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Cherofobia, Martina canta la paura di essere felice. E lo show s’inchina al male di vivere

MARTINA, ATTILI, XFACTOR

Annalisa Teggi - pubblicato il 13/09/18

XFactor 12 applaude la sedicenne che mette in musica la sua patologia, il suo privarsi della felicità. Ma in fondo a quella canzone c'è un'inconsapevole preghiera che parla dell'unico modo per essere felici ...

Lo show che applaude il dolore

Alle ultime audizioni di X Factor 12 si è presentata Martina Attili, 16 anni e un volto non estraneo al mondo del piccolo schermo; a vederla sembra più piccola della sua età: graziosa e con intensi occhi chiari, voce dolce e limpida. Come afferma lei stessa nel brano inedito che canta, nessuno direbbe che una ragazzina così carina possa celare un buco nero dentro di sé. Cherofobia, è il nome. E’ una patologia che riguarda il precludersi esperienze positive, per paura della felicità.




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In che senso? In fondo, il punto di partenza del problema lo conosciamo tutti: ad un momento di estasi può seguire un momento di scontro col male. La permanenza della felicità è impossibile, cioè l’essere costantemente in uno stato di grazia e gioia e allegria. Il soggetto cherofobico fa un passo oltre: ritiene che una piccola esperienza di felicità possa essere causa di male, in una sorta di punizione consequenziale. Canta Martina:

E cerco ogni forma di dolore mischiata dal sangue col sudore, e sento il respiro che manca e sento l’ansia che avanza, fatemi uscire da questa benedetta stanza!
SAD TEEN
Shutterstock

Giudici e pubblico in estasi, osannata e promossa a pieni voti. Non voglio schermire né sottostimare il valore della condivisione umana cantata da Martina. Eppure mi sento di uscire per un attimo dal coro degli applausi, per fare una riflessione a margine. C’è, è innegabile, una diffusa tendenza a idolatrare la sofferenza umana, il pessimismo cosmico, la disperazione; soprattutto in ambito artistico, il depresso e ferito funziona molto come personaggio. Non è del tutto sbagliato.

Leopardi ha donato all’umanità un tesoro immenso schiudendo tutti i meandri meno sereni del suo animo. In tantissimi, va detto, non hanno ancora capito che il Recanatese è la guida più attendibile per chi si voglia mettere sulla strada della felicità. L’insegnante e scrittore Alessandro D’Avenia gli ha dedicato un libro proprio per porgerlo alle generazioni più giovani come esempio di “cercatore di felicità”.

Nel 1817 Leopardi non era che un diciannovenne ancora sconosciuto, in un paesino ai confini dello Stato Pontificio, eppure si prese la briga di scrivere a uno degli intellettuali più famosi dell’epoca, Pietro Giordani. Gli confessò che aveva visto la primavera, doveva prendersi cura di tanta bellezza e diventare poeta. (da L’arte di essere fragili, A. D’Avenia)
LAVENDER
Vero Photoart | Unsplash

Aveva visto la primavera, aveva visto la primavera! Ecco. Oltre ad inchinarci agli artisti che cantano, scrivono, dipingono il male di vivere, sappiamo condividere e proporre esperienze di bene vissuto o ricercato, di felicità possibile dentro la battaglia del vivere? Credo ci sia un sottofondo di pericolo se i nostri giovani si abituano a vedere solo forme idolatria del dolore (la tentazione di pensare: “se soffro, applaudiranno anche me”).




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Il dolore non chiede di essere applaudito e mandato avanti nello show della vita; esige una compagnia che sia conforto e cura, strada alla cura. La linea è molto sottile, ma da una parte del crinale si scivola nel buio pesto: se si continua a bussare alla porta della disperazione, idolatrandola, lei aprirà e avrà un regno di morte da donare. La si deve riconoscere e voltarle le spalle, tentare. Il compito vero dell’arte, dell’amicizia, dei rapporti umani è ospitare le ferite di malessere reciproche e camminare insieme per “uscire a rivedere le stelle”.

Ma tu resta

Qualcosa nella canzone di Martina mi ha colpito davvero. Forse non era appetibile presentare al grande pubblico una canzone pop completamente triste. Forse è una vera e propria intuizione o richiesta. Non so. Resta il fatto che a fronte di un testo che denuncia e implora solitudine, c’è un finale di ritornello che chiede: “ma tu, resta”.

Due monosillabi strepitosi, un verbo meraviglioso. La frase è così semplice e sintetica che probabilmente può essere stata pensata alla leggera. Però una canzone appartiene anche al pubblico che la canta e la rielabora nel suo vissuto. E per me proprio queste tre parole rappresentano il succo della felicità, del problema della felicità.

“Ma” è la congiunzione avversativa della speranza, me lo ha insegnato Dante. Quando tutto va a rotoli, solo qualcosa che arriva in direzione opposta al male può salvarti: il “ma” nelle frasi che diciamo ha il compito di invertire la rotta (“volevamo andare al mare, ma piove”). Senza queste due letterine … così simili al suono mamma … la Divina Commedia non sarebbe stata scritta. Ce lo ricordiamo: Dante si era perso nella selva ed era un posto così tremendo da essere mortale,

tant’è amara che poco è più morte ma per trattar del ben che vi trovai

Il bene ci viene incontro dalla direzione opposta a quella in cui ci ha sprofondato il male. Il bene è un imprevisto che arriva, soprattutto. Perché non esiste solo la strada dell’io, bensì anche i sentieri di un Tu.


MARGHERITA MION

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Non so chi sia il “tu” a cui si rivolge Martina. Possono essere tante le ipotesi: un amico, un amato, un genitore, perfino Dio. Aprirsi all’altro è un altro tassello di approssimazione alla felicità: l’ego, infatti, è nemico della gioia, è un tiranno ricattatore che serra le porte di casa nostra e chiude le tapparelle di tutte le finestre. Concentrarsi solo sull’io porta al soffocamento. Ogni presenza esterna, altra, è proprio un’alternativa e una possibilità di spalancare lo sguardo a cose che la solitudine non potrà mai dare: compagnia, consolazione, dialogo, novità. Ogni piccolo tu è parente del grande Tu.

Holding Hands
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Resta. Il punto dolente della felicità è che nella vita terrena si manifesta in modo transitorio e imperfetto, appare un attimo poi compare il suo opposto. Essere cherofobici è un po’ come essere davvero realisti. Dobbiamo dunque avere paura della felicità? Dobbiamo avere paura che la disillusione dopo una gioia sia una dannazione? Dobbiamo trattare la felicità come mera illusione?

Ogni giorno camminiamo sul filo del rasoio fra queste due incredibili possibilità. È evidente, dunque, che la nostra perenne nostalgia, il desiderio di unirci a quella parte dell’universo dalla quale ora ci sentiamo separati, di trovarci finalmente all’interno di quella porta che abbiamo sempre potuto vedere solo dall’esterno, non è semplicemente una fantasia nevrotica, ma al contrario è il più sincero sintomo della nostra vera condizione. E venire finalmente ammessi all’interno significherebbe gloria e onore per noi, al di là di ogni nostro merito, e significherebbe nello stesso tempo il rimarginarsi di quella vecchia ferita. (C. S. Lewis)

Essere realisti non significa essere pessimisti, ma essere feriti. La nostra coscienza sa che attendiamo un “qualcosa” che rimargini l’incompiuto che siamo; possiamo mettere a tacere il bisogno, ma rimarrà marchiato a fuoco dentro. La vera felicità perciò non ha proprio a che fare coi sorrisi, la gioia e la spensieratezza. Non sempre. Anche se possono esserci piccole manifestazioni estemporanee di un’allegria che ci suggerisce che siamo protesi al godimento del bene.


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Sarebbe ora di screditare l’idea che essere felici significhi godere appieno e per sempre ora-e-qui della felicità. Ci sono esperienze intense di dolore che sono ben più vicine alla felicità, perché ne fanno percepire l’esistenza necessaria (e mancante) più di quando sorseggiamo un mojito ridendo con gli amici. Finché saremo fatti di carne, felicità sarà una tensione e non una presenza. L’avremo vicina, senza possederla e usarla a piacimento.

Ogni essere umano ha il suo percorso di conoscenza, si può imbattere in mille ipotesi di vita, rigettarle tutte e farsene una sua. Si può imbattere anche nella proposta cristiana, che ruota tutta attorno al verbo “restare”. Il cristiano non è sempre felice, neppure lieto. Forse vive con acuita drammaticità il senso del male, dell’insoddisfazione, della fragilità. Non è migliore o peggiore di altri. Ha un amico grande di strada, ecco. Gesù non ha donato agli Apostoli infiniti vasi di felicità, ma ha promesso loro di portarli a farne esperienza vera restando vicini a lui.

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. (Gv 15,1-5)

Ma tu resta. Appunto. Anche l’ultimo verso del ritornello di una canzone pop può – distrattamente, inconsapevolmente – farci fare memoria dell’unica preghiera che ci accompagna ad attraversare tutte le nostre paure.

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