A lei, madre di due bambini, disabile e abbandonata dal compagno, bastava una macchina da cucire per ricominciare a sperare, gliela regala chi è povero come leidi Padre Umberto Davoli, missionario in Zambia
Era il primo del mese e le famiglie delle “adozioni a distanza” di Ndola mi attendevano per la loro ‘mensilità’. Stavo uscendo dalla nostra missioncina di Itimpi, quando vidi una giovane donna handicappata che arrancava sulle grucce. Mi fermai e le chiesi se voleva un passaggio. Si fece per tre volte il segno della croce, in ringraziamento a Dio per l’inattesa gentilezza (non doveva essere troppo avvezza a certi gesti, anche perché è piccola e bruttina e pare che questo – purtroppo! – sia un particolare che fa molta differenza per chi è al volante.)
Sale sulla macchina e dopo avermi sbirciato a lungo mi fa: “Tu sei un uomo del Vangelo, vero?” E al mio assenso, continua: “Allora forse posso azzardarmi ad approfittare della tua compassione.” “Non della ‘compassione’, reagisco sorridendo; meglio dire dell’amore.” “Ma se non mi conosci nemmeno?” “Come no. Non sei mia sorellina?”
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Seguì un lungo silenzio e quando riprese a parlare mi accorsi che due lacrime le rigavano le gote. “Tu non sai cosa mi dai…” Mi impedii di commentare, e dopo un lungo silenzio lei riprese in un sussurro: “Ne ho piu’ bisogno dell’aria che respiro”. Altra lunga pausa. Capii che stava combattendo tra il desiderio di aprirmi il cuore e la paura di restarne ferita, e continuai a tacere. Poco dopo infatti sbottò, sottovoce ma tutto d’un fiato, come in un’ansia improvvisa di liberazione: “Tu ti trascini sfinita, dolorante, con un’infinita pena che ti rode dentro, ma nessuno ti vede. O almeno, sai con certezza che nessuno ti guarda davvero!” Altra pausa. “Vorresti sempre che fosse notte, ma poi quando viene il buio sospiri l’aurora e vorresti solo morire!”
Fu il mio turno di sentire una struggente voglia di piangere, ma non me lo permisi, anzi, la guardai col più tenero sorriso che seppi sfoderare. “Tu non sai quanto sei cara a Dio e ora anche a me”. Parve assaporare le mie parole, tanto che il volto le fiorì lentamente in un sorriso: “E’ la prima volta che uno mi parla con tenerezza da quando successe il fattaccio”.
Eccoci al capolinea, pensai, e sempre in silenzio attesi il seguito, ormai inevitabile. “Quanto fui stupida! Mi aveva convinto con dolcezza irresistibile ad accettare il suo amore. Un artista consumato! Era la prima volta che mi capitava in vita mia, e gli credetti con tutta l’anima: era un sogno cui avevo rinunciato da tanto tempo! Due figli, mi fece fare. Poi, dieci mesi fa, mi disse che doveva tornare al villaggio per il funerale di un parente. Non tornò più e non si fece più sentire!”
Avrei voluto stringermela al cuore come una bimba ferita e bisognosa di conforto, ma mi accontentai di carezzarle la fronte. “Smetti di piangere, ti prego. Devi essere forte per dar gioia e fiducia ai tuoi bimbi”. E subito cambiai argomento, per distrarla. “Ma non volevi chiedermi qualcosa di cui hai detto d’aver gran bisogno?” “Sì, ma è molto costosa.” La incoraggiai prospettandole un pagamento a rate, nel caso che… “Vedi, io ho fatto un corso di taglio e cucito; potessi avere una macchina da cucire… Solo che viene un capitale!” “Maiuscolo o minuscolo?”, scherzai.
Si trattava di 400.000 Kwacha: la bellezza di 60 Euro! Pensai di fermarmi in città e comperargliela subito, ma poi, mi dissi, come sarebbe andata a casa con la macchina da cucire? Avrei dovuto cercarle un taxi che da Kitwe alla periferia ovest di Chambeshi (40 Km) sarebbe costato una bella cifra! E a un tratto mi venne un’idea brillante, per cui le dissi: “Ora non potrei portarti a casa: sono già in ritardo. Vieni con me fino a Ndola; al ritorno comperiamo la macchina da cucire e ti porto a casa”. Mentre proseguivamo in silenzio, elaborai il mio piano.
Giungemmo al Centro Francescano e appena videro la macchina, il centinaio di ‘clienti’ (per lo più mamme e nonne) sparsi nel vasto cortile si affrettarono verso la saletta della distribuzione, ma io puntai deciso verso il boschetto di pini, chiamandoli a raccolta col clackson. Si disposero a cerchio, attorno alla macchina e io uscii, invitando la mia nuova amica a seguirmi.
“Vi presento Chibesa, vedova e mamma di due angioletti, che il Signore ha posto oggi sul nostro cammino. Seguirono i saluti tradizionali, con triplice stretta di mano-pollice-mano, seguita dal duplice battito delle mani. Moltiplicando per cento, ci vollero dieci minuti buoni, ma visto che “mwapoleni akulile mushi” (è il saluto che costruì il villaggio), si fu tutti d’accordo che furono dieci minuti spesi bene.
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Spiegai brevemente l’urgenza di procurare la macchina da cucire a Chibesa e conclusi: “Ma la macchina non basta! Come fa Chibesa a cominciare il lavoro se non le procuriamo anche rocchetti e spole di filo di vari colori, aghi e altre parti di riserva e una buona scorta di stoffe, almeno dei tipi più necessari? Ora, la macchina costa 400.000 Kwacha e quella gliela compero io; non vorreste anche voi sacrificare per l’amica Chibesa 2.000 Kwacha a testa, così che la nostra mammina si porti a casa tutto il necessario per cominciare domattina il suo lavoro?”
Le urla e i battimani parvero ratificare un unanime consenso, senonché vidi la stazza obesa di mamma Gondwe (una donna meravigliosa che da anni si arrabatta per mantenere ed educare una tribù di figli e nipotini orfani) alzarsi faticosamente per chiedere la parola. Mi affrettai a precisare: “Tu no, mamma Gondwe, tu sei esente: ne hai abbastanza dei tuoi da mantenere. E anche tu, mamma Banda, con i tuoi bimbi handicappati e i nonni ciechi a carico!”. Ma non avevo capito proprio nulla!
“No, Padre, non è giusto! Tu dai a tutti noi e poi vuoi dare anche a lei il doppio di quanto le daremmo noi tutti insieme? Niente affatto, la macchina da cucire gliela comperiamo noi! Le vuoi prendere tutte tu le benedizioni del Signore? Le 4.000 Kwacha a testa gliele diamo noi!”. E qui si scatenò l’entusiasmo dei miei poveri: “Certo! Gliela vogliamo dare noi la macchina!” .“Trattieni 4,000 Kwacha ciascuno!” “A tutti, senza eccezione”, urlava anche mamma Banda.
E chi li fermava più? Fu un’autentica lezione di “povertà di tasca e ricchezza di cuore” una lezione che spesso soltanto i poveri sanno dare. Ci mancò poco che mi commuovessi ancora, ma per la seconda volta tenni duro.
Chi non seppe trattenere le lacrime, invece, fu la povera Chibesa: in piedi, aggrappata alle grucce come uno scricciolo sul ramo. Non s’era mai sentita tanto amata. Per una volta almeno, furono lacrime di gioia.