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Ecco l’Homo Comfort: una società febbrile di uomini pigri e senza dolore

YOUNG OBESE MAN
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PEPEONLINE - pubblicato il 26/10/18
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Frish e Chesterton hanno messo in guardia dall’utopia della “società senza dolore”, che si sta materializzando sotto i nostri occhi: la tecnica rischia di diventare l’anestesia contro ogni difficoltà e così ci riduce a esseri passivi, incapaci di agire – e quindi soffrire – per uno scopo.

di Emiliano Fumaneri

Walter Faber, il protagonista eponimo di Homo Faber (1957), uno dei romanzi più celebri dello scrittore svizzero-tedesco Max Frisch, è un affermato ingegnere meccanico.

La sua visione del mondo è integralmente improntata a una matrice tecnicistica. L’aleatorio, per il razionalismo estremo di Faber, è al più uno spiacevole incidente di percorso. «Non credo nel destino o alla Provvidenza», afferma il protagonista. «Sono un tecnico e perciò abituato a calcolare le probabilità». Quando sopravviene l’improbabile per Faber «non accade niente di soprannaturale, nessun mistero o cosa simile». Nei fatti che accadono egli non scorge altro che percentuali probabilistiche, la qual cosa lo spinge a concludere che «per accettare l’improbabile come fatto d’esperienza non ho bisogno della mistica, mi basta la matematica». Tutto è sotto controllo, pertanto non c’è «nessun motivo di meraviglia, di commozione, di mistificazione».

Ma lo sguardo asettico dell’ingegnere è destinato a sgretolarsi progressivamente nel corso della narrazione. Una serie di eventi tanto luttuosi quanto imprevisti (l’amore incestuoso con la figlia che credeva essere stata abortita, la tragica morte di lei, il cancro che lo colpisce) fa vacillare il suo roccioso pragmatismo.

Walter Faber è un personaggio emblematico di quella che Claudio Risé ha denominato la «civiltà dell’anestesia», quella società che tende a impedire ogni contatto col senso del dolore per mezzo di una schermatura tecnologica sempre più fitta e perfezionata. Uno scopo lodevole, se non fosse che una civiltà dell’anestesia perenne ha effetti lenitivi, quasi mai curativi, e rende in realtà più indifesi di fronte al male. L’utopia di un mondo senza dolore intorbidisce le capacità di reagire del corpo, col rischio di una scissione tra esseri umani, e tra esseri umani e ambiente.


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Secondo l’antropologo Stefano Boni la comoda tecnologizzazione della vita ha addirittura prodotto una forma inedita di umanità: l’homo comfort. Boni definisce così «l’umanità caratterizzata dalla schermatura compiuta e pervasiva dell’organico, consentita dall’attivazione ipertecnologica». (S. Boni, Homo comfort, Elèuthera, Milano 2014, p. 33)

Sempre più una tecnologia dilagante, onnipresente, tende a realizzare la possibilità di soggiogare la natura moltiplicando i dispositivi che generano comfort separando il corpo umano dall’organicità del mondo. Così aumenta l’incarico delegato alla macchina e contemporaneamente l’esonero del coinvolgimento umano. L’efficienza di molte funzioni vitali però dipende dalla loro applicazione e l’eccessiva addomesticazione tecnologica può indurre a esiti malsani.

Gli esempi potrebbero essere numerosi. L’ascensore, trasportandoci ai piani superiori di un edificio, riduce la fatica e lo sforzo. Così facendo, però, l’ascensore esonera nella misura stessa in cui agevola.

Immaginiamo ora un mondo nel quale gli uomini dovessero servirsi unicamente dell’ascensore, senza più salire le scale con le proprie gambe. Immaginiamo anche che dopo un secolo di questa pratica un giorno l’ascensore si guastasse, lasciando tutti all’improvviso nella spiacevole condizione di dover necessariamente salire le scale a piedi. Saremmo tornati forse nella stessa situazione di cento anni fa? Le cose non sono così semplici. Non è difficile immaginare che il corpo umano non sarebbe pronto, sia fisicamente che psicologicamente, ad affrontare un tale imprevisto, o almeno non come i suoi antenati di cento anni prima.

È il paradosso della tecnologia evidenziato dalla vulcanica mente di Chesterton. La tumultuosità di una società ipertecnologica non è necessariamente indice di dinamismo. A ben vedere, è giusto il contrario. Cosa indica il rumore onnipresente delle nostre strade se non che la caratteristica principale della nostra epoca è la profonda pigrizia e la stanchezza? Faremmo certamente meno rumore se camminassimo coi nostri piedi, facendo a meno dei taxi e delle automobili. Il trambusto dei veicolo è il segno del riposo umano.



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La quantità di rumore delle nostre città sarebbe minore se ci fosse più attività umana. Ci sarebbe più silenzio – e meno inquinamento – se il mondo umano fosse più dinamico. La civiltà dell’anestesia invita l’uomo a costituire se stesso come un soggetto al tempo stesso potenziato (enhanced) e protetto (safe) da ogni genere di pericolo.

Ma una simile cessione di sovranità, con la delega alla tecnologia dell’esercizio delle facoltà naturali, rende l’uomo un essere meno capace di affrontare le difficoltà. È proprio la combinazione della massima potenza e di una integrale protezione a sguarnirlo – come Walter Faber – di fronte all’imprevisto.

Pathei mathos, dicevano gli Antichi con Eschilo. La conoscenza matura attraverso la sofferenza. L’anima umana non deve forse la sua profondità, la sua grandezza e la sua forza proprio alla propria capacità di soggiornare presso il negativo? Anche Nietzsche non era ignaro dei frutti che possono maturare attraverso «quel tendersi dell’anima nella sventura, per cui si educa la sua forza».

Ogni nascita, anche nell’ordine dello spirito, transita per il dolore (anche se, va detto, in un’anima autenticamente cristiana la sofferenza va asservita all’amore, l’esperienza della santa di Lisieux insegna). Volendo privare l’uomo dell’esperienza del rischio e del negativo lo si sgrava anche da tutto quanto assolve una funzione corroborante e contribuisce a temprare la natura umana.

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