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Manca ancora molto per vincere la guerra contro la fame

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Paul De Maeyer - pubblicato il 26/10/18

Presentata l’edizione 2018 dell’Indice globale della fame

Nella lotta contro la fame e la denutrizione sono stati raggiunti nel periodo che va dal 2000 ad oggi traguardi ragguardevoli, ma conflitti e conseguenze dei cambiamenti climatici rischiano di azzerare questi progressi, come sta già succedendo in alcuni Paesi del mondo.

Questo è in sintesi il messaggio lanciato dall’Indice globale della fame 2018 (o GHI, dall’inglese Global Hunger Index), presentato giovedì 11 ottobre a Berlino dalla ONG Welthungerhilfe – attiva in tre continenti e in 38 Paesi del pianeta, tra i quali la Corea del Nord –e anche a Milano dal Cesvi (acronimo di Cooperazione e Sviluppo).

Situazione generale

Dal nuovo rapporto, giunto alla sua tredicesima edizione e realizzato dalla ONG tedesca in collaborazione con l’agenzia umanitaria irlandese Concern Worldwide, emerge che a livello mondiale il GHI è sceso da 29,2 nel 2000 a 20,9 oggi, cioè un decremento del 28%.

A permettere il miglioramento è stato il calo registrato in ciascuno dei quattro indicatori chiave usati per calcolare l’indice, che è un valore statistico che va da 0 (fame zero) a 100 (valori massimi su tutta la linea), cioè denutrizione, malnutrizione acuta o deperimento (wasting in inglese), malnutrizione cronica (stunting) e mortalità infantile.

Nei Paesi inclusi nel rapporto, la proporzione della popolazione che risulta denutrita è scesa nel periodo che va dal 1999-2001 al 2015-2017 dal 17,6% al 12,3%. Inoltre, la quota di bambini sotto i cinque anni di vita detti stunted (affetti da malnutrizione cronica) è diminuita dal 37,1% nel 1998-2002 al 27,9% nel 2013-2017. Invece più ridotto è stato il calo di bambini colpiti da denutrizione acuta (wasting): dal 9,7% al 9,3%. Un calo importante è stato registrato infine nella mortalità di bambini nella fascia 0-5 anni: dall’8,1% nel 2000 al 4,2% nel 2016.


HUNGER

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Tre Paesi che nel 2000 avevano ancora dei livelli di fame “estremamente allarmanti”, cioè Angola, Etiopia e Ruanda, sono riusciti ad esempio a diminuire i loro indici di 20 o più punti. Fondamentale è stato in tutti e tre i casi il fatto che i Paesi in questione sono usciti da una “distruttiva guerra civile”, ricorda il rapporto.

La situazione in alcune regioni

Secondo il rapporto, con un GHI rispettivamente di 30,5 e 29,4, le due regioni del mondo con l’indice più alto sono l’Asia meridionale e l’Africa subsahariana. I valori relativi ai quattro indicatori base sono in entrambe le regioni “inaccettabilmente alti”, sottolineano gli autori.

Nell’Asia orientale e nel Sud-est asiatico, inoltre nel Vicino Oriente e nel Nord Africa, nell’America Latina e nei Caraibi, nell’Europa orientale e nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), il punteggio varia invece da 7,3 a 13,2.

Per quanto riguarda l’Africa subsahariana, dove il tasso di denutrizione era del 22% nel periodo 2015-2017, due elementi, cioè conflitti e condizioni climatiche avverse, espongono maggiormente le popolazioni della regione alla denutrizione.

In Paesi alle prese con crisi protratte il tasso di denutrizione è infatti circa due volte più alto rispetto a Paesi non affetti da guerre o conflitti. I dieci Paesi con il più alto tasso di mortalità sotto i 5 anni fra i bambini sono tutti situati nell’Africa subsahariana, di cui sette sono cosiddetti “Stati fragili” (Fragile States).

L’impatto del fenomeno climatico El Niño ha accentuato inoltre nel periodo 2015-2016 le alterazioni climatiche già presenti in questa parte del globo e ha condotto a periodi di siccità prolungate, raccolti ridotti e perdita di bestiame in molte zone del Continente.

Repubblica Centrafricana

Secondo i criteri adoperati dagli autori del rapporto, in un solo Paese si registra un livello di fame definito “estremamente allarmante”: la Repubblica Centrafricana. In sei altre Nazioni del globo, cioè Ciad, Haiti, Madagascar, Sierra Leone, Yemen, e Zambia, il livello di fame viene qualificato come “allarmante”. Inoltre, in 45 dei 119 Paesi che hanno ricevuto un ranking i livelli di fame sono ritenuti “gravi”, mentre in altri 27 “moderati” e in 40 “bassi”.

La Repubblica Centrafricana — visitata da papa Francesco dal 29 al 30 novembre 2015 — è infatti il Paese con il più alto GHI in assoluto: 53,7. Nel Paese, fenomeni come guerra civile, instabilità e violenza settaria hanno causato la perdita di beni e mezzi di sostentamento e compromesso la sicurezza alimentare, spiega il rapporto.

Con il 61,8% il tasso di denutrizione registrato nella Repubblica Centrafricana è il più alto in assoluto contenuto nel rapporto 2018, mentre il tasso di mortalità infantile del 12,4% è il terzo più alto dopo la Somalia (il 13,3%) e il Ciad (il 12,7%). Anche i livelli di stunting e wasting nel Paese sono “motivo di grande preoccupazione”, continua il testo.

A complicare la situazione nel Paese è anche l’alto numero di persone sfollate, sia internamente che esternamente: più di un milione, cioè oltre un quinto dell’intera popolazione della Repubblica Centrafricana, che conta poco più di 5,1 milioni di abitanti.


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Burundi

Per vari Paesi del mondo invece non è stato possibile calcolare l’indice di fame globale o GHI, e questo per il semplice motivo che mancavano i dati necessari relativi a tutti i quattro indicatori, spiega il rapporto.

In sette di questi Paesi, tutti segnati da situazioni di conflitto, di instabilità politica e/o di estrema povertà, i livelli di denutrizione e fame sono “motivo di preoccupazione significativa”, si legge nel rapporto. Si tratta di Burundi, Eritrea, Libia, Repubblica Democratica del Congo, Siria, Somalia e Sud Sudan.

La presenza del Burundi in questo elenco forse sorprende, dato che ha “un terreno molto fertile e abbondanti piogge”, così ricorda il sitoItalafricacentrale.com. Ma ciò nonostante la malnutrizione cronica “dilaga” nel piccolo Paese (circa 11 milioni di abitanti): con una media del 55,9%, il suo livello di stunting è il più elevato di tutti i Paesi contemplati nel rapporto. In tutte le province il livello oscilla tra il 49 e il 66%, tranne in quella di Bujumbura Mairie, che include la capitale Bujumbura, dove la quota scende a 23,7%.

A spiegare questa situazione anomala è il lungo e violento conflitto (o guerra civile), che ha colpito il Paese africano dal 1993 al 2005, cioè per ben 12 anni. Una nuova ondata di instabilità politica, scoppiata nel 2015, ha spinto approssimativamente 420.000 cittadini a lasciare il Burundi per rifugiarsi nei Paesi vicini.

Migrazioni forzate

Il rapporto, intitolato 2018 Global Hunger Index. Forced Migration and Hunger [1], dedica infatti ampia attenzione al fenomeno delle migrazioni forzate. Secondo i dati dell’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati o UNCHR), nel mondo ci sono oggi circa 68,5 milioni di sfollati, di cui 40 milioni di sfollati interni, 25,4 milioni di profughi e 3,1 milioni di richiedenti asilo.

Tra migrazioni forzate e fame c’è un legame forte, suggerisce Laura Hammond, della School of Oriental and African Studies (SOAS) della University of London. “Durante periodi di conflitto, la fame può essere sia una causa che una conseguenza della migrazione forzata”, scrive la ricercatrice, nel senso che la fame può essere sia un fattore che spinge le persone a lasciare il loro Paese sia l’effetto della decisione di emigrare. Chi parte spesso ha perso tutto e deve iniziare a rifarsi una vita nel Paese di accoglienza.

I dati sono impressionanti. La crisi siriana, giunta ormai al suo settimo anno, ha provocato ad esempio 6,7 milioni di sfollati interni e più di 5 milioni di profughi si sono riversati nei Paesi vicini, così spiega l’autrice, la quale ricorda che il 95% dei circa 2,6 milioni di profughi afghani ha trovato rifugio in solo due Paesi, cioè Iran e Pakistan.

E anche se la fame viene spesso vista come la conseguenza di cause ambientali e naturali, il rapporto esorta a non dimenticare i fattori di tipo politico, come nel caso della Siria e dello Yemen, dove intere popolazioni – sfollati interni inclusi – vivono sotto assedio e patiscono la fame, perché le fazioni coinvolte nel conflitto bloccano l’accesso al cibo e agli aiuti come arma di guerra. Si tratta di una prassi vietata dal diritto internazionale umanitario, sottolinea il rapporto.

La strada per eliminare la fame è quindi ancora lunga, come ha ricordato la presidente di Welthungerhilfe, Bärbel Dieckmann, citata dalla Deutsche Welle. “Senza soluzioni politiche la battaglia non sarà vinta”, così ha avvertito, mentre ha sottolineato in particolare l’impatto negativo dei conflitti, come dimostrano proprio gli esempi della Siria e dello Yemen.

Per il ministro dello Sviluppo e della Cooperazione economica nel governo della cancelliera tedesca Angela Merkel, Gerd Müller, una ripresa dei livelli della fame è uno “scandalo”. “Il nostro pianeta ha il potenziale di nutrire tutti”, così ha ricordato il politico della CSU. Infatti, in più di 50 Paesi del globo la situazione rimane “grave”, “allarmante” o persino – in un caso – “estremamente allarmante”.

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1] Per leggere il testo completo del rapporto, cliccare qui.

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