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Vuoi vivere a lungo? Non cambiare medico di famiglia

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Paul De Maeyer - pubblicato il 21/07/18

Lo spiega una nuova ricerca pubblicata sulla rivista “BMJ Open”

Avete un buon medico di riferimento? E lo consultate già da tempo, forse già da anni, e tra di voi c’è un dialogo aperto e franco? Allora, tenetevelo stretto, perché questo rapporto costituisce un “potenziale salvavita”: allunga infatti la durata della vita. Questo almeno emerge da un nuovo studio pubblicato su BMJ Open (cioè la rivista online ad accesso aperto del British Medical Journal) e condotto da ricercatori del St Leonard’s Practice a Exeter e della University of Exeter Medical School, in Inghilterra.

Per la loro ricerca — la prima a valutare in modo sistematico l’eventuale legame tra continuità di cura e indice di mortalità –, gli scienziati inglesi hanno selezionato, tra 726 articoli, 22 ricerche che soddisfacevano i criteri di ammissibilità. Provenienti da nove Paesi e culture diverse, tra cui Canada, Inghilterra, Israele, Stati Uniti e Corea del Sud, tutte le ricerche sono state pubblicate dal 2010 in poi.

Come ricordano gli autori della ricerca nella loro introduzione, sin dagli inizi del XIX secolo la scienza medica ha fatto registrare sviluppi rapidi, dalla Teoria dei Germi del noto chimico e microbiologo francese Louis Pasteur (1822-1895) al sequenziamento del genoma umano, ma “la ricerca sugli aspetti umani delle cure mediche è rimasta indietro”.

“A livello internazionale, c’è stato un calo del valore percepito del contatto personale tra pazienti e medici”, spiegano gli autori, che menzionano un recente editoriale del New England Journal of Medicine (NEJM), il quale ha suggerito che l’assistenza non personale dovrebbe “diventare l’opzione di default in medicina”.

Continuità di cura

Un modo per esaminare l’assistenza o cura interpersonale consiste nel misurare la cosiddetta “continuità di cura”, la quale si basa sui “contatti ripetuti” tra un paziente e il suo medico di riferimento, un percorso che offre ad entrambe le categorie coinvolte l’opportunità di migliorare la comprensione dei rispettivi punti di vista e priorità.

Continuità di cura avviene quando un paziente e un medico si vedono ripetutamente e arrivano a conoscersi reciprocamente”, spiega il professor Philip Evans, co-autore della ricerca, citato dal sito Medical News Today.

Questo meccanismo genera tutta una serie di benefici. Il paziente si fida del suo medico di riferimento ed è anche più soddisfatto, inoltre si registra una maggiore aderenza al trattamento farmacologico prescritto e infine si traduce anche in una riduzione dei ricoveri in ospedale, sottolineano gli autori.

Significativa riduzione della mortalità

Dalla stragrande maggioranza degli studi esaminati dai ricercatori inglesi — ben 18 su 22, ossia l’82% –, emerge in particolare che la continuità di cura è associata a “significative riduzioni della mortalità”, si legge su BMJ Open, che aggiunge:“La presenza di questa associazione in nove paesi, attraverso tre continenti e tra popolazioni e sistemi sanitari molto diversi, implica un effetto umano basilare”.

Per 200 anni, i progressi in ambito medico sono stati principalmente tecnici e impersonali, che hanno diminuito l’attenzione all’aspetto umano della medicina. Questa revisione sistematica rivela che, nonostante i numerosi progressi tecnici, la continuità di cura è un elemento importante della pratica medica e potenzialmente una questione di vita o di morte”, concludono gli autori.

Il beneficio di mantenere a lungo lo stesso medico di riferimento vale sia per i medici specialisti che per i medici di base o di famiglia (come vengono anche chiamati), ha dichiarato a sua volta il professor Sir Denis Pereira Gray, del St Leonard’s Practice.

“Abbiamo trovato articoli che includono chirurghi e psichiatri, quindi pensiamo che questo sia un effetto umano che passa attraverso la medicina”, spiega l’autore principale della ricerca. “E’ un articolo che dimostra che l’aspetto umano della medicina è ancora molto importante”, ribadisce Gray, classe 1935, citato dal Guardian.

Da parte sua, il sistema sanitario inglese ha promesso 2,4 miliardi di sterline extra all’anno per la medicina di base e anche 5.000 nuovi medici di famiglia entro il 2020, riferisce il sito della BBC. Secondo il Royal College of General Practitioners (RCGP), l’organismo professionale dei medici di medicina generale, tutto questo è necessario per poter salvaguardare il futuro della medicina di base e dell’assistenza ai pazienti.

La situazione italiana

Il “Bel Paese” va giustamente orgoglioso del suo sistema sanitario, che permette a tutti coloro che sono iscritti e hanno la tessera sanitaria, di accedere gratuitamente a tutti i servizi di base, quali il medico di famiglia e il pediatra di riferimento.

Sul modello italiano (e quindi sulla continuità di cura in Italia) incombe però un pericolo: iniziano a scarseggiare infatti i medici, sia medici specialisti che quelli di base, ovvero quella figura che funge “da ponte” tra il singolo cittadino e il sistema sanitario.

Un comunicato emesso nel febbraio scorso dall’Associazione Nazionale Aiuti e Assistenti Ospedalieri (ANAAO) e dalla Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG), avverte per ciò che definisce — per rimanere in tema — una vera e propria “emorragia”: nei prossimi cinque anni ben 45.000 medici italiani andranno infatti in pensione. E tra 10 anni, cioè nel 2028, la cifra sarà ancora più elevata e quindi più preoccupante: saranno più di 80.000, dei quali quasi 33.400 medici di famiglia e quasi 47.300 medici ospedalieri.

Secondo le stime dell’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS) — definite “ottimistiche” dal segretario della FIMMG, il dottor Silvestro Scotti, su Famiglia Cristiana –, nei prossimi cinque anni 14 milioni di cittadini italiani rischiano di rimanere senza un medico di base. Il divario tra medici anziani che vanno in pensione e tra quelli giovani che possono prendere il loro posto sarebbe infatti troppo accentuato. Il fenomeno colpirà in particolare le regioni Lombardia, Lazio, Campania e Sicilia.

Per colmare le lacune che si stanno creando, alcune regioni hanno già ingaggiato supplenti provenienti dall’estero. A Rovegno, in alta Val Trebbia, a est di Genova, è arrivato un supplente iraniano, che, come spiega a Famiglia Cristiana il sindaco della località, Giovanni Isola, in sole 13 ore alla settimana deve occuparsi di tutti i malati in sette comuni della zona.

Anche negli immediati dintorni di Milano, come ad esempio a Cernusco sul Naviglio, che dista circa 10 chilometri dal capoluogo lombardo, le autorità locali hanno dovuto faticare per trovare almeno un medico — i posti da assegnare sono invece quattro — disposto a venire a lavorarci.

Per molti italiani quindi, la domanda non sarà tanto se conviene mantenere sì o no il proprio medico di riferimento, quanto se trovarne uno.

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