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Per evitare una nuova crisi economica serve una cooperazione internazionale più audace

Hands Holding Teamwork Cooperation Togetherness Concept

© Rawpixel.com / Shutterstock

Paul De Maeyer - pubblicato il 02/10/18

Le Nazioni Unite pubblicano il rapporto annuale sull’economia globale

Dieci anni dopo la crisi finanziaria del 2008 l’economia mondiale rimane su un terreno instabile, con le guerre commerciali come sintomo di un malessere più profondo. Con questo pensiero o constatazione apre il comunicato stampa della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD o United Nations Conference on Trade and Development), lanciato mercoledì 26 settembre in occasione della presentazione del suo nuovo rapporto annuale.

Anche se l’economia mondiale è in ripresa dagli inizi del 2017, la crescita resta comunque “spasmodica” e molti sono i Paesi che stanno operando al di sotto del loro potenziale, così sostiene il documento intitolato Trade and Development Report 2018: Power, Platforms and the Free Trade Delusion (Rapporto sul Commercio e lo Sviluppo 2018: Potere, piattaforme e la disillusione del libero scambio). Secondo l’organismo ONU con sede a Ginevra, in Svizzera, è del resto improbabile che la situazione cambierà quest’anno.

Economia sotto stress

“L’economia mondiale è di nuovo sotto stress”, osserva nel comunicato stampa il segretario generale dell’UNCTAD, il keniano Mukhisa Kituyi, che dietro alle attuali minacce alla stabilità individua un “fallimento più ampio”, cioè “l’incapacità di far fronte sin dal 2008 alle disuguaglianze ed agli squilibri del nostro mondo iperglobalizzato”.

Per gli autori del rapporto, ci troviamo davanti ad un vero e proprio paradosso. “Il paradosso della globalizzazione del XXI secolo è che, nonostante un fiume infinito di parole sulla sua flessibilità, efficienza e competitività, le economie avanzate e in via di sviluppo stanno diventando sempre più fragili, fiacche e fratturate”, così scrivono.

L’ottimismo suscitato l’anno scorso dall’incipiente ripresa “non è durato a lungo”, spiega il rapporto. Le recenti stime di crescita sono inferiori alle previsioni, anzi mostrano persino qualche decelerazione. Nel primo trimestre del 2018 la terza economia del globo, quella giapponese, ha registrato ad esempio una crescita negativa, ricorda il rapporto.

Le economie emergenti resistono meglio, nel senso che nel primo trimestre di quest’anno la crescita è stata superiore alle aspettative in Cina e in India. In due altri Paesi invece del gruppo dei cosiddetti BRICS, cioè Brasile e Sudafrica, non c’è stato alcun miglioramento e persino una decelerazione.

L’ombra del debito

In sintonia con il rapporto globale del Gruppo Allianz sulla ricchezza finanziaria dei privati, pubblicato sempre mercoledì 26 settembre, anche il rapporto dell’UNCTAD individua tra i rischi che incombono sull’economia mondiale l’aumento del debito.

All’inizio del 2018, gli stock di debito mondiale erano saliti infatti a quasi 250 trilioni di dollari (quasi 250.000 miliardi di dollari) rispetto a 142 trilioni di dollari (o 142.000 miliardi di dollari) dieci anni prima. Come sottolinea il rapporto, la cifra senz’altro impressionante di 250 trilioni di dollari è pari a tre volte il PIL mondiale.

Il debito privato è “esploso” in particolare nei mercati emergenti e nei Paesi in via di sviluppo, la cui quota di stock di debito globale è salita dal 7% nel 2007 al 26% nel 2017, mentre il rapporto tra credito a società non finanziarie e PIL nelle economie di mercati emergenti è cresciuto dal 56% nel 2008 al 105% l’anno scorso, spiega il rapporto.

Per quanto riguarda il debito, l’autore principale del rapporto, Richard Kozul-Wright, non ha alcun dubbio. “Il crescente indebitamento osservato a livello mondiale è strettamente legato alla crescente disuguaglianza”, sostiene il direttore della Divisione dell’UNCTAD sulle Strategie di Globalizzazione e Sviluppo.

Le grandi imprese

Il rapporto, che non condivide il giudizio positivo sugli effetti della globalizzazione espresso dal Gruppo Allianz, richiama anche l’attenzione sulla concentrazione di potere economico nelle mani di un numero sempre più piccolo di compagnie sempre più grandi.

La distribuzione delle esportazioni ad esempio è “fortemente distorta a favore delle imprese più grandi”, così si legge nel rapporto UNCTAD. “Dopo la crisi finanziaria globale, le cinque più grandi imprese esportatrici rappresentavano in media il 30% delle esportazioni totali di un Paese e le dieci più grandi imprese esportatrici il 42%”, segnala il rapporto.

Il fenomeno è particolarmente accentuato nel settore digitale o elettronico. Delle 25 aziende più grandi — in termini di capitalizzazione — del settore tech, più della metà, cioè 14, hanno la loro sede negli USA, sette in Asia, di cui tre in Cina, tre all’interno dell’Unione Europea e una sola in Africa, così fanno notare gli autori del rapporto.

Le tre principali compagnie tecnologiche statunitensi hanno una capitalizzazione di mercato media di più di 400 miliardi di dollari, rispetto a una media di 200 miliardi di dollari per il top delle aziende cinesi, 123 miliardi di dollari per quelle asiatiche, 69 miliardi di dollari per le europee e 66 miliardi di dollari per l’unica azienda africana.

“Significativa” è la velocità con la quale i benefici della posizione dominante del mercato si sono accumulati, osserva il rapporto, che come esempio offre le due aziende leader del settore dell’e-commerce o acquisti online: il colosso statunitense Amazon e quello cinese Alibaba. Mentre il rapporto utili/vendite di Amazon è salito dal 10% nel 2005 al 23% nel 2015, quello di Alibaba è balzato dal 10% nel 2011 al 32% nel 2015.

Disuguaglianza

Per l’UNCTAD, la crescita dei guadagni delle grandi aziende “superstar” — cfr. la Apple, diventata due mesi fa la prima società quotata a Wall Street a superare la soglia di un trilione di dollari di capitalizzazione — è stata un importante motore della disuguaglianza globale. Ha ampliato, così spiega il rapporto, il divario tra un numero ridotto di grandi vincitori da un lato e la massa di aziende più piccole e lavoratori che vengono “spremuti” dall’altro lato.  

A governare l’iperglobalizzazione — sostiene il rapporto — sono proprio le grandi imprese, che hanno creato posizioni di mercato sempre più dominanti e operano sotto accordi di “libero scambio”, che sono stati oggetto di un intenso lobbying societario e troppo spesso attuati con un minimo controllo pubblico.

Occorre riconoscere, sottolineano gli autori del rapporto, che “molte norme adottate per promuovere il ‘libero scambio’ non sono riuscite a spingere il sistema in una direzione più inclusiva, partecipativa e favorevole allo sviluppo”.

Soluzione

Anche se non c’è alcun dubbio che attraverso l’iperglobalizzazione i Paesi in via di sviluppo sono riusciti a conquistare una quota crescente del commercio mondiale, tuttavia, “trasformare queste tendenze in un processo di sviluppo trasformativo si è rivelato elusivo in molte parti del Sud”, osserva il rapporto, che per quanto riguarda la ricerca di soluzioni esorta a non cadere negli estremi: da un lato un nazionalismo nostalgico, dall’altro un rinnovato sostegno al libero scambio.

Ciò che serve è multilateralismo, su cui pesano però “vecchie e nuove pressioni”, ha osservato il segretario generale dell’UNCTAD, Kituyi, il quale ha aggiunto che in un mondo interdipendente “le risposte egoistiche non offrono una soluzione”. “La sfida sta proprio nel trovare il modo di far funzionare il multilateralismo”, così ha detto.

Purtroppo, così conclude il rapporto, “la tragedia dei nostri tempi è che, proprio quando serve una più audace cooperazione internazionale (…), più di tre decenni di incessante battere il tamburo del libero scambio hanno sovrastato il senso di fiducia, equità e giustizia da cui dipende tale cooperazione”.

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