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Avete mai sentito parlare dei “peccati prediletti”?

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Marko Vombergar-ALETEIA

Canção Nova - pubblicato il 11/09/18

Perché tendiamo a commettere sempre gli stessi peccati?

di Sandro Arquejada

L’incontro personale con Cristo risorto provoca una trasformazione dentro di noi. L’amore di Dio è responsabile della nascita di uomini e donne nuovi, generati nell’acqua e nello Spirito (cfr. Giovanni 3, 3-5). La nostra aspirazione diventa percorrere la via della santità, cercare di pentirsi dei peccati, per non offendere il Signore, che ha rivelato quanto ci ama.

La speranza rinasce, una forza contagia e un nuovo concetto di sé, a partire dalla dignità di figli di Dio, abbraccia il nostro cuore. Trascorso un po’ di tempo, però, torniamo a commettere certi peccati. Pur lottando e vigilando, finiamo per cadere negli stessi errori. Sono i cosiddetti “peccati prediletti”.

Cosa ci succede?

Abbiamo la coscienza e l’ispirazione di non peccare, e allora perché ci percepiamo deboli di fronte a certi impulsi? La prima cosa da capire è che il Signore ha creato l’uomo nel bene e per il bene. “Ed ecco, era molto buono” (Genesi 1, 31). San Tommaso d’Aquino dice che “l’uomo, seguendo qualsiasi desiderio naturale, tende alla somiglianza divina, perché ogni bene naturalmente desiderato ha una certa somiglianza con la bontà divina”. Il santo aggiunge: “Il peccato è sviarsi dalla retta appropriazione di un bene”. Quello che porta l’essere umano a peccare sarà sempre il desiderio di raggiungere il bene costituito in lui.

Pecchiamo quando usiamo in modo scorretto i “beni”, doni e talenti depositati in noi da Dio. Questa ansia di bene non verrà mai estirpata, e anche se il modo per cercare di raggiungerlo è sbagliato, “il peccato tende a riprodursi e a rafforzarsi, ma non può distruggere il senso morale fino alla sua radice” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1865). Il dono non morirà mai, anche se lo stiamo usando per il peccato, “perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili” (Romani 11, 29).

Se tutte le nostre facoltà umane sono state create per il bene, ma per nostra libera iniziativa o perché impariamo le cose in modo peccaminoso non riusciamo ancora a liberarci da una pratica negativa, significa che stiamo affrontando un aspetto della nostra personalità creata per il bene che durante la storia personale è stato abituato alla forma del peccato e non della virtù.

Il demonio e le nostre debolezze

Qui entra in ballo Satana, l’autore del peccato con i suoi inganni. La tentazione sarà più grande in un campo rispetto a un altro, perché il demonio conosce le nostre debolezze, o meglio, conosce i nostri tratti e vuole porre fine a ciò che abbiamo di meglio. Gesù, nel deserto, è stato tentato nella sua particolarità più sacra, in quello che solo Lui è: “Se tu sei Figlio di Dio” (Matteo 4, 3-6). A Giobbe, il demonio ha chiesto conto del suo merito più grande: la fede (Giobbe, 1, 21; 2, 9-10).

La nostra lotta più grande sarà nelle caratteristiche principali del nostro essere, in quello che riguarda il nucleo intimo di ciascuno. È per questo che torniamo alla pratica del peccato, perché è stato intaccato un tratto della sacra individualità dell’essere. Un esempio è una grande capacità di comunicare che anziché essere usata per trasmettere la Buona Novella può essere applicata per la maldicenza.

Se persiste una debolezza, lì c’è un forte aspetto della nostra umanità. È un dono prezioso, ma non lo percepiamo come ricchezza, perché stiamo lottando per soffocarlo, visto che è manifesto nella forma del peccato. L’uomo che ha seppellito il suo unico talento alla fine l’ha perso, proprio per non aver investito in modo corretto (cfr. Matteo 25, 14-30). Il libro Peccati e Virtù Capitali, del professor Felipe Aquino, sottolinea che gli errori e i beni capitali hanno tutti una stessa radice, solo che uno è l’inverso dell’altro.

Cosa fare?

Ciò che si deve fare è incanalare queste forze verso il bene, scoprendo quanto ci appropriamo, impariamo o canalizziamo questa caratteristica individuale in modo errato e potenziandola di modo che emerga tutta la ricchezza che l’Altissimo ha dato a ciascuno di noi.

È anche fondamentale non lottare da soli. Sia per individuare a che punto della nostra vita il dono si è inclinato verso il peccato che per canalizzarlo bene sarà importante l’aiuto di un’altra persona. Cercate aiuto: biologico (se si tratta di una patologia o di un vizio), psicologico e spirituale (un ministro).

In questa scoperta, permeata dalla lotta, dobbiamo innanzitutto avere pazienza con noi stessi. Essendo umani, siamo limitati e conviveremo sempre con le nostre miserie, ma non possiamo arrenderci ad esse. La ricerca della santità non è raggiungere la perfezione, ma lottare contro le nostra debolezze. In questo l’essere umano avanza, diventa umanamente migliore e più vicino a Dio.

Bisogna lottare!

San Francesco di Sales insegnava: “Considerate i vostri difetti più con dolore che con indignazione, più con umiltà che con severità, e mantenete il cuore pieno di un amore docile, tranquillo e tenero”.

Siete caduti? Rialzatevi! Non vi conformate al peccato e non scoraggiatevi. Vincerete! Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma, al numero 943, che “i laici hanno il potere di vincere in se stessi e nel mondo il regno del peccato”. Oltre al fatto che il Signore ci dà questa forza interiore, che è più potente dei nostri errori, possiamo ancora ricorrere alla sua grazia: “Ed Egli [Gesù] mi ha detto: Ti basta la mia grazia”.

“Per questo mi compiaccio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando sono debole, allora sono forte” (1 Cor 12,9a-10).

La grazia di Dio si manifesta anche nella nostra povertà. Quando ci percepiamo impotenti di fronte a un fatto, possiamo solo ricorrere alla Misericordia divina, che in questo mondo si manifesta per eccellenza nel sacramento della Confessione. Confessarsi sarà sempre la migliore via di liberazione.

Dio vi benedica!

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