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Come parlare di Dio oggi? Il contributo illuminante di un filosofo convertito

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Fabrice Hadjadj - pubblicato il 05/11/18
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Tratto da Pontificium Consilium pro Laicis, La domanda di Dio oggi, LEV, Città del Vaticano, 2012, pp. 171-180.

Il cardinale Rylko mi ha confidato di contar molto sulla mia conferenza, il che suppone, evidentemente, che io domini perfettamente il mio soggetto, un soggetto che tutto sommato non è poi così vasto; Dio, d’altronde, lo conosco molto bene, e vi spiegherò come se ne può parlare oggi. Alla fine avrete a disposizione una ricetta favolosa, una sorta di tecnica cristiana di vendita o marketing apostolico. Diventerete agenti pubblicitari dell’invisibile e potrete carpire l’attenzione dei vostri ascoltatori meglio di una serie di telefilm americani. Certo, se mi riuscisse un’impresa del genere, se arrivassi al punto di far in modo che parlare di Dio risulti facile come promuovere un iPhone, sarebbe un disastro: non sarebbe il Dio di Giobbe, ma di Jobs

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Ebbene no, Eminenza, devo confessarle, a mia vergogna: io non domino il mio soggetto, io neanche lo comprendo. San Gregorio Magno – il papa Gregorio – nel suo Commento morale a Giobbe diceva, precisamente: «incapaci di esprimerci con un linguaggio adeguato, parliamo di Dio secondo la nostra umana debolezza, balbettando in qualche modo, come bambini». Se san Gregorio Magno balbetta quando parla di Dio, che ne sarà di me? Posso solo riconoscere la mia impostura. Se ho un compito, in ogni caso, sarà quello di mettere tutti noi in imbarazzo, e non di farci sentire capaci. Il massimo che possiamo ottenere, con questa conferenza, è di imparare a balbettare, di accettare una condizione di prima infanzia, di parlare non per rivaleggiare con i grandi oratori, ma a modo di figli stupefatti davanti al mistero.

Ripenso alle prime parole del cardinale Rylko, quando ha introdotto la nostra Assemblea spiegando la scelta dell’immagine che troviamo sui nostri libri di preghiera e sui manifesti: Mosè che si toglie i sandali davanti al roveto ardente. Il cardinale ci ha chiesto di vivere in qualche modo lo stupore, la sorpresa di Mosè al momento della Rivelazione del Nome divino. È dunque innanzitutto questo stupore che dobbiamo ricevere, e non chissà quale tecnica di propaganda.

I.1. Perché “come”?

Ciò che subito mi sorprende, è la domanda che mi è stata posta, la sua stessa formulazione: “Come parlare di Dio oggi?”. Questa domanda implica molti presupposti discutibili.

Il primo presupposto è il fatto che si pone la questione “come”. “Come” e non “perché”, e nemmeno “cos’è parlare di Dio?”, ecco un punto interessante. Diamo per scontato che le due questioni “perché parlare di Dio?” e “cos’è parlare di Dio?” siano già risolte in partenza e che, in fin dei conti, parlando di Dio, sappiamo già esattamente ciò di cui si tratta: non dovremmo far altro che cercare il “come fare”. Sapete che la scienza moderna ha accantonato il “cosa” e il “perché” a vantaggio del “come”. La scienza moderna non cerca le cause, ma il “come” avviene un fenomeno, come funziona, per conseguire un controllo sulle forze della natura.

Il che è certamente molto utile, ma ovviamente molto limitato, in quanto riduce la nostra visione a una visione funzionale, utilitaristica delle cose; una visione che si può definire tecnicistica. Pertanto, anteporre il come al perché significa sottomettersi a questa visione tecnica.

Nella Chiesa spesso soccombiamo al dominio della tecnocrazia. Molti pensano che la nuova evangelizzazione consista nel migliorare le nostre tecniche di comunicazione o la nostra padronanza delle nuove tecnologie. Se questo fosse il punto, io preferirei la vecchia evangelizzazione. Oggi i mezzi si moltiplicano, ma avendo smarrito il “perché”, non sapendo più quale sia il fine, ci ubriachiamo di questi mezzi, moltiplicandoli per sé stessi perché non abbiamo più alcuno scopo, col solo fine di alienarci in un attivismo senza alcun senso.

È uno dei problemi attuali nell’insegnamento: abbiamo smesso di sviluppare la pedagogia. Non abbiamo smesso di sviluppare i metodi di insegnamento, ma non sappiamo più perché insegniamo; questo comporta una perdita di motivazioni tanto da parte degli allievi quanto da parte dei professori. E soprattutto c’è una perdita di autorità, dal momento che gli allievi continueranno sempre a domandare: «Ma perché ci insegnate queste cose?», oppure «Ma questo a che serve?», sempre con una visione utilitaristica delle cose. La verità, la bontà, la bellezza, a che servono? Non servono a niente, è vero, non esistono per servire, ma per essere servite. Tuttavia, con il metro dell’utilitarismo, per cui nulla vale se non possiamo servircene, la bellezza, la bontà, la verità non servono a niente, salvo nella contraffazione delle loro parodie: la seduzione, l’efficienza, l’apparente

I.2. A chi?

Seconda osservazione e seconda perplessità di fronte alla domanda. Vedete come è formulata: «Come parlare di Dio oggi?». Ora, parlare non implica solo parlare di qualcosa o di qualcuno, ma sempre anche parlare a qualcuno. La domanda non ci dice: a chi parlare (di Dio)? È una domanda senza interlocutore, senza destinatario; suppone che sia indifferente la persona a cui ci rivolgiamo. Ora è evidente che non si parla di Dio allo stesso modo a un marxista e a un salafita, a un bambino e a un esperto di mercati finanziari. Dovremo almeno usare modalità differenti. Dunque, cercare di sapere come parlare di Dio senza considerare a chi si parla, non è veramente un parlare, e per noi cristiani, quando si tratta di Dio, dovremmo chiederei se per caso non stiamo cercando di metterci la coscienza a posto: «Bisogna che io parli di Dio», «Mi hanno detto che bisogna evangelizzare … ». È un problema con sé stessi o con la propria comunità, e non l’apertura di una relazione con l’altro. E così avanziamo come un rullo compressore. Ecco perché, se vogliamo evitare l’effetto “rullo compressore”, è necessario che ci poniamo la questione del destinatario: a chi?

I.3. Ci fu un tempo in cui era facile?

Terzo presupposto. Nella domanda viene detto: come parlare di Dio oggi? il che suppone che oggi si incontri una particolare difficoltà. Questa particolare difficoltà, che richiama d’altronde a una nuova evangelizzazione, è quella di dover parlare di Dio, almeno per noi europei, a popoli scristianizzati. È molto più difficile parlare a chi è scristianizzato che a chi ignori completamente Cristo. Perché chi è scristianizzato crede di sapere già chi sia Gesù Cristo, ne ha già sentito parlare, e questa è l’ignoranza peggiore. L’ignoranza peggiore è ignorare di ignorare, credere di sapere quando invece non si sa. È vero che oggi in Europa esiste una speciale difficoltà. E potremmo dire che questa difficoltà si è estesa a tutto il mondo. Perché ormai di fatto tutti i popoli credono di sapere già ciò di cui si tratta quando si parla di Cristo.

Ma c’è stato mai un periodo storico in cui fosse più facile parlare di Dio? Spesso si vagheggia una cristianità d’altri tempi, una cristianità in cui tutto era facile, dove si parlava di Dio come si parlava del pranzo di oggi, della pioggia o del bel tempo. Ora, tutta questa facilità per sé stessa fa difficoltà. Ma di per sé, a prescindere dal tempo in cui ci si trova, è facile parlare di Dio? Sant’Agostino, nel primo libro delle Confessioni, dice: «Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri». Tutta la nostra riflessione si colloca all’interno di questa doppia affermazione: non possiamo parlare veramente, interamente, pienamente di Dio ineffabile e allo stesso tempo non possiamo tacere di lui.

II.1. La Parola “Dio”

Dopo queste premesse, comincio ad affrontare un primo aspetto della questione di parlare del Dio ineffabile, riprendendo il problema della facilità. Primo: la presenza della parola “Dio” nella nostra lingua. Devo confessarvi che, prima della mia conversione, era una parola che detestavo.

Perché? Perché avevo l’impressione che quando qualcuno pronunciava “Dio”, mettesse fine a ogni conversazione, introducesse, barando, una sorta di jolly in una partita a carte. E quindi concepivo Dio come una soluzione magica, direi anzi una “soluzione finale”, con tutto quanto di terribile queste parole evocano: una soluzione finale dentro una discussione.

Ora è evidente che “Dio” non è una soluzione finale, ma piuttosto il riconoscimento di un abisso, di qualcosa che ci supera. La parola “Dio” non è tanto una risposta quanto un’invocazione, un’esigenza. È quello che spesso ricordo ai seminaristi – insegno al seminario di Tolone -; dico loro: “Quando siete in missione e qualcuno vi dice: io non credo in Dio, fate attenzione, non saltategli addosso dicendo: ma no, bisogna che tu creda in Dio! Perché in questo caso nemmeno voi credete al ‘Dio’ di cui quella persona parla! Domandategli innanzitutto cosa intende con questa parola“. Vedete come bisogna fare sempre attenzione ai termini che usiamo, intraprendendo una conversione del vocabolario. Una conversione nell’uso delle parole.

Un giorno, e questo è stato un momento decisivo per la mia conversione, ho capito che la parola “Dio” non era, come si suol dire, un tappabuchi, qualcosa per turare le crepe, ma, al contrario, qualcosa che spalancava un abisso, che preservava il mistero dell’esistenza, che ci lasciava in qualche modo aperti, pieni di meraviglia. La parola “Dio” è la parola che ci dice che non abbiamo l’ultima parola. Il Nome di Dio non è chiusura del dialogo, ma, al contrario, accoglienza del mistero. Il Nome di Dio non è il nome che rende autosuffìcienti e superbi, ma il nome che esige la nostra umiltà e il nostro amore per l’interlocutore, chiunque egli sia. È per questo che non dovremmo mai “assestarlo” come una mazzata.

II.2. Banalizzazione fondamentalista

Sempre a proposito della questione di parlare del Dio ineffabile, vorrei sottoporvi un duplice problema. Il problema della banalizzazione della parola “Dio”, una banalizzazione fondamentalista, e il problema opposto della rimozione umanistica del termine.

Nei discorsi del fondamentalista la parola “Dio” invade tutto, è una soluzione a tutto. Se fai una domanda sull’evoluzione delle specie, dice: consulta la Scrittura. Se fai una domanda scientifica o economica, consulta la Scrittura, la soluzione è pronta, senza riflettere. È già tutto pronto, hai l’impressione che basta dire “Dio” e tutto è risolto.

Dio diventa la risposta a tutto per il fondamentalista. Pertanto, il discorso su Dio escluderà ogni altra forma di discorso. Non ci saranno più discorsi sulle cose. È per questo che un tale discorso finisce per banalizzare “Dio” e soprattutto lo rende un termine invadente, intrusivo, espulsivo di ogni altra idea, e comporterà una reazione, la reazione dell’ateismo.

“Tu mi parli di Dio, ma perché mi parli di Dio mentre io sono davanti a te e tu davanti a me? Parlami di te, parlami di me, parliamo di noi e di queste cose visibili che ci circondano! Perché mi rimandi a un qualcosa che per me è incerto? Perché fuggi dalla realtà delle cose?”. L’ateo finirà per convincersi che la fede del fondamentalista, cristiano o musulmano che sia, altro non è che nichilismo.

Vorrei rimarcare una cosa: Nietzsche (si è già parlato di Nietzsche in quest’Assemblea), non è nichilista; Nietzsche al contrario è il filosofo che ha tentato di uscire dal nichilismo. Il fatto è che ha ritenuto il cristianesimo un nichilismo. Perché? Perché il cristianesimo dice: l’essere, colui che è in pienezza, in verità, è Dio. E ha creduto che ciò volesse dire che il mondo in cui viviamo non esiste realmente. Voi credete in un aldilà, questo significa che voi disprezzate ciò che è di quaggiù, dunque siete nichilisti, negare il valore di questo mondo a vantaggio di un altro mondo ipotetico. Negate ciò che vedete a vantaggio di qualcosa di invisibile. Ecco cosa dice Nietzsche; e vuole uscire da questo nichilismo cristiano, da quello che crede un nichilismo. E perché? Perché il discorso che sente fare è un discorso fondamentalista, vale a dire un discorso dove la parola “Dio” esclude ogni altra forma di pensiero e si presenta come una soluzione finale e magica. L’ateismo di Nietzsche, nel suo aspetto migliore, ci chiede di tornare alle cose, o meglio alle semplici apparenze, e di non far più appello a un aldilà fittizio e negatore delle cose di quaggiù.

Vedete dunque che il fondamentalismo parla con facilità di Dio, cucina questo termine – come si suol dire – “in tutte le salse” e, conseguentemente, provoca automaticamente la reazione dell’ateismo. Sapete, così viene a crearsi una situazione curiosa: l’ateo, proprio come il fondamentalista, parla con facilità di Dio. Un ateo non smette mai di parlare di Dio. Il problema dell’ateismo è l’ossessione di Dio, il tentativo di rigettare questa parola ripetendola in continuazione. L’ateo pretende di parlare di Dio con enorme facilità. Ciò che accomuna il fondamentalismo e l’ateismo è questa facilità nell’uso del termine “Dio”, da un lato per una sorta di propaganda meccanica, dall’altro nel tentativo di farla scomparire: invano, certamente, perché l’ateo si rende conto benissimo che il termine è un po’ come l’idra, ogni volta che tenta di tagliare una testa, rispunta, e non sa più che fare.

In entrambi i casi, la parola “Dio” è un oggetto maneggiato a modo nostro, ridotto a misura nostra, di cui ci appropriamo, non più grande di noi. Sapete cosa sta scritto nel Vangelo di Matteo: «Molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”» (Mt 7,22-23). Nostro Signore si riferisce a chi parla continuamente di Dio, che tutto fa in nome suo, eppure non lo conosce; la ragione è questa sorta di banalizzazione, di appropriazione: “Ho ridotto l’Altissimo a un piccolo idolo domestico, l’ho strumentalizzato per accrescere il mio potere”. Succede la medesima cosa al fondamentalista e all’ateo, è questo il buffo: l’ateo, anche lui, denuncia, strumentalizza il Nome di Dio per accrescere il proprio potere. Pertanto, potremmo dire, sulla base delle parole evangeliche che abbiamo appena ascoltato: l’importante è non commettere iniquità, l’essenziale si trova sul versante della giustizia, bisogna realizzare la giustizia. Quindi amare il prossimo, amare gli uomini e, al limite, smettere di parlare di Dio.

II.3. Rimozione umanistica

Quest’ultima considerazione ci conduce al secondo problema: la rimozione umanistica, “la mistica del nascondimento”, come talvolta si sente dire. Smettiamola di parlare di Dio, viviamo piuttosto in modo giusto con tutti gli uomini. È meglio una carità silenziosa che una verità schiacciante.

Però, procedendo in questa direzione, finiremo per dire: se possiamo essere giusti senza parlare di Dio, possiamo essere giusti senza Dio. La rimozione umanistica che troviamo in alcuni cristiani provoca la reazione dell’agnosticismo. L’agnosticismo dichiara: ecco, è sufficiente essere giusti. Si può essere giusti senza credere in Dio, la conoscenza di Dio non cambia niente. Sapete quanto spesso sentiamo ripetere questo. Ed è così che cadiamo nell’agnosticismo. L’agnosticismo non è un ateismo, non sostiene: Dio non esiste. Dice semplicemente: la conoscenza di Dio non cambia nulla in un’esistenza umana, si può essere buoni e giusti senza fede e religione. Gli agnostici sostengono una morale, ma una morale senza Dio, perché la morale non suppone la conoscenza di Dio.

Ora, questo è del tutto falso. Il cardinale Rylko ha ricordato nel suo primo intervento che con Dio tutto cambia, da cui discende l’importanza di conoscerlo. Perché? Perché non si può essere giusti senza avere una conoscenza di Dio, almeno implicita. In realtà, la questione andrebbe posta così: Chi ci mostrerà la giustizia? Se suppongo di poter essere giusto senza Dio, significa che io cercherò il fondamento della giustizia in qualcos’altro che non sia Dio, dunque penserò che l’uomo è la misura del giusto e dell’ingiusto. Ma se l’uomo è la misura del giusto e dell’ingiusto, rendetevi conto, non c’è più nulla di trascendente, non ci sono più leggi trascendenti, dunque tutto diventa manipolabile. E ci troveremo necessariamente o nel lassismo, dove tutto è permesso, o in non so quale norma di giustizia da imporre a tutti, finendo nel totalitarismo. Non è vero che possiamo essere perfettamente giusti senza una conoscenza almeno implicita di Dio. Perché altrimenti presenteremmo noi stessi come maestri di giustizia, il che è assolutamente falso.

Seconda osservazione: non si può essere perfettamente atei. È una questione molto importante. Io ho cercato di essere ateo, ho fatto questo tentativo per voi, ve ne posso dire qualcosa. È molto difficile essere atei, addirittura quasi impossibile. Vedete, la domanda che bisogna porre alle persone non è: “Credi in Dio?”, ma: “Quale principio divinizzi nella tua vita?”. Rendetevi conto della difficoltà. Vi dico questo perché essere atei richiede di non divinizzare nulla, e soprattutto di non divinizzare l’ateismo. Perché se faccio dell’ateismo una sorta di nuova religione, sono in contraddizione. Non devo divinizzare il mio ateismo, non devo nemmeno divinizzare il mio giudizio, non devo divinizzare me stesso, né il denaro, né il piacere, né la letteratura… se sono ateo per davvero, devo accettare di non disporre dell’ultima parola, di non avere l’ultima parola.

Capite la contraddizione che c’è in seno all’ateismo, che non può essere sincero senza questa dinamica. Se io affermo drasticamente: “Ecco, la questione è chiusa, è risolta”, allora c’è qualcosa di falso nel mio ateismo.

Dire: “Io non ho l’ultima parola”, non significa soltanto: “non abbiamo che parole penultime”. Perché se dici: “non esistono che parole penultime, non c’è parola ultima”, in quel momento la tua parola penultima diventa la parola ultima. Perciò bisogna dire: “Io non ho l’ultima parola, ma ci dev’essere una parola ultima, riconosco che c’è una parola ultima”. L’ateismo, quando è sincero, vuol distruggere tutti gli idoli, ma una volta distrutti tutti gli idoli, deve distruggere l’idolo dell’ateismo, e in quel momento deve accettare, deve confessare una certa disponibilità, una certa apertura al mistero.

In fondo, si potrebbe dire che l’ateismo, quando è in buona fede, non può giungere al suo compimento senza accogliere la trascendenza del mistero. Qualcosa non prodotto da noi, ma che viene a noi. L’ateismo non giunge al suo compimento se non distrugge tutti gli idoli; ed è al termine della distruzione che può farsi presente il Dio vero, colui che noi non abbiamo scelto, ma che ha scelto noi.

II.4. La questione metafisica fondamentale

Vedete, dunque si tratta di uscire dal duplice problema di cui ho trattato, quello della banalizzazione fondamentalista e quello della rimozione umanistica. Parlare di Dio non è parlare di una cosa tra le altre, ma parlare dell’origine di tutte le cose. Ecco, senza dubbio, il punto più importante: parlare di Dio non è parlare di una cosa tra le altre, come se si trattasse di una super-creatura. Non è una cosa a fianco alle altre, non è una cosa in mezzo alle altre, ma la loro origine trascendente (e la trascendenza non è un dato esteriore). La parola di Dio non è quindi una parola esclusiva, come crede il fondamentalismo, ma una parola inclusiva. È una parola sempre attenta e amorosa, io infatti parlo davvero di Dio se mi meraviglio delle sue opere, se volgo lo sguardo verso le cose come verso le sue amate creature.

Sullo sfondo emerge una questione metafisica fondamentale, la questione della relazione tra il Creatore e la creatura. Spesso, in proposito, abbiamo una visione concorrenziale. Quando dico visione concorrenziale, mi riferisco all’idea che per far posto alla creatura bisognerebbe allontanare il Creatore e che, reciprocamente, per far posto al Creatore, bisognerebbe allontanare, cacciare la creatura. Altrimenti, terza possibilità per salvare capra e cavoli, se vogliamo salvare entrambi: lasciare una parte al Creatore e una parte alla creatura. Ora, queste tre opzioni sono false. La verità è che più vado verso la creatura, più vado verso il Creatore, perché è la sua origine. E più vado verso il Creatore, più mi volgo alle creature, perché sono opera sua.

Dico spesso che certi cristiani, e in questo consiste il problema del fondamentalismo in generale, assomigliano a quel tipo di ammiratori che rivolgendosi a Dante, per esempio, gli direbbero: “Signor Dante, lei è ammirevole, lei è il grande Dante!”; e Dante domanda loro: “Avete letto La Divina Commedia? Qual è il canto che vi ha colpito di più?” e gli ammiratori rispondono: “Veramente no, non l’abbiamo letta”. Allora il poeta chiede: “ma allora, perché quest’ammirazione per me?”, e gli ammiratori: “Noi sappiamo che lei e il grande Dante, abbiamo sentito parlare di lei, del suo genio, della fama che circonda la sua persona, ma della sua poesia, no, non ce ne siamo mai interessati”.

Vedete, spesso andiamo da Dio a dirgli: “Io ti amo, o Creatore”, ma non ci interessa la creatura. E questo è assurdo, o meglio, perverso. Ecco perché la posta metafisica fondamentale è comprendere che andare verso Dio non significa allontanarsi dalle creature, e che l’abbandono a Dio non implica alcuna alienazione, Dio non ci toglie nulla; volendo esprimerei in modo appropriato: Egli a noi non vuole che donare. E se dà l’impressione di volerci togliere qualcosa, si tratta di cose superficiali o di intralcio. Cose che in realtà ci trascinano verso il nulla, che non appartengono all’ordine dell’essere, della pienezza dell’essere.

Se vai da qualcuno a parlargli di Dio, finirai per dirgli: “Nel tuo cuore, tu desideri Dio, del resto tutti gli uomini desiderano vedere Dio”. E la persona sgrana gli occhi e ti risponde: “No, io non desidero vedere Dio. Desidero vedere una bella donna, per esempio, o desidero vedere Venezia, o un bel film d’azione”. Ma in fondo, che significa vedere qualcuno? Quando si ama qualcuno, ci si volge a lui e si percepisce chiaramente che c’è un mistero che ci sfugge. E vorremmo poterlo cogliere davvero, questo mistero, vorremmo poter abbracciare la persona che si ama nella sua essenza, ma è evidente che le nostre braccia non arrivano a tanto.

C’è un mistero in ogni abbraccio: più stringiamo la persona e più avvertiamo che ci sfugge, che le luminose profondità della sua essenza ci sfuggono. E quindi se voglio scrutare fino in fondo la mia sposa, se voglio scrutare fino in fondo il cardinal Rylko nel mistero del suo volto, non posso che vederlo in Dio, nella sua origine. Non c’è concorrenza: non mi volgo veramente a un volto che partendo da Dio. Per questa ragione bisogna trovare una modalità di discorso che non sia esclusivo, al modo dei fondamentalisti: “Ti assesto Dio dall’alto, per respingerti”, ma che sia inclusivo, come le braccia di una madre, in fin dei conti un discorso che cerchi di illuminare le profondità di ogni realtà. Quello che sto dicendo è che, in fondo, la nostra domanda è: come parlare nella verità?

III.1. Come parlare

Parlare di qualcosa in profondità conduce sempre a parlare del mistero divino. Come uscire dalle chiacchiere? Come superare lo stadio della comunicazione animale? Come accade che una parola è vera? C’è un requisito fondamentale per la verità di una parola, ed è che la verità della parola deve contenere la verità dell’esistenza. E che cos’è la verità dell’esistenza? È che io desidero la felicità e che io morirò. Una parola non è profonda, non è vera, se non contiene allo stesso tempo la coscienza della morte e il desiderio della gioia. La parola è vera solo se contiene questa estrema tensione, questa estrema lacerazione, questo profondo mistero dell’esistenza: “Voglio la gioia eppure sono votato alla morte”, e non solo alla morte fisica, ma anche alla morte morale, al fatto che il peccato m’impedisce di andare verso la gioia.

Per questa ragione tutte le parole vere contengono un grido, un grido d’invocazione, l’invocazione verso un Salvatore, l’invocazione di una salvezza, altrimenti non sarebbero che chiacchiera, passatempo.

III.2. La preghiera nascosta nella parola più comune

Prendiamo una parola qualsiasi: diciamo “ti amo” a qualcuno, e Dio sa che questo succede anche tra le persone che non sono credenti – che si considerano non credenti -; ora, come portare questa parola alle sue ultime conseguenze? Se è una parola vera, se non sto mentendo, se sto dicendo veramente “io ti amo”, che significa? Significa: “Io voglio il tuo bene”, significa: “Sono felice che tu esisti e quindi voglio che tu esista, per sempre”, significa: “Ho contemplato in te un mistero degno d’amore”. Tutto rimanda al mistero di colui che ci ha creati per amore.

La poesia rimanda chiaramente a questo mistero. Ma anche la scienza, perché una scienza che non si spinge fino alla meta della riflessione, al perché, alla ricerca delle cause, fino alla causa prima, è solo una scienza parziale, non può assolutamente pretendere di aspirare alla verità. In fondo, se una scienza evita la questione del senso dell’esistenza, se evita la questione della sapienza, diventa falsa, perché non impara se non per ignorare l’essenziale. Una parola pertanto non parla veramente se non accoglie il mistero dell’esistenza e cerca un senso – visto come questa esistenza si slancia verso la gioia e bussa alla felicità – cerca una salvezza. Nessuna parola parla veramente se non parla, almeno implicitamente, di Dio, se non porta, almeno implicitamente, l’istanza di Dio.

III.3. Annunciare colui che già è presente

Pertanto, tutto il lavoro è un lavoro di esplicitazione. Non si può parlare di Dio dall’esterno: «Ecco, ti fornisco una nozione che tu non conosci affatto, d’altronde tu sei una nullità, vivi nel peccato, non sai niente, io so tutto. Ecco, ti do la soluzione». No, noi riveliamo sempre colui che già è presente, in modo senza dubbio imperfetto, ma perché giunga a perfezione. Perfezione della grazia, perfezione della conoscenza, della coscienza del Mistero.

È precisamente quanto succede negli Atti degli Apostoli. Penso al primo discorso di Pietro, quando non dice ai Giudei: vi do qualcosa che non ha niente a che vedere con la vostra storia. Dice invece: vi annuncio il compimento della vostra storia, si tratta proprio della vostra storia (cfr. At 2,14-36). E quando Paolo si rivolge ai pagani, per esempio in Licaonia, fa la stessa cosa: « Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge per stagioni ricche di frutti e dandovi cibo in abbondanza per la letizia dei vostri cuori» (At 14,16-17). Paolo dunque dichiara: colui che vi annuncio è già presso di voi. E fa lo stesso davanti all’Areopago: la divinità non è lontana da ciascuno di noi – dice – in essa abbiamo la vita, il movimento e l’essere (cfr. At 17,27-28).

Comprendere che non possiamo parlare dell’esteriorità, ci permette di liberarci dal pericolo di un implacabile moralismo. Significa che Dio non si riduce a una Legge e che giudicherà le persone a partire dalle sue norme, se si siano conformate alle norme oppure no. Dobbiamo sempre credere che, se è Dio, è il Creatore della persona che abbiamo di fronte, che quindi le è vicino e perciò è già presente nella sua vita, ed è a partire da qui, a partire da questa presenza di Dio nella persona, non a partire dalle sue mancanze, che potremo annunciare il Signore.

III.4. Fino al cuore del nemico

In fondo, non possiamo parlare di Dio a chicchessia se innanzitutto non siamo meravigliati della presenza di Dio che in qualche modo si realizza nel nostro interlocutore, della presenza in lui almeno come autore della sua natura, quand’anche fosse molto sporcata. Anche se questa persona si presentasse come un senza Dio, un mascalzone, un nemico. Se non mi meraviglio di lui in quanto creatura di Dio, se non mi stupisco per l’unicità del suo viso dove la gloria vuole risplendere, non posso parlargli davvero, perché in tal caso non sarebbe di Dio che gli parlerei, ma di qualcosa d’esteriore, di secondario oppure di una superiorità schiacciante. No, Dio è presente in lui, non foss’altro che per la sua presenza nella creazione, la sua immensa presenza, forse non la presenza della grazia, ma presenza che attualmente lo sta creando, Dio è interamente occupato a crearlo con amore. È questa meraviglia che ci dà il dono di dominare “fino al cuore del nemico”.

Sapete, è un versetto del Salmo 109: domina fino al cuore dei tuoi nemici (cfr. Sal 110 [109], 2). Non tentiamo di dominare con la violenza, non tentiamo di dominare dall’esterno, non tentiamo di costringere o blandire i corpi. Cos’è dunque questo dominio del cuore del nemico? Viene dalla consapevolezza che anche la persona che sembra più lontana, è possibile che in realtà sia più vicina a Dio di noi, e sembri lontana per una sua ignoranza invincibile. In ogni caso, Dio le è vicino, e noi siamo certi che il suo cuore è stato fatto da Dio e per Dio, quindi il suo cuore è nostro alleato. Anche se si presenta come ostile e nemica, il suo cuore è nostro alleato. Se innanzi tutto non siamo meravigliati di questo, allora non stiamo parlando di Dio, ma di faccende secondarie.

IV.1. Perché parlare di Dio? Il sogno di una super-bestialità

Arrivo ora a una questione ancor più fondamentale. In fin dei conti, perché parlare di Dio? L’ho già suggerito, non si può essere giusti senza una certa conoscenza del Dio della giustizia, di colui che è la giustizia, e che, essendo giustizia, ci mostra ciò che è la vera giustizia, la giustizia misericordiosa. Altrimenti ricadiamo nel lassismo di una falsa misericordia, oppure nel totalitarismo di una falsa giustizia. Dietro a questa costante, in realtà, c’è qualcosa di più profondo, una domanda semplicissima: perché Dio non ci parla direttamente? Perché tocca a noi parlare di lui? E perché non abbiamo un auricolare, delle cuffie? Potremmo così giovarci continuamente di locuzioni interiori. Alcuni desidererebbero una comunicazione così immediata. Ma se disponessimo di una tale immediatezza non saremmo più completamente uomini, ma piuttosto bestie superiori. Voglio dire che agiremmo per istinto.

Lo specifico dell’uomo è di domandarsi cosa deve fare. Un animale non si pone domande, agisce in modo assolutamente determinato. Essere uomo, significa dover sempre cercare un senso, interrogarsi sulla propria vita e formulare attivamente una risposta o un’invocazione.

IV.2. Il dono della missione

Malgrado tutto, la questione resta: perché Dio si nasconde? Perché è così silenzioso? In realtà, se è silenzioso, è perché noi non restiamo muti. Dio non è avaro, la sua generosità non si limita a elargirci i suoi doni in modo che restiamo passivi, senza più nulla da fare. La sua generosità non è avara perché consiste nel renderci noi stessi generosi, fecondi. La sua generosità consiste nel rendere la sua creatura partecipe delle sue bontà, cooperatrice della sua azione.

Per questo motivo Dio vuole parlare attraverso le sue creature. Se ci parlasse direttamente, la creazione smetterebbe di essere parola di Dio, le cose che ci circondano non sarebbero più segni di lui. Questa bottiglia sul tavolo, la luce che passa attraverso l’acqua … c’è qualcosa, un mistero che i poeti sanno contemplare, e spetta a noi ascoltare
questa parola di Dio nel silenzio della contemplazione.

Ma c’è più di una bottiglia d’acqua illuminata, c’è il volto di un altro uomo. Dio parla sempre attraverso testimoni perché vuole donarci di cooperare alla sua opera. Vuole che siamo noi la sua presenza gli uni per gli altri. Si può dire che l’apparente assenza di Dio è in realtà il dono della sua presenza attraverso la sua creazione, attraverso di noi. È il dono di una missione che ci coinvolge.

IV.3. Un’alleanza e non una teoria

Gesù stesso non parla imponendo le cose dall’alto. Come mai? Perché non è venuto a comunicarci una teoria, ma a concludere un’alleanza. Ecco un aspetto decisivo: quando Dio parla, è per fare alleanza. Allora comprendo che parlare di Dio non significa trasmettere semplicemente un messaggio, una teoria generale. Il mistero del cristianesimo sta nel fatto che il Messaggero è più importante del Messaggio, o, se preferite, che il Messaggero è il Messaggio.

Qui non mi sto riferendo semplicemente a Cristo, al mistero dell’Incarnazione: mi riferisco al mistero stesso della Trinità. Il mistero della Trinità ci rivela che Dio non è un oceano di luce anonimo e impersonale, ma è comunione di Persone. Per cui parlare di Dio non è tanto trasmettere un messaggio, ma vivere una comunione profonda a partire dal mistero trinitario. La Rivelazione in fondo ci mostra che i volti sono più importanti delle idee. E che se, a un certo punto, preoccupato di trasmettere un messaggio, mi metto a disprezzare il volto dell’altro, la presenza del mio interlocutore… beh, da quel momento ho travalicato i limiti della verità cristiana.

Il cristianesimo afferma il primato della persona, perché Dio è comunione di Persone. E dico persone nella loro diversità, perché in Dio c’è questa diversità eterna che è garanzia della nostra differenziazione e della nostra diversità eterna. Se difendiamo i dogmi cattolici, non lo facciamo in quanto vogliamo difendere le idee, ma per salvaguardare la diversità dei volti. Perché i dogmi manifestano l’avvenimento che salva ogni volto nella sua unicità.

Ed è per questo, per annunciare la comunione delle Persone divine, che è necessario vivere la comunione. Parlare di Dio non è possibile se non a partire da una comunità, non si può mai a guisa di cavaliere solitario. I discepoli sono inviati due a due. È il minimo. D’altronde il cucciolo dell’uomo non fa la sua apparizione che per la comunione tra i due sessi. Succede la stessa cosa, per analogia, nell’ordine soprannaturale: è necessaria la comunione delle persone più diverse perché un uomo ascolti la parola di Dio e rinasca alla grazia.

V.1. Il bello di oggi

Per concludere, dobbiamo affrontare l’ultimo termine della nostra domanda: “Oggi”. Vi rendete conto che ciò che ho detto fin qui può valere per ogni epoca. Adesso si tratta di pensare ciò che è specifico dei tempi nostri. Ora, la prima cosa che occorre dire in proposito, è che non dobbiamo aver nostalgia di una cristianità ormai passata.

Il professor Sergio Belardinelli ieri ha affermato che tutte le epoche sarebbero contemporanee nei confronti dell’eternità e che dunque tutte sarebbero allo stesso modo altrettanto vicine e altrettanto lontane da Dio. È vero da un punto di vista metafisico, ma non è affatto vero dal punto di vista storico.

Dal punto di vista storico, bisogna riconoscere che la Storia ha la dinamica rivelata dalla parabola del grano e della zizzania. La parabola del grano e della zizzania ci dice che la storia consiste in una crescita parallela del male e del bene, simultaneamente. Vale a dire che le cose vanno sempre meglio e sempre peggio. Veniamo così a trovarci allo stesso tempo nella migliore e nella peggiore delle epoche, e domani sarà ancor migliore e ancor peggiore.

Per quanto riguarda il miglioramento, che grazia, ad esempio, vivere dopo la definizione del dogma dell’Assunzione! Gli altri cristiani non hanno avuto questa certezza, ma noi abbiamo questa chiarificazione meravigliosa, quindi la nostra epoca è migliore da questo punto di vista. Che grazia anche l’essere venuti fuori (ed era ora!) dall’antigiudaismo che a lungo ha corroso la Chiesa dall’interno: penso al Giubileo del 2000, durante il quale molto si è discusso della questione, e la Chiesa ha fatto penitenza per il disprezzo verso il mistero d’Israele nel quale erano incorsi i suoi figli. Che grazia anche poter vedere nel Santo Padre innanzi tutto il Vicario di Cristo e non un pericoloso sovrano temporale, com’era una volta. I francesi un tempo non guardavano al Papa ma al “Re Cristianissimo”, al Re di Francia: era lui il punto di riferimento del cristianesimo, non il Papa, e questo generava confusioni tremende, collusioni disastrose.

V.2. La possibilità della distruzione totale

Devo però parlare del peggio, osservando incidentalmente che il fatto di aver coscienza del peggio fa parte ancora dell’aspetto migliore della nostra epoca. Se si deve qualificare l’oggi, è appropriato sottolineare che per la prima volta con una tale evidenza e certezza abbiamo la coscienza della finitudine della specie umana, in quanto specie. Un tempo sapevamo che ogni uomo è individualmente finito, ovverosia che è destinato a morire; ma in questo caso abbiamo la coscienza che l’uomo, inteso come specie, può scomparire completamente

Viviamo nell’epoca della fine delle utopie politiche, della fine del progressismo. Le utopie politiche potevano farci credere a un “radioso avvenire”; oggi non crediamo più a un futuro felice, regna piuttosto un catastrofismo generalizzato. Arthur Koestler diceva nel 1979: «Se mi chiedessero qual è la data più importante della storia come della preistoria del genere umano, risponderei senza esitazione: 6 agosto 1945 [ … ]; dal giorno in cui la prima bomba atomica ha eclissato il sole di Hiroshima, l’umanità deve vivere nella prospettiva della sua totale scomparsa in quanto specie».[1]

Siamo la prima generazione ad aver smesso di credere di avere un domani. Siamo la prima generazione ad aver preso coscienza della possibilità di una scomparsa totale molto realistica e imminente. Per questa ragione, tutte le utopie politiche mondane, il marxismo, il liberalismo stesso … sono state condannate a sparire, perché non crediamo più in una posterità.

Perché i giovani si disperdono nel mondo virtuale? Precisamente perché non credono più nella consistenza del mondo. Siamo in un’epoca in cui sempre di più si impone l’interrogativo della legittimità dell’esistenza dell’uomo. Ormai un certo darwinismo arriva a dire che l’uomo è un incidente, un “fai da te”, è destinato a essere soppiantato da un’altra specie. Una tale idea è la dichiarazione di morte dell’umanesimo ateo.

V.3. Di fronte al post-umanesimo

E noi, al posto di questo umanesimo, che abbiamo?

Tre forme di post-umanesimo. La prima è un tecnicismo che vuole produrre un superuomo efficientissimo o assorbito in divertimenti virtuali. La seconda forma è un ecologismo favorevole alla scomparsa dell’uomo a beneficio della Natura. E la terza consiste in questo fondamentalismo di un Dio che schiaccia l’umano.

Siamo dunque alla fine dell’umanesimo ateo e all’inizio di un post-umanesimo. Ora, questa situazione è un’occasione straordinaria per l’evangelizzazione. Dato che le speranze mondane, questi surrogati, sono crollate, è il momento di riaffermare la speranza teologale. Dato che l’umanesimo ateo, questa parodia, è distrutto, è il momento di mostrare un “umanesimo teocentrico”, come auspicava Paolo VI.[2]

Ormai non si può più fondare l’umanesimo sull’uomo, perché non ci crediamo più, ma solo su Dio, solo su un Creatore che ha voluto l’uomo e l’ha desiderato e lo chiama alla vita eterna. Ormai non si può più fondare la speranza sul progresso storico, perché proprio questo progresso ci agita sotto il naso la catastrofe ecologica e la distruzione nucleare, ma soltanto sulla promessa di un Dio che ci fa il dono di aprirci una strada attraverso il Mar Rosso.

V.4. Fine del mondo

Per un cristiano, l’idea stessa di una fine del mondo non è un ostacolo. Io spesso la menziono. Abbiamo parlato, in questi giorni, del dono della vita, abbiamo sottolineato che la Vita è uno dei nomi di Cristo, non soltanto la Via e la Verità: egli è la Vita, con il suo carattere drammatico e imprevedibile, con un’inventiva che incessantemente si rinnova.

Oggi, accettare una nascita è diventato più difficile. Se non crediamo più al futuro, perché donare la vita? Nelle società occidentali è diventato un problema fondamentale. Il mio amico Rémi Brague, il filosofo, insiste molto su questo punto. Perché donare la vita? Evidentemente, se non crediamo nella vita, e quindi nella vita eterna, oggi non abbiamo più ragioni per donare la vita. Certo, da sempre solo la” vita eterna è una ragione definitiva, radicale, per accogliere un cucciolo d’uomo. Ma le speranze mondane hanno potuto produrre motivi sostitutivi e incoraggiare una certa propensione a generare. Oggi non è più così.

Mi piace ripetere che se venissi informato che la fine del mondo avverrà sicuramente nel dicembre 2012, la cosa non mi impedirebbe di avere un figlio a novembre (d’altronde sono in attesa del mio sesto figlio a maggio). Perché ai miei orecchi queste predizioni di morte non possono avere la meglio sulla profezia della vita? Perché la mia prospettiva per questo figlio non è la riuscita terrena, ma la gloria eterna. Io accolgo questo mio figlio perché viva, e viva in eterno.

Così, mentre le speranze terrene crollano, la questione della vita, la normale trasmissione della vita, diventa sempre di più legata alla questione di Dio, dato che non ci sono più le utopie a promuovere una propensione di ripiego alla generazione, dato che non crediamo più in un “radioso avvenire”.

V.5. Persecuzione e testimonianza

Evidentemente, il verificarsi di questa formidabile situazione non significa che non incontreremo persecuzioni. Al contrario. Perché le persecuzioni non sono un ostacolo. Le persecuzioni allargano lo spazio della testimonianza, perché sono l’occasione di parlare nella verità del Dio che fa grazia e del suo Amore forte come la morte. Ci permettono di parlare come ha parlato il Verbo, vale a dire attraverso la croce. Il martirio è una legge costitutiva della Chiesa. Non è un incidente, non è l’effetto di un semplice malinteso. È quanto affermava il grande teologo Eric Peterson negli anni Quaranta: «Un certo numero di spiriti concilianti sono inclini a credere che quanto accade di male in questo mondo può essere imputato a semplici malintesi. Se si desse loro credito, bisognerebbe concludere che la crocifissione di Cristo e il martirio degli apostoli sono conseguenze di malintesi [ … ]. Le parole di Gesù dimostrano, al contrario, che non è un equivoco umano a creare il martirio, è una necessità divina».[3]

Potremmo sostenere che ci hanno crocifisso perché non ci hanno capito. Ma può essere che, proprio come il demonio, ci hanno capito fin troppo bene, e che dovranno passare per questo crimine, come Davide, per rendersi conto dell’orrore che hanno perpetrato. Così il sangue diventa seme, come diceva Tertulliano.[4]

Per concludere non posso esimermi dal citare il Vangelo di Luca che abbiamo ascoltato questa settimana, il 22 novembre: «Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (Lc 21,12-15).

Questo passo risponde perfettamente alla domanda: «Come parlare di Dio oggi?». Risponde perfettamente, perché ci dimostra che non esiste una risposta tecnica o teorica, ma che noi stessi, ciascuno di noi, dobbiamo essere risposta, seguendo Cristo fin sulla croce. Non si tratta di avere straordinarie capacità retoriche. Non si tratta neanche di disprezzare la retorica, né di vantarsi di non possedere alcuna capacità retorica. Perché la questione si colloca non sul versante dell’avere, ma dell’essere. Si tratta di essere con Cristo, di essere come lui parola viva e libera, dunque non tanto di avere una parola su Dio, quanto di essere gli uni per gli altri parola che viene da Dio.

2/ La grande avventura della fede, di Fabrice Hadjadj

Tratto da Pontificium Consilium pro Laicis, La domanda di Dio oggi, LEV, Città del Vaticano, 2012, pp. 171-180.

Già era difficile dover affrontare la questione «Come parlare di Dio oggi?», figuriamoci dover parlare della mia conversione, è ancor più complicato! È estremamente complicato, si tratta di un mistero di intimità dove l’essenziale ci sfugge … Si tratta veramente di qualcosa che mi è caduto addosso, e che però mi ha dato una forza straordinaria, una fiducia straordinaria, perché se uno come me è diventato cristiano, allora può diventarlo anche l’uomo più lontano da Cristo. Grazie alla mia conversione, ho questa certezza: il peggior nemico può diventare amico.

Penso che nessuno avrebbe potuto essere più lontano di me dalla fede cristiana. Per diverse ragioni: innanzitutto sono di famiglia ebraica, quindi per noi il cristianesimo è un errore. Se mai un ebreo si converte, è il traditore assoluto! Dunque per me era impossibile.

Inoltre la mia famiglia era tendenzialmente marxista, cosicché il nostro modello di pensiero era il materialismo dialettico. La giustizia doveva essere realizzata dagli uomini e per gli uomini, e non da Dio o per Dio … perciò nella religione non potevo vedere altro che “l’oppio dei popoli”.

Oltretutto ero figlio della scuola repubblicana francese dove inculcano l’idea che il cristianesimo è un oscurantismo ed è molto raccomandabile liberarsene attraverso una pseudo-razionalità, una razionalità chiusa, secolarizzata, che finge di ignorare il mistero e confonde l’incomprensibile con l’inconoscibile.

La quarta ragione è che le mie letture mi avevano avvicinato, per una speciale affinità, a Nietzsche. E ancor oggi, proprio come resto ebreo, resto discepolo di Nietzsche! Ma è vero che ero profondamente segnato dal pensiero nietzschiano, quindi da un pensiero che afferma piuttosto l’anticristo, perché, come sosteneva Nietzsche stesso, il Cristo sembra un maestro di nichilismo.

Infine, ovviamente, ero un peccatore … vivevo in modo dissoluto. Mi piacevano troppo le ragazze, ne ho conosciute tante, e quindi, necessariamente, poiché vedevo la Chiesa dall’angolatura della sua morale sessuale, non la vedevo come una madre misericordiosa, ma come una matrigna pronta a condannarmi.

Avevo già cominciato a scrivere e i miei primi testi erano veramente anticristiani. Ero davvero molto lontano dalla fede. Certo è che la conversione è una grande grazia. Non lo dico con una foga speciale, quella che rischierebbe di farci scivolare verso il “fondamentalismo”, per l’appunto. Mi riferisco a questa mia certezza che chiunque ha la disposizione a ricevere Cristo, che in realtà nessuno sulla terra se ne è allontanato più di tanto.

Ed è forse questo che rende così audaci noi convertiti. Non facciamo che ripeterci: «Ma se è potuto succedere a me, miserabile, indegno, ingrato, allora può succedere a quello lì, che sembra il più polemico, il più ostile!». Quando nella mia conferenza dicevo che innanzitutto bisogna meravigliarsi della presenza di Dio nell’altro e che sappiamo che il cuore del nemico è nostro alleato, l’ho detto in base alla mia esperienza; è quello che è successo nella mia vita.

Ora, se devo fare un rapporto più circostanziato dei fatti che sono serviti per la mia conversione […] ecco: dei fatti ci sono stati, questo è certo, e questi fatti sono stati anche momenti di presa di coscienza.

Ma come preambolo vorrei fare tre precisazioni. La prima è che questi fatti sono stati decisivi psicologicamente. Giacché, malgrado tutto, non devono farmi dimenticare tutto ciò che li precede, vale a dire che Dio ci converte con l’intera creazione. Certamente ci può essere un avvenimento tale da farci prendere coscienza, ma, in ultima analisi, se credo in Dio non è solo per questi avvenimenti: è perché ho visto la bellezza degli esseri, perché ho visto la bellezza di un fiore, di un volto …, perché nel mio cuore c’è l’aspirazione alla gioia e questo è fondamentale! Dunque, tutta la creazione ha la funzione di convertirci e dietro gli eventi – che quasi definirei aneddotici – c’è questo evento primo, che è l’evento dell’esistere; tutto il resto è servito a prenderne coscienza. È importante ribadire questo.

La seconda precisazione, è che sarebbe sbagliato ritenere che io sia passato dal giudaismo al cristianesimo. Non sono mai stato un ebreo praticante e mi sentivo ebreo non in senso religioso, ma perché era l’identità della mia famiglia. Eravamo ebrei, ma ebrei assimilati, e spesso Marx era più importante di Mosè, o meglio Mosè era compreso alla maniera marxista, come il liberatore di un popolo. E poi, devo confessarlo, io mi proclamavo ebreo perché così era più facile presentarmi come membro di un popolo di vittime: è molto più facile presentarsi come vittima che come carnefice! Comunque, non si trattava di vero giudaismo, quindi io non sono affatto passato dal giudaismo al cristianesimo. È in Cristo che ho riscoperto la mia ebraicità. E sono molto più ebreo oggi di quanto lo fossi prima della mia conversione.

Ecco la terza precisazione, che io ribadisco sempre: la conversione non ha un termine. Potrei raccontarvi una bella storiella per lusingare il “club” a cui noi apparteniamo. Noi siamo il club dei cristiani, e io ne ero lontano. Poi mi sono convertito, e sono entrato nel club dei cristiani e perciò tutti si congratulano con me, tutti sono lusingati perché noi ci troviamo bene tra cristiani. Ma la Chiesa non è un club. E la mia conversione non è un punto d’arrivo. È un inizio. È il dono ricevuto, e se non lo faccio fruttificare finirò per trovarmi in una situazione peggiore di prima.

Lo so, si tratta di un’esigenza, di un compito, e io ho ancora molto bisogno di convertirmi. Adesso ho un’esigenza di santità, e non direi che mi pesa, ma che mi mette terribilmente in tensione in ogni aspetto della vita, e in un certo senso avrei preferito non averla mai conosciuta, quest’esigenza, a volte mi piacerebbe sbarazzarmene completamente. Ma non posso farci nulla che il Cristo sia la verità; mi farebbe comodo a volte che non lo fosse, ma non posso farci nulla.

Ecco, queste sono le premesse. Per me sono molto importanti, per evitare di farvi avere un’idea sbagliata di quello che è successo e di quello che rimane da fare.

Cos’è successo? Direi che due o tre cose hanno permesso la mia presa di coscienza, la mia metanoia, come si dice. Innanzitutto sono stato segnato dalla riflessione sul corpo, perché ero nietzschiano e perciò avevo l’ossessione di affermare la carne, il corpo. L’affermazione della carne e del corpo in una società sempre più tecnicista, che soprattutto ci trasmetteva l’idea che il corpo umano è troppo debole, troppo fragile, e che ormai bisognava creare un superuomo. Ora, io ero convinto che c’era del buono nella carne. Ero convinto che nell’uomo, nel fatto stesso della sua inadeguatezza, nella sua stessa angoscia, c’era qualcosa di buono. E quindi, a un certo momento, mi sono detto: l’uomo nella sua debolezza, l’uomo nel suo grido, ecco l’uomo vero. Non l’uomo della prestazione, non l’uomo dell’efficienza. Nella mia riflessione sull’uomo tecnocratico, sono giunto alla conclusione che questo superuomo che si vuol fabbricare non è l’uomo vero, è un essere subumano! Ciò che rende grande l’uomo, infatti, non si trova nelle prestazioni materiali, ma si incontra inaspettatamente nella lacerazione dal basso in alto che lo fa rivolgere all’origine delle cose, che lo fa interrogare sull’origine delle cose.

Questa scoperta non poteva che dispormi a incontrare il mistero della croce, vale a dire il mistero del Verbo fatto carne. Abbiamo davanti agli occhi un corpo crocifisso, un corpo flagellato, e ci vien detto: «Ecco l’uomo!» Questo, in seno alla mia riflessione, fu veramente decisivo. Nel mondo della prestazione, scoprivo che ciò che costituisce l’umano non è la prestazione orizzontale, ma una presenza verticale e lacerante.

Un secondo elemento è dato dal fatto che io scrivevo. In realtà non sono un filosofo; per essere esatti sono innanzitutto uno scrittore, ho cominciato a scrivere prima di mettermi a insegnare filosofia, e mi sono messo a insegnare filosofia per essere sicuro di sbarcare il lunario e poter scrivere senza dovermi preoccupare troppo. Ora, avevo alcuni amici scrittori che facevano largo uso della Sacra Scrittura per pervertirla, per prendersene gioco. In particolare avevo un amico che aveva scritto un libro in cui aveva collocato, sopra ogni aforisma, un versetto della Bibbia, in antitesi, per fare dell’humour,dell’ironia, come se mettessi “Lasciate che i bambini vengano a me” sopra la storia di un orco pedofilo.

Allora mi son detto: non è male questa trovata, farò la stessa cosa, mi prenderò gioco della Sacra Scrittura. Uno scrittore, chiunque sia, deve per forza avere un rapporto con la Sacra Scrittura proprio perché è la Scrittura lo zoccolo duro della nostra cultura; arriva sempre il momento in cui bisognerà confrontarsi con essa.

Il fatto è che per confrontarsi con essa, per ridicolizzarla, per pervertirla, bisogna leggerla. Ed è quello che è successo: ho dovuto leggerla, qualcosa che non mi era mai capitato davvero. E ho cominciato leggendo i grandi profeti, Isaia in particolare. E sono rimasto sbalordito: «Ma è fortissimo! In fondo Isaia è come Nietzsche, ma in meglio!» Ero stupefatto a un tempo dalla violenza con cui denunciava l’ipocrisia dei “credenti”, ma anche dalla sua poesia, dalla sua forza come scrittore.

Dunque, avrei voluto io pervertire la Scrittura ma, in un certo senso, è la Scrittura che ha pervertito me. Non me l’aspettavo assolutamente, neanche mi sfiorava l’idea che questo potesse succedere!

Poi, ci sono altri due fatti, altri due eventi, non tanto eventi di ordine intellettuale (attenzione, gli eventi di ordine intellettuale sono molto importanti per un pensatore!), ma eventi di vita, incontri.

Il primo evento, è quando sono andato al processo di Paul Touvier, perché i miei genitori avevano un amico avvocato ebreo che aveva ricevuto l’incarico di avvocato di parte civile. Paul Touvier era un funzionario francese accusato di aver collaborato alla deportazione degli ebrei, e quindi sono andato al processo con altri intellettuali francesi più anziani di me: c’era in particolare Alain Finkielkraut. Certo, quest’uomo, Paul Touvier, aveva commesso crimini atroci, ma quando sono tornato ho pensato dentro di me: io sono ebreo e per tutta la vita potrei rivendere il fatto di essere ebreo dicendo: ecco, sono dalla parte delle vittime! E il carnefice è l’altro. E mi son detto: Non è vero! Cosa avrei potuto essere all’epoca? Sarei stato senza dubbio come Paul Touvier, forse peggio; non sarei stato un nazista per il solo fatto che sono ebreo, perché mi avrebbero deportato prima, per questo non avrei avuto la possibilità di essere nazista.

E tutto d’un tratto dentro di me ho concluso: nessuno è pura vittima, nessuno è puro carnefice, anch’io sono colpevole. Mi sono sentito profondamente colpevole. Sapevo che dimoravano in me potenzialità negative, che avrebbero potuto rendermi carnefice e non solo vittima. E a quel punto mi sono domandato: ma allora chi è l’innocente che salverà il mondo? C’è bisogno di un innocente, c’è bisogno di un innocente puro che salvi il mondo. E non si trattava semplicemente di un’idea, era in me un’esigenza del cuore. In ogni caso, da quel momento ho smesso di sentirmi puro, o meglio ho smesso di carezzare la mia impurità, e ho smesso di considerarmi il supremo giudice!

Il secondo evento esistenziale ha un aspetto piuttosto paradossale, ironico: è quando ho pregato per mio padre malato. Dico ironico, perché mio padre è guarito da quella malattia, ma il fatto che io mi sia convertito è diventata forse la sua malattia più grave … perciò, vedete, è piuttosto imbarazzante! Mia madre un giorno mi chiama e mi dice che mio padre è malato e teme che possa morire. Ha chiamato l’ambulanza per portarlo all’ospedale e io devo raggiungerli. Ora, la prima cosa che mi viene in mente in quel momento è di entrare in una chiesa! Certo, ero predisposto dalle mie letture e così via … ma al contempo ero molto riluttante, per me era una eventualità per niente concreta, era nella mia testa piuttosto che nell’anima.

Comunque sono andato in una chiesa, la chiesa di Saint-Séverin a Parigi, una chiesa che si trova nel quartiere latino, vicino alla Sorbona. Era proprio la chiesa in cui ero entrato la settimana prima. Una settimana prima ero entrato in quella stessa chiesa con uno dei miei amici, un nietzschiano come me, e quest’amico di cognome fa Dieu, cioè Dio. Si chiama Frédéric Dieu. Dunque ero entrato con questo “Dio” nietzschiano in questa chiesa e siamo arrivati davanti a una statua di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, abbiamo letto gli ex-voto che stavano intorno, e quindi, da nietzschiani, da volterriani che eravamo, ce ne siamo fatti beffe: “Ringraziamento per il felice esito degli esami”, “Grazie per una causa felicemente risolta”, “Un baccelliere pieno di gratitudine”, “In segno di riconoscenza per una guarigione” …

Avevamo commentato: chiedere a Dio cose come queste, è veramente ridicolo. Se si deve pregare Dio, non è certo per chiedere qualcosa. Avevamo quest’idea. Ora, che è successo quando mi sono trovato di fronte al fatto che mio padre era malato? … Ero disarmato … non potevo far nulla! Allora sono andato davanti a quella statua di cui mi ero preso gioco e mi sono messo nell’atteggiamento delle persone che avevo disprezzato. E c’è stato un momento di preghiera.

Quel che è accaduto non è stato ricevere una grande luce, ma qualcosa come il mormorio del silenzio sottile del monte Oreb (cfr. 1 Re 19,12). Ho avuto l’impressione, forse per la prima volta in vita mia, pregando, pregando la Vergine Maria, di trovarmi al mio posto … È la lacerazione verticale di cui parlavo: essere uomo è volgere lo sguardo al mistero dell’esistenza e aprirsi al suo richiamo. Questa certezza non mi ha mai più lasciato. Ciò non significa che mi trovi sempre al mio posto, non vuol dire che io preghi molto, ahimè! Mi piacerebbe tanto essere un vero uomo di preghiera, ma non lo sono.

Uno scrittore riflette sempre sul mistero della Parola, e quando poco fa ho detto: ogni parola in fondo è legata al fatto di rivolgersi a Dio, al mistero di Dio, è davvero ciò che ho sperimentato in quel momento. Cosa significa parlare veramente? Parlare nella verità? Il mistero dell’uomo è proprio il mistero di una parola che ritorna alla sorgente, che l’interroga e che può anche domandarle: “perché?”. Curiosamente, nel momento stesso in cui ho chiesto a Dio la guarigione di mio padre, mi è stato dato anche ciò che non avevo chiesto: la pace di ritrovarmi al mio posto.

Ecco, all’inizio, tutto ciò era rimasto in ambito affettivo e intellettuale, poi c’è stato l’evento del mio Battesimo; è qualcosa che gli altri, se hanno ricevuto il Battesimo da bambini, non sempre riescono a capire. Per me, il Battesimo è stato come dice il Salmo: «È rifiorita la mia carne» (Sal 27,7, LXX), perché è successo qualcosa di fisico. Nel periodo in cui già mi professavo cristiano, mi interessavo ancora a una letteratura molto impura, cercavo il piacere in musiche rumorose, più che musicali, continuavo a vivere o meglio a dibattermi in un’impurità sessuale molto grande. Ora, a partire dal momento del mio Battesimo, ho ricevuto un dono di castità, di continenza … fino al matrimonio, e la mia sensibilità è cambiata, qualcosa è successo nella mia carne.

Adesso, tutto quello che ho detto è comunque molto parziale, perché l’essenziale non può essere visto. Ma vorrei aggiungere un’altra cosa: cioè che la grazia battesimale, per me, si è dispiegata nella grazia coniugale. Capita spesso, siccome sono un convertito, che mi si interroghi sul mio Battesimo senza chiedermi nulla sul mio matrimonio, che tuttavia è il luogo dove il mio Battesimo si dispiega. Devo al matrimonio, devo a mia moglie e ai miei figli se sono uscito da un cristianesimo cerebrale e se ho ritrovato veramente la concretezza, se ho ritrovato la carne. Se ho ritrovato per esempio l’esigenza della politica, dell’impegno.

Quando si hanno dei figli, si capisce immediatamente cos’è la vera responsabilità; e Cristo non può più essere un mero affare privato, perché sono in gioco delle esigenze fondamentali: in che mondo lascerò i miei figli? E inoltre si è realizzato un nuovo sviluppo della mia vita affettiva, dato che, grazie a mia moglie e ai miei figli, si sono liberate in noi sorgenti d’amore inimmaginabili, completamente inattese. Ogni nuovo nato libera in me un amore di cui non immaginavo di essere capace.

All’inizio della mia conversione, la mia fede era una fede molto centrata su Cristo crocifisso e sulla sofferenza di Cristo. Oggi la mia fede è diventata una fede veramente centrata su Cristo risorto. Devo ai miei figli questa apertura alla gioia, un’apertura molto più profonda, molto più radicale alla gioia. Il Battesimo mi ha dato la speranza per potermi sposare, per poter donare la vita, ma dopo, è il matrimonio e quindi mia moglie e i miei figli che sono diventati per me veramente presenza di Dio.

Quando ho portato mia figlia, la mia primogenita ancora molto piccola, al mio padre spirituale – il mio padre spirituale è un monaco benedettino, io stesso sono oblato dell’abbazia di Solesmes, sono stato battezzato a Solesmes e con mia moglie abbiamo anche celebrato il matrimonio a Solesmes – quando gli ho portato mia figlia, dunque, mi ha detto: “Tu ora hai tra le braccia il tuo direttore spirituale!”. Era una frase curiosa, perché un bambino è l’imperfezione stessa; allo stesso tempo però questa è la parola del Cristo: se non diventerete come questo bambino … (cfr. Mt 18,3). Dover vivere con i bambini, quando si è padri di famiglia, è una grande grazia spirituale. Una grazia d’abbandono e una grazia di gioia.

A questo punto, per concludere, vorrei fare una considerazione. Si sente dire sovente, riguardo a coloro che come me aderiscono alla Chiesa da adulti, coloro appunto che possono raccontare come sono arrivati al Battesimo, che la loro esperienza è particolarmente significativa, perché avrebbe una garanzia di maggiore autenticità rispetto all’esperienza di chi è “nato cristiano”, di chi è stato battezzato da bambino.

Devo confessarvi che mi mette un po’ in imbarazzo l’apologia dei convertiti rispetto ai cristiani di nascita. Allora che dovrei fare con i miei figli? Non dovrei trasmettergli la fede perché diventino dei convertiti? Dovrei far in modo che i miei figli conoscano il male peggiore, che al limite diventino atei, prostitute, drogati e quant’altro perché dopo possano dire: “Io ero nella notte … ho visto una luce … sono uscito dal tunnel…”? No, è meraviglioso essere cristiani dalla nascita, una meraviglia ancor più grande, ne sono convinto. Sono profondamente impressionato dalle parole di santa Teresa di Lisieux, quando si domanda quale sia il padre più premuroso. È il padre che si prende cura del figlio che è caduto? Oppure il padre che ha visto l’ostacolo sul cammino del figlio e l’ha rimosso in modo che il figlio non cada, il padre che, in qualche modo, l’ha accompagnato sin dalla nascita?

Indubbiamente per chi è cristiano dalla nascita il vero problema è la banalizzazione, l’eccessiva familiarità con il mistero, che così ai nostri occhi finisce per snaturarsi. Ma quando ci rendiamo conto che questa familiarità, nella sua essenza, è un dono straordinario e che non ha niente di banale, penso che allora giungiamo alla consapevolezza più meravigliosa. Il figlio maggiore che accoglie il figliol prodigo senza lamentarsi è la cosa più bella che esista. D’altra parte, possiamo dire che i cristiani dalla nascita sono anch’essi tutti dei convertiti, perché si può parlare di una “seconda conversione”. Il fatto è che la trasmissione, la tradizione, è sempre la cosa più importante, perché è all’interno di questa tradizione che si realizza la novità della vita cristiana. Non può esserci conversione senza tradizione.

Infine, anche quando si è cristiani dalla nascita, non si può far altro che cominciare, entrare nella grande avventura della fede. La posta vera è comprendere che si tratta di una grande avventura e non certo di una sorta di acquisizione banale, così comune da farci impunemente sprofondare nell’ingratitudine e nell’oblio.

Note al testo

[1] A. Koestler, Janus: A Summing Up, New York 1978, Prologue.
[2] Cfr. Paolo VI, Allocuzione conclusiva del Concilio Vaticano II, in: “Insegnamenti” VI, III (1965), 731.
[3] E. Peterson – D. Rance, Témoin de la vérité, Paris 2007, 84.
[4] Cfr, Tertulliano, Apologeticum, 50, 13.

Contributo segnalato sul sito “Gli Scritti”

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