte le sue membra: così come in un corpo dello stato di salute o di malattia di un membro non si accorge soltanto né direttamente la testa, ma proprio quel membro stesso e probabilmente quelli più strettamente a contatto con esso; così nella Chiesa è quel «vincolo di unità» a segnalare, tramite le giunture dei distinti membri, se un carisma – sicuramente buono in sé – venga attualmente adoperato per il bene, cioè «per la necessaria edificazione» del corpo di Cristo (cf. Ef 4, 29) o no. Quel “senso di Cristo” (1Cor 2,16) – che inerisce strettamente alla Chiesa al punto che essa diventa sempre più il corpo stesso di Cristo e questi si configura sempre più come suo Capo, piuttosto che come individuo a sé – è lo Spirito. De Lubac lo ricordava.


FABIO ROSINI

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Dunque i criterî di discernimento sono la produzione dei frutti dello Spirito, la presenza dei suoi doni… ma se ci limitassimo a dire questo avremmo solo trasformato il Dio vivente in una tabella con caselle da barrare, e soprattutto non avremmo ancora risposto alla questione – che di nuovo ci si parerebbe innanzi – su chi sia “deputato al discernimento e alla certificazione” dei carismi. È la vita della Chiesa, la sua stessa esistenza quotidiana, dalla strada alle case, dalle parrocchie al Palazzo Apostolico della Santa Sede, dalle missioni lontane al volontariato vicino… è questa che da sé esprime il giudizio sui carismi. Li vaglia, li discerne. Come ogni organismo autonomo e in salute, la Chiesa rigetta da sé i corpi estranei: può volerci del tempo e possono esserci errori, ma «mai la Chiesa ci dà meglio Gesù Cristo che nelle occasioni che essa ci offre di essere configurati alla sua Passione» (ivi, 184-185).

Dettagliati consigli di una comunità subapostolica

Parole dure e vere (scritte peraltro da un uomo che per mano della Chiesa ebbe a soffrire non poco), ma per dare al lettore un assaggio dei “criterî di discernimento” che fin dalle comunità subapostoliche la Chiesa ha sentito di doversi dare, riporto di seguito un noto passaggio della Didaché (probabilmente scritta fra il penultimo e l’ultimo quarto del I secolo, chissà dove):

Quanto agli apostoli e ai profeti [il testo sembra a tratti distinguerne e a tratti sovrapporne le figure, N.d.R.], comportatevi secondo la norma dell’evangelo. Ogni apostolo che viene da voi sia accolto come il Signore; ma non rimarrà se non per un giorno; se sarà necessario, anche un altro giorno; ma se resta tre giorni, è un falso profeta. Quando poi se ne va, l’apostolo non prenda se non del pane, per poter fare tappa. Ma se chiede denaro, è un falso profeta. Ogni profeta che parla per ispirazione dello Spirito non mettetelo alla prova e non giudicatelo, perché ogni peccato sarà rimesso ma questo peccato non sarà rimesso. Non però ognuno che parli per ispirazione dello Spirito è profeta, ma se si comporta secondo il modo di vita del Signore. In effetti falso profeta e profeta si riconosceranno dal loro modo di vita. Ogni profeta che per ispirazione dello Spirito ordina di preparare una mensa, non mangerà da essa; altrimenti è un falso profeta. Ogni profeta che insegna la verità, se non mette in pratica ciò che insegna è un falso profeta. Ogni profeta che sia stato esaminato e sia risultato vero profeta, se agisce in vista del mistero della Chiesa nel mondo ma non insegna di fare tutto ciò che fa lui, non sarà giudicato da voi perché il suo giudizio l’ha con Dio. In questo modo infatti hanno agito anche gli antichi profeti. Ma se uno sotto ispirazione dello Spirito dice “Datemi del denaro” o qualche altra cosa, non prestategli ascolto. Se invece vi dice di dare a favore di altri che hanno bisogno, nessuno lo giudichi.

Ognuno che viene nel nome del Signore sia accolto. In seguito, avendolo esaminato, lo conoscerete, perché sapete comprendere destra e sinistra. Se chi viene è di passaggio, soccorretelo per quanto potete; ma non rimarrà presso di voi se non due o tre giorni, se ce ne sarà necessità. Nel caso invece che voglia risiedere presso di voi, se ha un mestiere lavori e mangi. Se non ce l’ha, provvedete assennatamente per evitare che un cristiano viva presso di voi nell’ozio. Se poi non vuole comportarsi in questo modo, è uno che traffica con Cristo: guardatevi da questi tali.

Didaché* 11,3-12-5

Eh, già, si parla quasi sempre di soldi e di prestigio, ma non era appunto questo il fine di Simon Mago, di cui negli Atti (8, 9-24) si narra la proposta di acquistare a prezzo di moneta contante il carisma delle guarigioni? Forse che non voleva qualcosa di vero? Sicuro, difatti lo chiede a Pietro e Giovanni, non a dei ciarlatani. Tuttavia ciascuno vede da sé che è nell’intenzione che viene giudicato il carisma, e questo fin dall’aspirazione dell’uomo ad averne uno.




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«En todo, amar y servir»

Lo Spirito di Cristo è lo spirito del Servo di Dio, che per amore del Padre si è fatto servo di tutti. Ecco un criterio di massima per discernere i carismi, cioè per capire se vengono dallo Spirito di Cristo e se edificano il suo Corpo: quando qualcuno serve Dio e gli uomini con gioia, senza contese, senza rivalità, senza maldicenze, senza aspirare agli onori ma anzi rallegrandosi intimamente della propria piccolezza, di quella marginalità accidentale a cui Dio non ha disdegnato di guardare (Lc 1, 48), riempiendosi di gioia per i carismi altrui – più o meno evidenti che siano –, ecco, «dove la carità è vera e sincera, là c’è Dio».

*: Se qualcuno fosse interessato ad approfondire la propria conoscenza della Didaché, aggiungo qui e qui i link a due trasmissioni su Radio Maria dedicate appunto a quell’opera eccezionale.

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