Ha fatto discutere la dichiarazione di frate Tindaro, un francescano di convento a Bagheria, che commentando un vergognoso fatto mosso da razzismo ha affermato di essere incline a negare la comunione a «chi si macchia di razzismo e intolleranza». Certamente una risoluzione forte, ma non priva di forti sostegni scritturistici e magisteriali.
Hanno fatto discutere le esternazioni di frate Tindaro, il francescano di Bagheria che giorni fa ha commentato con toni “teologicamente enfatici” un grave episodio di razzismo. Un venticinquenne autoctono aveva infatti aggredito a colpi di cric un migrante nigeriano.
Queste le parole che hanno suscitato un acceso dibattito:
La violenza sul ragazzo nigeriano è stata inaccettabile, e posso rifiutarmi di dare l’Eucaristia a chi si macchia di razzismo e intolleranza verso gli altri. È stato aggredito solo perché ha la pelle di colore diverso.
Ora, possiamo anzitutto dire – senza tema di sbagliare – che lo zelante religioso è stato un tantino “enfatico” nella sua risposta: certamente un ministro dell’altare, neppure insignito del carattere episcopale, non ha autorità alcuna per estromettere dei battezzati dalla comunione sacramentale.
Tuttavia è altrettanto ben noto come nessuno abbia un vero e proprio “diritto”, stricto sensu, ai sacramenti: tale diritto esiste ma si fa tanto più stringente quanto più il cristiano ottempera al dovere di vivere in grazia di Dio – che al predetto diritto è particolarmente connaturato.
Una decina di anni fa l’allora monsignor Raymond Burke spiegava con piacevole chiarezza i «due canoni che hanno a che fare con la ricezione del sacramento», i quali «hanno come scopo due beni»:
Un bene è quello della persona stessa, perché ricevere indegnamente il corpo e il sangue di Cristo è un sacrilegio. […] Quindi per il bene della persona stessa la Chiesa deve istruirci dicendoci che ogni volta che riceviamo l’eucaristia dobbiamo prima esaminare la nostra coscienza.
Se abbiamo un peccato mortale sulla coscienza dobbiamo prima confessarci di quel peccato e ricevere l’assoluzione e, soltanto dopo, accostarci al sacramento eucaristico. Molte volte i nostri peccati gravi sono nascosti e noti solo a noi stessi […] ma ci sono casi di persone che commettono peccati gravi deliberatamente e sono casi pubblici, […] per esempio pubblicamente appoggiano l’aborto. […] Una persona che commette peccato in questa maniera è da ammonire pubblicamente in modo che non riceva la comunione finché non abbia riformato la propria vita.
Se una persona che è stata ammonita persiste in un peccato mortale pubblico e si avvicina per ricevere la comunione, allora il ministro dell’eucaristia ha l’obbligo di rifiutargliela.
Perché? Innanzitutto per la salvezza della persona stessa, cioè per impedirle di compiere un sacrilegio. Ma anche per la salvezza di tutta la Chiesa, per impedire che ci sia scandalo in due maniere.
Primo, uno scandalo riguardante quale debba essere la nostra disposizione per ricevere la santa comunione. In altre parole, si deve evitare che la gente sia indotta a pensare che si può essere in stato di peccato mortale e accostarsi all’eucaristia.
Secondo, ci potrebbe essere un’altra forma di scandalo, consistente nell’indurre la gente a pensare che l’atto pubblico che questa persona sta facendo, che finora tutti credevano fosse un peccato grave, non debba esserlo più tanto, se la Chiesa permette a quella persona di ricevere la santa comunione.
Se una personalità pubblica che apertamente e deliberatamente sostiene i diritti abortisti riceve l’eucaristia, che cosa finirà per pensare la gente comune? Essa può essere portata a credere che è corretto sopprimere una vita innocente nel seno materno. […]
L’esempio del peccato di aborto non era indotto dalla domanda, bensì è stato liberamente scelto dal prelato per esemplificare la risposta: un esempio che, malgrado qualche cliché, calza a pennello per la materia che trattiamo, dal momento che nell’uno come nell’altro caso si tratta della vita umana e della sua dignità inalienabile.
D’accordo – qualcuno dirà – ma non si starà esagerando, a paragonare il razzismo all’abortismo? Direi piuttosto che l’obiezione sia figlia di quel clima di razzismo soft, un po’ “cynical chic”, di quel “cattivismo” indotto che – contro il buonismo dei radical chic – afferma: «Io non sono razzista, però…».
Ricordiamo anzitutto che l’Eucaristia è il mistero che ricapitola l’umanità in Cristo:
Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.
Gal 3, 28
E per ogni uomo tentato di razzismo vale il monito che Pietro riceve negli Atti degli Apostoli: «Quello che Dio ha purificato, tu non considerarlo impuro» (At 10, 15). E si deve ricordare che i tentennamenti del Pescatore derivavano dall’osservanza (parziale e imperfetta) di una Rivelazione… cosa che certamente non sostiene i tic dei razzisti.
Certamente, se si basa la condanna teologica del razzismo sulla questione sacramentale si potrà obiettare che essa non ha valenza assoluta, ma soltanto relativa all’adesione alla fede cristiana: insomma, sarebbe inaccettabile ogni razzismo verso un cristiano… ma non verso un non cristiano.
Naturalmente questa obiezione è fallace, e se abbiamo preso le mosse dalla questione sacramentale è perché proprio di quella si tratta – frate Tindaro minacciava di escludere dalla comunione i razzisti – ma questa è collegata a sua volta a un impianto che implica l’origine del genere umano proprio in ragione della redenzione di Cristo.
Teologie moderniste, dirà qualcuno… roba persa dietro al nebuloso “spirito del Concilio” Vaticano II. Neanche per sogno, anzi a scanso di equivoci ci rifaremo adesso a due documenti dei pontificati di Pio XI e Pio XII.
Il primo è – o meglio… sarebbe stata – un’enciclica di Papa Ratti: specificamente dedicata a condannare il razzismo in genere e l’antisemitismo in specie. Era pronta, ne conosciamo il testo dal titolo – “Humani generis unitas” – fino all’ultimo dei 178 paragrafi, rinvenuti da un giovane gesuita che catalogava l’archivio bibliografico del confratello John LaFarge. Quest’ultimo era uno dei tre figli di sant’Ignazio che su incarico di Pio XI e del Generale (della Compagnia) Ledóchowski stilarono la bozza per l’enciclica che Papa Ratti voleva pubblicare.
Pio XI non fece in tempo a pubblicarla: mentre l’aveva sulla scrivania, ha narrato il cardinal Tisserant, fu stroncato da un infarto. Strano, per un montanaro dalla fibra tale che di lui i biografi raccontano che ignorasse l’esperienza di un mal di testa. Il fatto che in quei mesi l’Italia fascista stesse promulgando e applicando le (infami) Leggi Razziali, unitamente al boicottaggio intra mænia che Papa Ratti trovò in seguito al suo profetico discorso del 6 settembre 1938, rendono tale stranezza perfino sospetta, e più di qualche storico non se la sente di escludere in toto l’ipotesi che quella morte repentina – così attesa da Mussolini – fosse stata “aiutata”.
Come è noto, fu Pacelli a succedere a Ratti sul soglio petrino: Pio XII si ritrovò sulla scrivania il testo di Humani generis unitas… e scelse di non pubblicarlo. I detrattori di Pio XII non mancano mai di ricamare attorno a questo fatto come se esso provasse “il razzismo di Pacelli”, o più in generale che sarebbe stato un errore condannare il razzismo (e si sa, Domineddio preserva dall’errore la Cattedra Romana con ogni mezzo!): basta aver letto il testo dell’“enciclica scomparsa” (così la si chiamava fino al 1995, anno della prima pubblicazione) per ritrovarvi la fonte di ampi stralci della Summi Pontificatus, la prima enciclica di Pio XII.
Ora, il confronto fra i due testi è prezioso perché mostra che Pacelli volle appropriarsi solo di alcuni paragrafi della bozza… pare che non gli interessasse sottoscrivere i molti passaggi che coniugavano strambamente l’antisemitismo etnico con l’antigiudaismo religioso (dunque quello di Pio XII è un testo più filogiudaico della bozza di Pio XI!).
Ma pure a prescindere dal dato filologico, in questa sede c’interessano soprattutto due notazioni che si trovano nel testo. La prima è di carattere sociologico e – sorprendentemente – indica nella “fonte avvelenata dell’agnosticismo” la radice del razzismo (concetto sempre esposto per perifrasi, tanto non si voleva legittimare l’ideologia totalitaria imposta per legge):
Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell’agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la pacifica convivenza dei popoli.
Pio XII conosceva bene la storia: il razzismo è nato «dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani». Ed ecco come nel proprio magistero ordinario e autentico Pio XII spiega in cosa e perché il razzismo confligge insanabilmente con la legge divina:
Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice.
Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1,26-27); e la stessa Scrittura ci insegna che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta riuniti nella sua amicizia (cf. Gn 12,3).
L’apostolo delle genti poi si fa l’araldo di questa verità, che affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo greco che Dio «trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli uomini, perché popolasse l’intera superficie della terra, e determinò la durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore …» (At 17,26-27). Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: «Un solo Dio e padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti» (Ef 4,6): nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine.
E lo stesso apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, «in cui tutte le cose sono state create» (Col 1,16); nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: «Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm 2,5).
E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l’umanità, questo stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo vuoto d’amore e dilaniato dall’odio: «Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15,12).
Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall’amore di Dio e del Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute «per l’edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme all’unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,12-13).
Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo sangue divino.
Dunque abbiamo nell’ordine:
- la creazione, il peccato e la predestinazione universale alla salvezza in Cristo;
- il monogenismo affermato dall’Antico e dal Nuovo Testamento;
- la ricapitolazione universale in Cristo;
- il “comandamento nuovo” di Gesù;
- la visione cosmico-storica di cui è depositaria la Chiesa.
E ancora molte altre parole Papa Pacelli spese di seguito per illustrare come gli Apostoli e i loro successori resero tutti i popoli «partecipi di quell’ineffabile dono della sapienza eterna, che affratella gli uomini con vincolo di soprannaturale appartenenza».
Solo come spunto di riflessione annotiamo a margine che il secondo errore – quello che il Papa annunciava insieme con il razzismo – era la tendenza a considerare l’ordine civile e giuridico come totalmente svincolato da quello naturale e divino. Ora torniamo a Bagheria: abbiamo certamente abbastanza elementi per riconoscere che no, frate Tindaro non può unilateralmente decidere di escludere dalla comunione qualcuno, specie se il suo peccato (anche grave) non è manifesto; d’altro canto non solo gli atti ispirati a razzismo, ma anche le mere opinioni, sono un odioso peccato che ripugna al genuino senso cattolico.
Nel particolare contesto storico che la cronaca ci fa vivere questo è un utile pretesto per un buon esame di coscienza. Non può fare che bene.