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11 suggerimenti per essere dei bravi oratori nella vostra parrocchia

YOUTH MEETING WITH PEDRO OPEKA

LUČKA OBLAK

Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 03/11/18

Attenzione a come vestite, al modo in cui scandite il discorso e ai "segnali" che vi lancia il pubblico. Che sia una omelia o una conferenza, evitate errori grossolani!

Una serie di utili suggerimenti per essere buoni oratori in parrocchia. Che siate un sacerdote o un laico, l’importante è evitare errori banali e stimolare alcuni metodi anti-noia.

InPoche chiacchiere! (Collana I PRATICI ELLEDICI)”Giorgio Agagliati ci dispensa questi consigli. La premessa è incoraggiante: non è necessario frequentare corsi di dizione per tenere una conferenza o un’omelia. Il criterio-guida è il realismo: «Non siamo e non diventeremo attori, siamo operatori della pastorale che puntano all’efficacia della propria comunicazione sapendo che non è un accessorio, ma parte integrante del nostro servizio».

1) Il look

BUSINESS WOMAN
Shutterstock

Il modo di presentarsi di fronte a un pubblico dice molto di noi, e lo dice a prescindere dalle nostre intenzioni. Siamo liberi di scegliere il look che più sentiamo adeguato, ma ricordando che in qualche modo influenzerà la pre- disposizione dell’uditorio prima ancora che apriamo bocca.

Capelli: come voglio, ma puliti e ordinati. Se un uomo porta la barba, che non sia incolta.

Abbigliamento: ci sono canoni non scritti che consigliano di orientarsi o verso un modo di vestire coerente con la situazione e l’ambiente sociale che incontreremo, o di essere decisamente alternativi ad esso.

Chi porta un abito religioso e chi sale all’altare, quindi indossa le vesti liturgiche, non ha il problema della scelta dei capi da indossare, ma deve badare che tutto sia a posto: il diavolo si annida nei dettagli, non è un caso e non è per vanità se nelle sacrestie c’è quasi sempre uno specchio a grandezza naturale.




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2) La voce

OFFICE
Monkey business images - Shutterstock

La voce non si può cambiare, ma si può usare al meglio delle sue caratteristiche. Per farlo bisogna conoscere bene la propria voce, e questa conoscenza non si può basare sul fatto che mentre parliamo ci sentiamo, perché la nostra voce ci arriva «dall’interno» e la percezione è diversa da quella che ne hanno gli altri. Meglio registrarsi e riascoltarsi: pur tenendo conto delle sia pur piccole variazioni di timbro e frequenza che uno strumento introduce, il feed-back sonoro sarà molto più vicino a ciò che ricevono i nostri ascoltatori.

Se abbiamo una voce grave non tentiamo gli acuti, se è una voce di testa non proviamo a fare i bassi profondi.

La maggior parte di noi ha una cadenza regionale più o meno accentuata. La si può almeno in parte controllare, e nei limiti del possibile è bene farlo quando siamo in un ambiente fonetico diverso dal nostro, ma non ce ne dobbiamo preoccupare particolarmente.

3) I gesti

La gestualità è importantissima, è un vero e proprio linguaggio parallelo al parlato e c’è tra i due una reciproca influenza. La gestualità non può quindi contraddire la locuzione né essere forzata rispetto alla nostra indole. È impossibile proporre un efficace crescendo di voce mantenendo le braccia quasi immobili, ma non è necessario arrivare ai “mulini a vento”.


MEETING ROOM

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4) La data

Il periodo, il giorno della settimana, l’orario sono tutti fattori condizionanti. Altrettanto importante è se parleremo nel tardo pomeriggio o di sera: chi viene a una conferenza tardo pomeridiana si aspetta di andare via in tempo per la cena, chi ci viene di sera ha preso la decisione di trascorrere la serata così, e difficilmente sarà impaziente, ma a un certo punto avrà voglia di andare a dormire.

5) L’ambiente

Dove si parlerà ha a che fare con gli aspetti ambientali: dimensioni e caratteristiche della sala, amplificazione, illuminazione e temperatura, dislocazione del pubblico e posizione del relatore.

6) Il pubblico

UN meeting on Preserving Diversity in the Nineveh Plain
Courtesy of the Holy See Mission to the United Nations

E’ sempre utile domandare quale potrebbe essere il mix dei partecipanti, se non è già implicito nel tipo di evento. Età, sesso, tipologia sociale, coinvolgimento o meno nella comunità ci dicono già qualcosa sui registri che potrebbero essere più adeguati. È poi molto diverso essere uno dei relatori in una serie di incontri, in un unico convegno o tavola rotonda, o essere relatore unico in un evento isolato: lo è per il tempo che avremo a disposizione e perché il pubblico dividerà le sue attenzioni tra i vari relatori o le concentrerà su di noi, farà confronti in presenza oppure no.

Naturalmente sapremo già tutte queste cose se l’intervento si terrà nella nostra comunità o se consiste nell’omelia della celebrazione festiva d’orario della nostra parrocchia.




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7) La multimedialità

SPOTKANIE FIRMOWE
Headway/Unsplash | CC0

L’uso di tecnologie di supporto durante un intervento di fronte a un pubblico. Prima di tutto, usiamole solo quando servono davvero, e non perché «è carino» o trendy. In secondo luogo, nessuna improvvisazione:

se è previsto il collegamento del pc a un video- proiettore o, situazione ancora più rischiosa, la proiezione su grande schermo di un collegamento Internet, dobbiamo provarli prima ed essere certi che funzionino perfettamente.

Usare tecnologia solo se l’ambiente garantisce una fruizione adeguata da parte del pubblico, in termini di luce, audio, schermo, disposizione delle persone in sala.

Fare ricorso alle slide non deve mai significare dipendere dalle slide, salvo in caso di relazioni tecnico-scientifiche o finanziarie.




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8) Le citazioni

Solo in casi particolari un dato molto importante o una citazione d’autore possono essere lo spunto originario di un discorso. Ma è tutt’altro che raro che siano utili o addirittura necessari nel corso dell’esposizione, perché in genere servono a corroborare una tesi, non a fondarla.

Va da sé che devono essere attendibili, da fonte certificata e mai indiretta, sempre controllati prima dell’uso, senza affidarsi alla memoria.

9) L’intervento

SYNOD2018
Antoine Mekary | ALETEIA

C’è un solo caso in cui senza eccezioni bisogna leggere un testo scritto, ed è quando si tiene un intervento ufficiale, in proprio o in rappresentanza d’altri, comunque con una qualche valenza «istituzionale»: per restare nel nostro ambito, ad esempio la relazione di fine anno di un ente ecclesiastico.

In tutti gli altri casi molto dipende dall’oratore, dalla sua disinvoltura nell’andare a braccio, dalla difficoltà della materia e da diverse altre variabili. Una cosa, però, la sappiamo per certa: la lettura di un intervento scritto è nettamente perdente in efficacia.

E’ molto utile annotarsi la scaletta dei passaggi essenziali, delle transizioni concettuali e delle parole o frasi chiave da proporre.

Queste ultime sono molto importanti, perché rappresentano il distillato del nostro pensiero e, ripetute alla fine dell’intervento, saranno il nocciolo duro di ciò che gli ascoltatori porteranno con sé.




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10) La durata

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JAN JANS

Un pubblico in ascolto raggiunge il picco massimo dell’attenzione dopo i primi 5 minuti. Qui siamo all’apice. Ma quanto dura questo stato di grazia? Più o meno 10 minuti. Quindi, dopo un quarto d’ora dall’inizio dell’ascolto comincia la discesa dell’attenzione, che dopo mezzora si è ridotta ormai dell’80%. Gli esperti dicono che a questo punto il pubblico è «smarrito».

Naturalmente la curva dell’attenzione può avere anche un andamento più «mosso», in rapporto ad alcune variabili. La prima e più importante è la presenza di cambiamenti: di tono di voce, di argomento, di posizione del parlatore rispetto al pubblico, di maggiore o minore frequenza (o assenza totale) di stimoli all’interattività.

La durata dell’intervento va ovviamente concordata con chi ci invita a parlare. Ma rifuggiamo da suoi eventuali eccessi di generosità e auto-limitiamoci, tanto più se dopo vogliamo anche dialogare col pubblico.

Un’indicazione di massima, non tassativa, potrebbe essere la seguente: omelia, 15 minuti; commento alla Parola in una Lectio divina, 30 minuti (al netto della lettura del brano); relazione o conferenza: da 45 a 90 minuti (in questo caso c’è anche un minimo, perché una conferenza troppo corta delude).




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11) Il feedback con il pubblico

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By Jacob Lund | Shutterstock

Cogliere e saper gestire i segnali del pubblico, dare al pubblico i giusti segnali: è il mutuo feedback tra oratore e ascoltatori, dimensione fondamentale del parlare in pubblico.

Il primo a mandare segnali è proprio l’oratore. Lo fa soprattutto con lo sguardo. È altamente consigliabile far scorrere lo sguardo con calma su tutto il pubblico: con calma, perché uno spostamento rapido e a scatti dello sguardo denota paura o quanto meno insicurezza.

Dal canto suo il pubblico ha molti modi verbali e soprattutto non verbali per mandare segnali a chi parla. Vanno colti con attenzione e prontezza, senza però mai farsi prendere dal panico se sono negativi (sbadigli, ad esempio), né lusingarsi troppo se sono positivi.

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