Rileggendo la Parabola degli operai chiamati a lavorare nella Vigna del Signore (Mt 20,1-6) si nota che il padrone alla fine della giornata paga tutti alle stessa maniera dando un denaro a ciascuno, sia a quelli che avevano lavorato tutto il giorno come a quelli che avevano fatto un’ora soltanto e quando qualcuno di loro si lamenta il padrone risponde dicendo: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest’ultimo quanto a te». Cosa intendeva dire di preciso il padrone ai suoi operai e perché li paga tutti con un solo denaro senza fare una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro?
Marco Giraldi
Risponde don Francesco Carensi, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.
Il brano del vangelo di Matteo, capitolo 20,1-16 è conosciuto come la parabola degli operai dell’ultim’ora.
Se leggiamo il testo secondo le categorie sindacali, non possiamo non dare ragione agli operai della prima ora che hanno lavorato tutto il giorno, sopportando il caldo.
Se vogliamo entrare un po’ nel testo, siamo di fronte ad una storia semplice. Essa presenta una giornata di lavoro, in Palestina che contava dodici ore, dal levar del sole fino al tramonto. Nei versetti 8-15 inizia il dialogo, la parte discorsiva in cui è orientata tutta la trama narrativa. Alla fine della giornata ecco il pagamento del salario. Il proprietario che viene descritto come «Signore della vigna», si comporta in maniera corretta. Interviene una terza figura, dopo il padrone e gli operai, quella del «fattore». Per il pagamento si esegue l’ordine inverso, che è indispensabile all’economia del racconto.
Negli operai della prima ora (e nel lettore implicito del testo) si crea infatti l’attesa di «ricevere di più». Noi lettori della parabola ragioniamo esattamente come gli operai della prima ora: se «quello che è giusto» per gli operai dell’ultim’ora (versetto 4), è un denaro al giorno, non sarebbe giusto che i primi ricevano di più? E invece ricevettero anch’essi un denaro ciascuno (versetto10). Questo è il cuore della narrazione. E inizia il dialogo. Alcuni mormorano. Lo scopo di Matteo è parlare delle dinamiche interne alla Chiesa. Il gesto del padrone è sentito come un’anomalia scandalosa. Non spezza il gesto di una giusta ricompensa. Questa rimane, ed è quella pattuita. Infatti il disagio dei primi operai non era nella quantità della remunerazione, ma l’uguaglianza del trattamento (versetto 12: «li hai fatti uguali a noi»). Essi non vogliono rinunciare ad essere i primi. Anzi non ammettono che altri possano essere trattati come loro.
Il testo come ho accennato ha un valore ecclesiale: come concepiamo il nostro servizio a Dio: una prestazione o una relazione? Se si tratta di prestazione allora misuriamo Dio e ci mettiamo a confronto con il servizio degli altri, entrando in un rapporto di competizione.
Se invece c’è la relazione con il Signore, allora anche il peso della giornata è un dono di amore che facciamo, e la bontà del Signore verso tutti, è motivo di ringraziamento.
Dunque per rispondere alla domanda del lettore si possono citare le parole delle catechesi pasquali dello Pseudo Giovanni Crisostomo: «Chi ha lavorato fin dalla prima ora, riceva oggi il giusto salario. Chi è venuto dopo la terza, renda grazie e sia in festa; chi è giunto dopo la sesta, non esiti; non subirà alcun danno. Chi ha tardato fino alla nona, venga senza esitare; chi è giunto soltanto all’undicesima, non tema per il suo ritardo. Il Signore è generoso, accoglie l’ultimo come il primo. Fa misericordia all’ultimo come al primo, accorda il riposo a chi è giunto all’undicesima ora, come a chi ha lavorato fin dalla prima».