separateurCreated with Sketch.

Lotta globale contro i sacchetti di plastica: l’anomalia USA

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Paul De Maeyer - pubblicato il 28/08/18
whatsappfacebooktwitter-xemailnative

Dieci Stati hanno introdotto delle leggi che vietano… di vietare buste di plasticaLa plastica è un materiale molto pratico e perciò onnipresente nella vita di ogni giorno. Infatti è molto plasmabile, anzi talmente plasmabile da essere chiamata appunto “plastica”, inoltre è molto leggera, e infine è quasi indistruttibile.

E’ proprio quest’ultimo punto forte che rende la plastica (o meglio “le materie plastiche”, perché ci sono infatti numerose tipologie) altamente problematica dal punto di vista ambientale. Non solo si decompone molto lentamente ma inoltre si fraziona in cosiddette “microplastiche”, che finiscono nella catena alimentare e poi anche sulla nostra tavola.

Infatti, sono presenti persino nell’acqua che beviamo, sia quella del rubinetto che quella in bottiglia, ma vengono anche ingerite da molti organismi marini, come ad esempio il famoso krill. Questi piccolissimi crostacei, che costituiscono l’alimento base di numerosi animali marini, sono capaci di trasformare attraverso il processo digestivo le microplastiche in cosiddette “nanoplastiche”. Si tratta di “una dinamica precedentemente non identificata nella minaccia rappresentata dall’inquinamento plastico”, ha osservato Bengtson Nash, della Griffith University, nel Queensland (Australia), citato da La Repubblica.

Le buste per la spesa

L’applicazione ritenuta più problematica della plastica sono le classiche buste della spesa e inoltre i sacchettini di plastica leggeri, in cui nei supermercati vengono (o venivano, poiché messi al bando in Paesi europei come Francia e Italia) imbustate frutta e verdura.

Secondo il sito Priceonomics, citato dal quotidiano tedesco Die Welt, a livello globale ne vengono usate ogni anno circa 500 miliardi, di cui ogni esemplare viene utilizzato per un tempo medio di appena 12 minuti, vale a dire quel breve arco di tempo che permette di portare la spesa dal supermercato o dal negozio a casa.

Quando queste buste vengono buttate via, così spiega Priceonomics, ostruiscono non solo i sistemi fognari e i canali di scolo, ma uccidono secondo le stime ogni anno circa 100.000 mammiferi marini (ad esempio per soffocamento o blocchi intestinali) e inquinano i mari e l’ambiente (discariche incluse) anche fino a mille anni.

Norme anti-plastica

Per far fronte all’inquinamento costituito dalle buste di plastica, molte Nazioni del mondo hanno introdotto delle misure per frenare o anzi fermare la loro diffusione. Finora 32 Paesi, tra i quali 18 africani — più della metà quindi — , le hanno messe proprio al bando. Nell’elenco spiccano oltre ai nomi di Francia e Italia, anche quelli di Camerun, India, Kenya, Papua Nuova Guinea e Senegal.

Il divieto più drastico è senz’altro quello attuato in Kenya. Infatti, chi produce, vende o importa buste di plastica rischia multe fino a 19.000 dollari o anche quattro anni di carcere, ricorda Priceonomics. Che l’Africa primeggi tra i continenti ‘proibizionisti’ è anche motivato da preoccupazioni di carattere igienico-sanitario: fogne intasate aumentano il rischio di attacchi di malaria. In India invece, il divieto introdotto nel 2002 ha anche una motivazione religiosa: fino a 20 mucche (ritenute sacre nella religione induista) muoiono ogni giorno nel Paese dopo aver ingerito sacchetti di plastica.  

Altre Nazioni invece hanno deciso di introdurre una tassa speciale sulle buste o sacchetti di plastica. Si tratta di 18 Paesi, tra cui Botswana, Bulgaria, Danimarca, Sudafrica, Svezia e Turchia. 17 invece sono i Paesi, che come Brasile, Giappone, Somalia e Spagna, hanno introdotto un divieto parziale o una tassa.

L’anomalia statunitense

In questo panorama non troppo buio, nel senso che almeno 67 Nazioni del mondo hanno introdotto legislazioni anti-inquinamento da buste di plastica, mancano gli USA. Come suggerisce sempre il sito Priceonomics, la situazione Oltreoceano è anomala e persino controcorrente.

Infatti solo due Stati dell’Unione hanno stabilito delle leggi che vietano l’uso delle famigerate buste di plastica usa e getta: si tratta delle Isole Hawaii e della California. E mentre il distretto federale di Washington DC ha introdotto una tassa sull’utilizzo dei sacchetti o buste di plastica, in quattro Stati — Delaware, Maine, New York e Rhode Island — sono stati avviati dei programmi per il riciclo e il riutilizzo delle buste.

Dieci altri Stati — e questa è la grande anomalia — hanno invece delle leggi che vietano la messa al bando delle buste di plastica. Sono dieci Stati, così osserva l’articolo di Priceonomics, in cui “il pesante lobbying dell’industria della plastica ha dato i suoi frutti”. Si tratta di (in ordine alfabetico): Arizona, Florida, Idaho, Indiana, Iowa, Michigan, Minnesota, Mississippi, Missouri e Wisconsin.

In tre di questi Stati, cioè Arizona, Idaho e Missouri, la legge vieta “inspiegabilmente” alle singole città o contee di mettere al bando i sacchetti, così osserva a sua volta il Mercury News in un editoriale pubblicato nel novembre scorso.

Le norme anti-plastica funzionano

Nel suo editoriale, il Mercury News spiega che la decisione della California di ridurre la montagna di plastica funziona, eccome. Infatti, la quantità di sacchetti di plastica raccolti durante l’ultima Coastal Clean-up Day, organizzata ogni anno nel mese di settembre, è calata infatti l’anno scorso del 72% (ossia quasi tre quarti) rispetto al 2010. I sacchetti di plastica costituiscono ormai solo l’1,5% di tutta la spazzatura raccolta durante la giornata, rispetto al 10% quasi nel 2010.

Prima del referendum del 2016 e del “sì” dell’elettorato californiano alla cosiddetta Proposition 67, l’industria della plastica smerciava circa 15 miliardi di sacchetti usa e getta ai consumatori del Golden State, prosciugando in questo modo quasi 2 milioni di barili di petrolio, sottolinea il sito. Di tutta questa marea di plastica, i californiani riciclavano appena il 3%.

Un altro esempio è la Cina, dove secondo Priceonomics la situazione era talmente degradata che fu coniata l’espressione “inquinamento bianco” per indicare quello causato dalle buste di plastica. Con la messa al bando, decisa dieci anni fa, la presenza di sacchetti di plastica nei rifiuti è calata dal 60 all’80% circa, “una riduzione effettiva di circa 40 miliardi di buste”, scrive il sito.

Salvare gli oceani

Come già suggerito, l’impatto dell’inquinamento da plastica sui mari e sugli oceani è enorme. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Current Biology e realizzato dalla University of Queensland, Australia, e dalla Wildlife Conservation Society, appena il 13% degli oceani è ancora da considerare wilderness, ovvero natura incontaminata o intatta. Ma si tratta di una natura molto vulnerabile, poiché la maggior parte non è protetta, avverte la ricerca.

Infatti, sulla superficie degli oceani galleggiano vere e proprie isole formate da pezzi di plastica. L’esempio più spaventoso è il Pacific Trash Vortex, situato a metà strada tra la California e le Isole Hawaii. Secondo la fondazione Ocean Cleanup, l’enorme chiazza è composta da circa 1,8 trilioni di frammenti di plastica, di cui i manufatti più grandi (le megaplastiche, dai 50 centimetri in su) rappresentano il 53% della massa. Numericamente la categoria più grande di questa “zuppa”, nota anche come Great Pacific Garbage Patch, è quella delle famigerate microplastiche (da 0,05 a 0,5 cm), che rappresentano il 94% del totale, ossia circa 1,7 trilioni di elementi.

Nel settembre prossimo, la fondazione lanciata dall’olandese Boyan Slat, 24 anni, avvierà un controverso progetto per liberare l’Oceano Pacifico da almeno una parte di questa “brodaglia”. L’obiettivo è di “ripulire il 50% della chiazza in cinque anni”, ha ha detto Slat al sito Business Insider. Non mancano però le voci scettiche. Diversi esperti ritengono infatti che il sistema proposto dalla fondazione non funzionerà e anzi provocherà più danni che benefici.

Una cosa però è chiara. Bisogna fare qualcosa, perché “gli oceani sono l’eredità comune della famiglia umana”, come si legge nella lettera inviata a nome di papa Francesco dal segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, ai partecipanti alla quarta Conferenza di alto livello “Il nostro oceano. Un oceano per la vita”, che si è svolta nell’ottobre 2017 a Malta. Nel documento, il Pontefice invita tutti a “lavorare con maggiore responsabilità per salvaguardare i nostri oceani, la nostra Casa comune e i nostri fratelli e sorelle, oggi e in futuro”.