Una volontaria, in una missione dell’ Angola, sulle orme del “Nigrita”: l’ambasciatore del Re del Congo, convertitosi al cattolicesimo, che morì a Roma nel 1608 dove era venuto a portare un messaggio al Papa. Cosa avrebbe dovuto dire a Paolo V?di Claudia Cassano
Le cronache narrano che il viaggio durò tre anni. Un viaggio in mare, tra pericoli, tempeste e pirati. Un viaggio di 6000 Km, che nessuno prima aveva mai affrontato, dall’Africa a Roma. Ci troviamo nell’anno 1605. Il re del Congo, Alvaro II, convertitosi al cristianesimo e desideroso di aderire fedelmente alla Chiesa di Roma, invia in qualità di ambasciatore a Papa Paolo V suo cugino, il principe Antonio Manuel ne Vunda, rinominato in Italia “il Nigrita”. Questo giovane attraversò varie peripezie prima di riuscire a raggiungere la meta, il suo cammino fu ostacolato e rallentato anche una volta giunto su terra ferma, nel Regno di Spagna, e dovettero intervenire gli ambasciatori vaticani perché potesse ripartire e arrivare dal Papa. Le sue condizioni di salute erano gravissime a causa delle fatiche vissute nella traversata e, per quanto fosse stato accolto nei palazzi papali con grandi onorificenze e lì curato, il Nigrita morì trentatreenne senza riuscire a rivelare in completezza a Paolo V il messaggio di cui era nunzio.
Era il 6 gennaio 1608. Cosa dovevi dire al Papa, Manuel? Che parole avresti usato per iniziare quel dialogo tra il tuo Regno e Roma? Questo primo ambasciatore africano, come se fosse uno dei re magi, morì proprio nel giorno in cui la Chiesa celebra la loro memoria. Oggi, nel battistero della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, si può sostare davanti al suo busto in marmo nero e soffermarsi su quello sguardo orgoglioso. Io l’ho fatto. Mettendomi a tu per tu con lui, gliel’ho chiesto:
Tra due giorni partirò per lo stesso percorso fatto da questo principe più di quattrocento anni fa, farò il tragitto inverso e andrò a visitare le terre da cui lui proveniva, lì dove oggi si estende il territorio che anticamente faceva parte dei confini del regno di re Alfonso II, l’Angola.
Andrò lì tre settimane come volontaria di una ONG, il Vides internazionale, che da anni si occupa di progetti di educazione e di sviluppo rivolti soprattutto alle donne e ai bambini, in collaborazione con le suore dell’ordine delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Quarantanni dopo il sacrificio di questo ambasciatore, l’Angola vide arrivare i primi missionari italiani, dei frati cappuccini, a cui seguirono altri ordini religiosi tra cui i salesiani, ancora oggi molto attivi in questa parte dell’Africa. La loro missione di evangelizzazione, educazione, cura, ha permesso nel passato e continua a permettere tuttora un grosso sviluppo e rappresenta un fondamentale aiuto per le popolazioni del posto. I missionari sono stati presenti durante la dominazione portoghese, poi negli anni ’70 dopo l’indipendenza, hanno accompagnato e sono stati accanto alla gente nei lunghissimi e durissimi quarantanni di guerra civile che hanno segnato gravemente il Paese. E sono al fianco delle realtà più povere anche in questo tempo in cui l’Angola si sta risollevando dal suo passato profondamente sofferto.
Quando la responsabile del Vides, al termine del percorso di formazione per i volontari, mi ha assegnato questa destinazione, ho dato il mio ok con una certa sorpresa, perché non mi aspettavo questo Paese e subito dopo confesso di essere andata a vedere su Google maps esattamente dove si collocasse (sono sempre stata una frana in geografia!). Ho imparato a conoscerlo, a conoscere la sua storia e qualcosa sulla sua cultura, in questi ultimi tre mesi di preparazione.
Sono stati mesi intensi: i primi contatti via mail con le suore del posto, la conoscenza dei volontari che negli anni passati sono stati lì, le loro condivisioni e i loro preziosissimi consigli, le letture e piccole scoperte su questa nazione, tutta la trafila per i vaccini, i documenti per il visto… e poi le serate estive a imparare portoghese con don Cristiano, un sacerdote brasiliano che vive nella mia parrocchia… e come ringraziare tutti gli amici che mi hanno aiutata nella progettazione e nella traduzione dei corsi per i ragazzi della missione (onestamente, la parte che mi ha richiesto più tempo)? Ma soprattutto, i ricordi più belli di questa fase di preparazione sono legati all’affetto e alla partecipazione della mia famiglia e di tutti gli amici che mi hanno accompagnata da subito in questa avventura: chi con i suoi racconti di esperienze simili, chi riempiendomi di regali utili come magliette di cotone bianche (ma ciononostante con qualche piccolo tocco fashion che non poteva mancare) perché lì fa caldo, chi tra una partenza e l’altra delle vacanze si è scapicollato per trovare un momento per venirmi a salutare di persona, chi si è già messo a pregare per me, chi si è dato da fare per rimediarmi un vecchio film che dovevo assolutamente vedere prima di partire “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” girato nel 1968 proprio in Angola, diretto da Ettore Scola e con la superba interpretazione di un giovane Alberto Sordi e di un affascinantissimo Nino Manfredi.
«Perché vai in Africa?», qualcuno mi ha chiesto e qualcun altro si è anche dato da solo la risposta: «Certo lì si entra in un’altra dimensione, si stacca proprio da tutto». Pensando alla vita frenetica di Roma, la risposta potrebbe essere quella di Sordi nel film, quando cercava di capire come mai il cognato si fosse rifugiato laggiù:
Aoh, giungla pe’ giungla, a ’sto punto mèjo quela vera.
No, non è questa la mia risposta. È vero, la realtà in cui viviamo a volte sembra aggrovigliarsi come una giungla e la vita che faccio, che facciamo, è sempre di corsa. Su questo tema della corsa ultimamente mi sono spesso fermata a riflettere. Ci sono tanti modi per correre. C’è la corsa di Marta, che si affrettava nel suo perfezionismo a fare su e giù per casa per servire Gesù e i suoi apostoli, mentre quella sfaticata di Maria era seduta tranquilla ad ascoltarlo (prendendosi la parte migliore). Ma c’è anche la corsa di Maria di Nazareth che si mette in viaggio per andare a trovare Elisabetta e lì gioire insieme a lei per le meraviglie che compie il Signore. E secondo me, questo tipo di corsa è un po’ simile a quella che fanno anche i Magi: seguendo la stella, vanno a cercare Gesù che nasce, che nasce nella povertà di una mangiatoia, corrono per trovare l’Amore che si incarna. Ecco, diciamo che io parto con questo scopo. Mi metto in viaggio verso l’estrema periferia del mondo per andare ad ammirare come si incarna lì l’Amore, nella gente e nei bambini che incontrerò, nel lavoro che suore e sacerdoti fanno in quella missione, attraverso il ponte e il dialogo che costruiscono giorno per giorno. Quel dialogo che il Nigrita aprì secoli fa. Vado per viverlo, vado per aggiungere anch’io il mio piccolissimo pezzetto.
Ma vado anche per raccontarvelo.