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Chi vuole pensare alla morte? Io sì, ed ecco perché voglio che lo facciate anche voi

HUMAN SKULL

Kaelin | CC BY SA 2.0

padre Robert McTeigue, SJ - pubblicato il 07/11/18

Aiutare altri a prepararsi alla morte è un atto di carità; i nostri predecessori nella fede sembravano capirlo meglio di noi

Quante cose sciocche avete sentito dire sulla morte? Ecco alcune delle peggiori che ho sentito io, insieme alle risposte angosciate che hanno provocato: “Ora è in un luogo migliore” (Davvero? Buon per lui! Ma io ho bisogno che stia qui con me!). “Sei giovani, puoi avere altri figli” (Ma NESSUN bambino può “sostituire” un bambino!) “Presto sarai in Paradiso!” (Come lo sai? Perché Dio non me lo ha detto? Ho sbagliato a temere per tutti questi anni la perdita del Paradiso e i dolori dell’Inferno?)

Il premio per La Cosa Più Sciocca Detta Sulla Morte va all’impiegato scolastico che ha inizato il servizio in ricordo di uno studente che si era suicidato dicendo: “Benvenuti alla nostra celebrazione!”

Tra le affermazioni più umoristiche sulla morte ce n’è una attribuita a Samuel Johnson (1709-1784), che vedendo lo splendido Palazzo di Versailles affermò: “Il problema con un posto come questo è che rende troppo difficile morire” (in altri termini, chi scambierebbe volentieri quella grandeur con la tomba?)

Una delle dichiarazioni più sagge sulla morte degli ultimi anni è venuta dal letterato polacco Czesław Miłosz (1911-2004): “La religione, oppio dei popoli. Per chi soffre dolore, umiliazione, malattia e schiavitù ha promesso una ricompensa nell’aldilà, e ora stiamo testimoniando una trasformazione. Un vero oppio per i popoli è il fatto di credere che dopo la morte non ci sia nulla – il grande sollievo di pensare che non verremo giudicati per i nostri tradimenti, la nostra avarizia, la nostra codardia, gli omicidi di cui ci macchiamo”.

La morte è stata descritta come una fonte di terrore perché ci toglie da questo mondo, e come una fonte di misericordia per lo stesso motivo. La morte è stata considerata un’ingiustizia, perché santi e peccatori riceverebbero ciò che spetta loro solo nell’aldilà eterno. La morte è stata ritenuta un trionfo, l’atto supremo di disprezzo da parte dei malvagi che non pagheranno nulla per i loro crimini.

E i fedeli cattolici? Cosa rappresenta la morte per chi è un peccatore chiamato ad essere santo? Cosa significa per chi crede che Dio misericordioso sia giusto e pensa che Dio non sospenderà l’ordine morale per nessuno? Cosa vuol dire la morte per chi crede che dopo di essa ci si presenterà davanti a un Dio santo?

Nel mese di novembre, in cui i cattolici compiono sforzi speciali per pregare per i propri cari defunti, faremmo bene a considerare la nostra morte inevitabile. Nel far questo, dobbiamo ricordare che nessuno di noi conosce il momento esatto della propria morte, e quindi dobbiamo vivere di conseguenza. Quando ero uno studente universitario ho lavorato per alcune estati per una compagnia assicurativa, leggendo centinaia di resoconti di incidenti. Da giovane gesuita sono stato cappellano presso il centro traumatologico di una grande città, vedendo in prima persona la terribile confluenza tra la fragilità e l’imprevedibilità della vita. Nella nostra epoca di miracoli medici e sicurezza tecnologica, potremmo essere inclini a consierare la morte come qualcosa che capita “alla fine”, ovvero dopo che abbiamo fatto tutto ciò che dovevamo fare.

I cattolici delle generazioni passate capivano meglio la questione. La morte e i moribondi erano frequenti, visibili, e quasi sicuramente al di là del proprio controllo. L’enfasi veniva posta sul fatto di evitare non tanto la morte, quanto una morte “negativa”. I cattolici credevano che morire bene significasse morire in stato di grazia. Temevano la morte improvvisa, quella non preparata dai sacramenti e dall’intercessione della Chiesa. San Giuseppe veniva lodato come “patrono della morte felice”. C’erano litanie e devozioni dedicate a pregare contro la prospettiva di una morte improvvisa.

Nel The Shorter Book of Blessings (tratto dal Rituale romano), pubblicato nel 1990, al sacerdote vengono fornite preghiere per i malati, ma non per i morenti. Nel The Priest’s New Ritual, pubblicato nel 1947, c’erano preghiere per i malati e la “Litania per i Morenti”, preghiere per “l’Agonia Finale”, “l’Ultima Benedizione” e il “Perdono apostolico”. Si potrebbe credere che i cattolici di un’altra epoca avessero un senso più tangibile della morte e della necessità della grazia rispetto a oggi. Leggere quelle antiche preghiere può aiutare a evitare il peccato di presunzione – una forma di orgoglio che promuove la falsa speranza e illusioni di autosufficienza.

Contemplare la morte è un atto di saggezza, e aiutare altri a farlo è un atto di carità. Siamo mortali, e allora aiutiamoci a vicenda a prepararci alla morte. Siamo immortali, e quindi aiutiamoci l’un l’altro a incontrare Dio faccia a faccia.

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