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Due giovani preti suicidi in Francia: possiamo azzardare una spiegazione?

SUICIDE OF JUDAS

Jim Forest CC BY-NC-ND 2.0

Jean Duchesne - pubblicato il 31/10/18

Ancora un giovane prete che mette fine ai suoi giorni dopo essere stato accusato di “gesti inappropriati”. C’è ragione di essere scossi. Ma non di disperare.

Anzitutto bisogna astenersi dal giudicare. È forte la tentazione di presumere che un suicidio equivalga a un’ammissione di colpevolezza. E questo sarebbe bruciare le tappe. Al momento non ci sono fatti acclarati e il sospetto può bastare a uccidere: quel sospetto che demolisce l’uomo o la donna che non sopportano di ispirare il dubbio, ma anche quello che si porta su sé stessi se si flirta con la tentazione. Nessuno può dire per una persona che non ha più voluto vivere quale disperazione l’abbia spinta a commettere un atto tanto irreparabile. È difficile immaginare qualcosa di più terribile.

Contagio

Una seconda osservazione da fare è che vale qui quella che si potrebbe chiamare “legge seriale mimetica”. Capita che una violenza mediatizzata, soprattutto se suicida, scateni emulazioni – senza che fra loro o fra gli eventi che danno l’idea sussista nesso diretto. In Francia lo si è visto nel 2016: un poliziotto e la sua compagna assassinati a Magnanville il 13 giugno, il camion lanciato sulla folla a Nizza il 14 luglio, l’omicidio di padre Hamel a Saint-Étienne du Rouvray il 26 luglio. E così, su scala americana, gli Stati Uniti hanno conosciuto 18 sparatorie nelle scuole in 43 giorni all’inizio del 2018 (tra il 2 gennaio e il 14 febbraio). I precedenti rendono realizzabili, negli animi tormentati dall’odio degli altri e/o di sé, ciò la cui prospettiva ripugna gli spiriti sani (o pressappoco tali).




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Bisogna poi rilevare che, nel clima attuale, in virtù di un fenomeno un poco analogo (anche se è meno marginale e senza dubbio giustificato) di apertura del campo del possibile a seguito di un esempio, le denunce di abusi sessuali si moltiplicano. È il movimento #MeToo (o #BalanceTonPorc [in Francia]), che si sviluppa fino in Africa, in Medio Oriente, in India, in Corea e in Giappone. Gli “affaires” di preti infedeli alla loro promessa di celibato scoppiano in un contesto generale in cui si ritrovano lungi dall’essere isolati, ove le rivolte delle vittime ne suscitano altre e dove ciascuno deve badare a evitare di prestare il fianco al minimo sospetto. Se lo scandalo sembra più grande nella Chiesa che altrove, è senza dubbio perché è lì che l’incompatibilità è più flagrante tra la missione e certi comportamenti.

Il vero problema della sessualità

A rigor di logica non c’è modo di concludere che il clero tutto in blocco sia ipocrita e corrotto, né che non resti che da abolire il celibato sacerdotale. Bisogna invece confessare che l’anticlericalismo è una cristianofobia che non osa dire il suo nome, quando pretende che la continenza sia impossibile. Era già il parare di uno dei meno raccomandabili fra gli imperatori romani, il quale diede lustro alla propria popolarità facendo assassinare cristiani con una crudeltà spettacolare, come riporta Tacito negli Annales (XV, 44). Un altro storico latino, Svetonio, lo conferma nella sua Vita di Nerone (XVI, 3), e aggiunge (XXIX, 2):

Era assolutamente persuaso che nessun essere umano fosse casto o pur in alcuna parte del suo corpo, ma che per la maggior parte dissimulino i loro vizi e che della dissimulazione abbiano fatto un’arte.

Il vero problema non è che la sessualità sarebbe ancora troppo inibita, in particolare nella Chiesa. Il problema sta nelle questioni che la libertà rivendicata e i limiti del suo esercizio ancora riconosciuti pongono all’umanità, almeno occidentale. Ora, è raro che il desiderio sia istantaneamente reciproco. La distanza si compensa tradizionalmente sia mediante la seduzione (sincera o no), sia mediante abusi di autorità (sociale o mercenaria, nel caso della prostituzione), e ormai (nella “modernità”) per via di conformismo, per non avere l’aria “arretrata”.


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Ma questo significa fare mercato del rispetto (per non parlare dell’amore) per l’altro, il quale non è mera carne manipolatile, e in seconda battuta significa fare mercato di sé stessi. Perché significa rassegnarsi alla precarietà del godimento egoistico e immediato finché l’età ce ne procura i mezzi, salvo avere l’ambizione di praticare il mutuo dono di sé fin nella durata, con quanto ciò richiede da una parte e dall’altra in termini di altruismo, armonia e complementarità tra il corpo e il cuore.

Senza padronanza di sé, non c’è libertà del sé e dell’altro

Il cristianesimo non ha mai insegnato un disprezzo dell’attività sessuale che permetterebbe prima di fingere che sia facile astenersene, poi di camuffarla cinicamente all’imporsi delle pulsioni – non bestiali ma tristemente umane (poiché gli animali dissociano meno facilmente le copule dalla riproduzione). La fede ispira al contrario che tutto ciò sia abbastanza nobile e bello da non essere riducibile a meccanismi biologici che finiscono per schiavizzare il predatore tanto sicuramente quanto di certo disumanizzano la vittima.


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La padronanza che suppone la libertà – non in rapporto alla sessualità ma nell’irrecusabile identità che essa conferisce – trova di che esercitarsi in egual misura nel matrimonio e nel celibato consacrato. A tal riguardo (e per tornare al punto di partenza), s’indovina l’importanza che ha l’apprendere il controllo di sé non meno in seminario o in noviziato che durante il tempo del fidanzamento (parola non più alla moda), dove si scopre – e questo sarà verificato per tutta la vita – che bisogna assolutamente restare liberi, vale a dire padroni di sé, a fronte dei propri desideri come riguardo all’unione fusionale con l’altro.

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La via d’uscita dalla crisi attuale non si troverà unicamente grazie a misure preventive, espiatorie o terapeutiche. Essa richiede che il discernimento della vocazione del candidato al sacerdozio, e delle sue capacità a corrispondervi, sia tanto esigente quanto dovrebbe essere l’elezione reciproca degli sposi prima che i due si rivolgano a Dio perché Egli benedica la loro alleanza. Essa suppone anche che il dono di sé tra marito e moglie sia per il prete il sostegno di un modello e un segno che «niente – neppure la fedeltà totale – è impossibile a Dio» (Lc 1, 37 e soprattutto 18, 27). Ricordandosi comunque che è meglio non tentarlo (Mt 4, 7), cioè costringerlo a fare un miracolo per sfuggire a un rischio che un po’ di padronanza di sé avrebbe permesso di non correre.


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I padri di famiglia sono «i grandi avventurieri del mondo moderno», scrive Péguy. Le madri di famiglia pure. E i preti non avevano atteso la “modernità” per vivere avventurosamente. «Beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11, 6; 13, 5; 26, 31), ha detto Gesù che non avrebbe perso se non un apostolo su dodici – per quanto gli altri undici (a cominciare dal primo) siano stati ben lungi dall’essere sempre esemplari.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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