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“Nel tuo Getsemani, Gesù è con te”

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Catholic Link - pubblicato il 10/09/18

Una testimonianza profonda e toccante sul dolore della solitudine

di Marigina Bruno

Un paio d’anni fa ho vissuto uno dei periodi più difficili della mia vita. Per vari motivi (situazioni di dolore e per la mia personalità nervosa) ho sviluppato un leggero disturbo d’ansia. Dico “leggero” perché so di casi ben peggiori del mio, in cui la persona soffre moltissimo al punto da non riuscire a svolgere neanche le attività più fondamentali.

Non entrerò nei dettagli, ma è iniziato con palpitazioni cardiache e tensione muscolare, fino ad arrivare ad attacchi d’ansia periodici. Per sei mesi, ho trascorso più o meno tutti i giorni convinta che qualcosa non andasse nel mio cuore e che potevo morire in qualsiasi momento, anche se gli esami medici dicevano il contrario.

Chi soffre di un disturbo d’ansia sa a cosa mi riferisco. Sono diventata ossessiva e mi sono convinta che la sofferenza non sarebbe finita mai, che ero condannata a vivere così. Mi costava lavorare, non uscivo quasi di casa, le cose che prima mi piaceva fare erano diventate un peso. Misuravo la pressione almeno una volta al giorno e cercavo ossessivamente su Google i sintomi di un infarto per assicurarmi che quello che sentivo era ansia e non un attacco di cuore.

Stavo impazzendo?

Chi mi avrebbe amata? Come potevo vivere con quella situazione? Avrei perso il lavoro? Come sarei riuscita ad andare avanti? Mi ponevo costantemente queste domande, aprendo nel mio cuore una ferita che si faceva sempre più grande.

solitaria

Grazie a Dio e alla terapia psicologica, oggi sto meglio. L’ansia non mi paralizza più, ho imparato a comprenderla, a controllarla e a conviverci. È una cosa che molti sanno, non è niente di nascosto, e so che capita a moltissime persone.

Oggi mi guardo indietro e mi rendo conto che in quel periodo la mia era un’esperienza di paura e frustrazione, di tensione costante di fronte a qualcosa che apparentemente non riuscivo a controllare. Al di là di questo, provavo una profonda solitudine.

Nel più profondo del mio essere mi sentivo incompresa, come se nessuno a questo mondo potesse capire cosa stavo attraversando. E non perché fossi sola, perché i miei genitori mi erano sempre vicini, le mi amiche mi ascoltavano e mi incoraggiavano e sapevo che Dio mi accompagnava, ma anche così sentivo una sorta di vuoto dentro.

Una solitudine che brucia

Mi è capitato spesso, soprattutto nei momenti di grande sofferenza. Il fatto è che c’è un posto nel nostro cuore che niente e nessuno può raggiungere. È lì che la solitudine diventa così profonda da farti sentire senza speranza, abbandonato, una solitudine che fa male e brucia e di fronte alla quale sembra non esserci alcuna consolazione.

montana

Meditavo su questo da vari giorni quando mi sono imbattuta in una lettera intitolata Dancing in Gethsemane: A letter about hope (Ballando nel Getsemani: Una lettera sulla speranza), scritta da Anthony D’ Ambrosio, in cui riferisce la sua esperienza relativamente agli abusi e agli scandali nella Chiesa cattolica.

Il testo mi ha affascinata, e condivido la maggior parte del suo contenuto. Non approfondirò il tema degli abusi perché meriterebbe un articolo a parte. Vorrei piuttosto concentrarmi sugli aspetti essenziali del testo, soprattutto su un passo che mi ha veramente toccato il cuore al punto da farmi piangere di fronte al computer mentre lo leggevo.

Anthony racconta l’esperienza di sentirsi arrabbiato e perduto di fronte alle notizie degli scandali e ricorda un periodo di particolare aridità spirituale, in cui aveva appena chiuso con la sua fidanzata perché l’ansia sembrava avergli consumato la vita. Questo lo aveva portato anche a dubitare dell’esistenza di Dio e sentirsi sconsolato di fronte a un dolore così grande:

Era primavera, e le nuove foglie erano ancora di un colore verde acerbo. Durante la cena familiare abbiamo immerso del prezzemolo in un piatto profondo pieno d’acqua, a simboleggiare le lacrime degli israeliti durante la schiavitù. Abbiamo mangiato agnello e siamo andati alla parrocchia di rito maronita che frequentavamo quando ero bambino. Alla fine della Messa, gli incaricati hanno creato un ‘giardino’ nella chiesa che simboleggiava il Monte degli Ulivi, e ci sono state confessioni e adorazione eucaristica fino alle due del mattino.

Non sapevo come tornare a casa, e allora mi sono seduto in chiesa con le cuffiette ascoltando Sigur Ros (un gruppo musicale islandese) e ho immaginato Gesù nel giardino, che soffriva fino a sanguinare dai pori per l’ansia.

Vedevo come il suo ministero arrivava alla fine, come le sue amicizie terminavano, il rifiuto, il fallimento e anche la distanza tra Lui e Dio. Ho ascoltato le parole che ha pronunciato in quel momento: ‘Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà’. E poi ho ascoltato il silenzio assordante. Non c’era nemmeno la consolazione di un ‘No’. Si sentiva solo il russare dei suoi amici, che non erano stati capaci di vegliare con Lui, e alla fine il saluto del suo traditore.

Mentre pensavo a queste cose ho sentito – per la prima volta da quando mi ero ammalato – che qualcuno alla fine mi capiva. Lui conosceva il rifiuto che sperimentavo, il silenzio di Dio, la distruzione delle aspirazioni. In quel momento ho detto al Signore nella preghiera: ‘Non so se sarò malato per sempre o se avrò una vita dopo di questo, ma accetto il calice della sofferenza come hai fatto tu e scelgo di vivere per il resto della mia esistenza senza maledirlo’.

Ho iniziato a piangere perché, anche se non sapevo se Gesù era davvero Dio, in quel momento non importava. Sapevo soltanto che non ero solo; qualcuno mi comprendeva, nella mia agonia e nella mia solitudine più profonde. Quando tutti intorno a me erano ‘addormentati’ di fronte a quello che mi stava accadendo, qualcuno mi vedeva e mi capiva”.

Il Signore è lì, nel nostro Getsemani, accanto a noi. Comprende il dolore più profondo, la solitudine più grande, quella che nessuno può toccare. Egli è lì, nel più profondo della tua umanità, nella tua ferita aperta, perché l’ha provata sulla propria carne. In quel luogo che nessuno sembra raggiungere, lì c’è Lui, che cerca di darti la consolazione a cui aneli tanto.

Qualunque sia la tua sofferenza oggi e per quanto possa apparire oscura la situazione, ricorda di guardare Gesù. Ricorda che Egli ha promesso di rimanere con te fino alla fine del mondo. Fai tesoro di questa splendida verità con amore, speranza e gratitudine, e nei momenti di maggior dolore non dimenticare che nel tuo orto Gesù ti offre la sua dolce compagnia.

Concludo con una preghiera che per me è una delle più belle che abbia mai ascoltato. È un inno della Liturgia delle Ore che può servire nei momenti di solitudine:

Signore, resta con me,
sempre, non allontanarti mai,
e quando deciderai di andartene,
Signore, portami con te;
perché pensare che te ne andrai
mi provoca una paura terribile
di rimanere senza di te,
di vederti andar via senza di me.

Portami, in tua compagnia,
ovunque vai, Gesù,
perché so bene che tu sei
la vita della mia anima;
se non mi dai la tua vita
so che non posso vivere
né se resto senza di te,
né se te ne vai senza di me.

Per questo, più che la morte
temo, Signore, la tua partenza
e voglio perdere la vita
mille volte più di perderti;
perché la vita immortale che offri tu
so che non posso raggiungerla
quando resto senza di te,
quando te ne vai senza di me. Amen.

* Questo articolo è stato scritto dalla nostra carissima autrice Marigina Bruno, che di recente ha condiviso i suoi pensieri nel suo nuovo blog Hechas para más. Se questo post vi è piaciuto, non esitate a visitare il suo sito e a condividerlo con i vostri amici!

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