L’abbiamo tutti davanti agli occhi quel camion dalle fiancate verdi a un passo dal baratro del ponte Morandi. Sta lì. Un monumento alla vertigine. Forse è qualcosa di più, almeno per me. Mi dà fastidio soprattutto, mi urge una domanda: puoi accettare questa classificazione tra miracolati e vittime?
No. Posso accettare solo qualcosa di sospeso, come l’attesa snervante finché la trama del film non porta all’epilogo e allo svelamento della meta dell’avventura.
Finché il film non è alla fine lo svelamento non è possibile, sono possibili domande e inquisizioni. Fino alla fine il buono potrebbe essere cattivo e lo schivo taciturno un benefattore.
Di fronte a una tragedia di umana colpevolezza che colpisce con tragica fatalità dovrei accettare una lettura cosmica che fa di certe brave persone degli sfortunati e di altre brave persone dei fortunati? Posso guardare in faccia i miei cari avendo un retropensiero così insostenibilmente ingiusto e intangibile?
Potrei, e allora l’innata tensione alla giustizia benefica si tradurrebbe in una rabbia sorda capace di far fuori il bene e il male, il comportamento lodevole e le aspettative buone. Sarei come una piccola antilope nella savana, preda a 360° di molti imprevisti predatori. Sopravvivere e basta.
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Quel camion è così assurdo da interrogarmi sull’assurdità del tutto. Una campata mezzo crollata sostiene un veicolo pesante ora vuoto. Il mondo è sghembo e non siamo ancora arrivati all’epilogo.
Noi siamo quel camion, un viaggio iniziato e ancora sospeso. Lo sono tutti i viventi, figli, compagni, amici, nemici. Per quanto sia vertiginoso, gli unici ad aver attraversato per intero il ponte del mistero che chiamiamo vita sono quelli che ora noi definiamo “vittime”.
Allora accetto di essere quel camion, innanzitutto. Ancora qui, senza sapere perché oggi, ieri, e ieri l’altro sono scampata alla morte. Poteva cogliermi anche mentre facevo la spesa a cinquanta metri da casa.
Accetto di essere i fanali del camion, che guardano muti la voragine. Ogni tratto di strada è pericoloso, sbaglio quando penso diversamente. Io sono sospesa, ogni santo e benedetto giorno.
Dipendiamo dalle opere altrui, dalle forze cosmiche, dipendiamo. E siamo. Non è mai detto che saremo.
Una famiglia che parte per le vacanze posso immaginarla, penso alla mia. La partenza in sé è sempre un fermento unico.
“Hai caricato anche il passeggino?”- “Aspetta, scendo e controllo”.
“Mamma, non ho fatto la pipì!” – “Ok, muoviti e vai a farla”.
“Ci siamo, andiamo?” – “Sai che mi viene il dubbio sul gas, vado a verificare di averlo spento davvero”.
L’orario di partenza è sempre diverso da quello pianificato, ti svegli con cinque minuti d’anticipo per l’ansia, poi ne perdi uno qui, sette lì. Per alcuni è diventato un timer ad orologeria per essere proprio lì quando il ponte è crollato, altri possono essersi salvati per la medesima ragione.
Una famiglia che parte per le vacanze in prossimità di Ferragosto posso immaginarla, penso alla mia. Stanchezza dei genitori, entusiasmo dei figli. Si va, si stacca. La gioia sempre nuova di buttarsi nel mare, senza orari. Insieme in una macchina stipata, chiacchiere finalmente libere dalle mille nuvole nere del lavoro. Casa è alle spalle, ma abbiamo con noi ciò che ci basta. Anche il maglione pesante, se viene il brutto tempo.
E se – ora, qui, adesso – ti attendesse un viaggio più grande di quello che avevi programmato? Cadere, per salire in cielo tutti assieme. La morte è un mistero, la porta di un’altra casa che non ho mai visto, ma di cui qualcuno mi parla con parole di carne. Essere insieme, una famiglia, ad attraversare la porta o il ponte, tra terra e cielo. Essere abbracciati, appena crollati, dalla stessa mano che oggi, 15 Agosto, ha portato dritta in Cielo lei, Maria.