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Perché Dio vuole spezzarci il cuore?

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Jakub Hlavaty | CC BY SA 2.0

Tom Hoopes - pubblicato il 06/07/18

E perché lo sport ci aiuta a capirlo

Domenica scorsa, le letture hanno mostrato come Dio odi la sofferenza e la morte. Questa domenica, 14ma del Tempo Ordinario, spiegano perché Gesù abbracci comunque la sofferenza e chieda ai cristiani di fare lo stesso.

È un paradosso: Dio sa che la sofferenza e la morte ci spezzeranno il cuore, ma sa anche che il nostro cuore ha bisogno di essere spezzato.

Il Vangelo domenicale mostra come le persone più vicine hanno trattato Gesù.

Gesù arriva nel suo villaggio d’origine e inizia a insegnare, ma i suoi concittadini, e perfino i suoi parenti, non credono.

“Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”, commenta Gesù, che “si meravigliava della loro incredulità”.

A noi accade lo stesso – sperimentiamo Gesù come ordinario e mondano anziché radicale e affascinante.

La Prima Lettura ci dice perché capita questo: il nostro cuore è indurito.

Il profeta Ezechiele viene inviato a predicare un messaggio di pentimento agli israeliti che hanno rifiutato la propria fede.

“Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito”, dice Dio.

Il compito di Ezechiele è annunciare un messaggio duro, di modo che “ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”.

È questo il problema che Dio ha affrontato nel corso del tempo: deve consegnare un messaggio a persone che si sono abituate a respingerlo.

Mosè ha affrontato gli israeliti che si erano adattati alla schiavitù; Gesù ha affrontato una comunità ebraica che era scesa a patti con l’oppressione.

È come convincere un alcolista che può vivere senza bere, o un giovane innamorato che la persona con cui esce non va bene per lui.

Dio deve affrontarci allo stesso modo. L’alcolista deve raggiungere il fondo, l’innamorato deve avere il cuore spezzato.

San Paolo descrive questo processo.

La Seconda Lettura descrive infatti come, dopo avergli mostrato una visione del Paradiso, Dio abbia dato a Paolo un dono molto strano.

“Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia”, scrive.

Paolo ha pregato il Signore di allontanare questa misteriosa sofferenza, ma Dio ha rifiutato – “la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”.

Permettendogli “una spina”, Dio sta risparmiando Paolo dal destino subìto dalla famiglia di Gesù. La spina non gli permetterà di essere troppo “a suo agio” con Gesù; non può inserirLo in una vita facile. Deve imparare che la vita con Gesù in un mondo caduto è sofferenza, ma la vita senza di Lui è peggio.

Lo sport ci dice come funziona questo principio.

Guardando una volta la partita di calcio del sabato mattina, un docente di Filosofia del Benedictine College ha sottolineato questo aspetto.

“Il vero valore dello sport è imparare che il dolore non è la cosa peggiore che ci possa capitare”, mi ha detto il dottor James Madden. “È meglio soffrire che essere disonorevoli”.

Per vincere nello sport bisogna uscire dalla routine confortevole, lavorare sodo e correre, affrontando il dolore.

Non lo facciamo perché ci piace soffrire, ma perché vogliamo la gloria più di quanto temiamo il dolore.

Nella vita cristiana è lo stesso. Sappiamo dove ci porterà una vita confortevole – a una vita devota al comfort. Una vita che non riconosce Gesù Cristo come il bene più grande sulla Terra.

Abbracciare la croce, invece, cambia tutto.

Come ha affermato San Giovanni Maria Vianney, le croci di un cristiano “lo uniscono a Nostro Signore; lo purificano; gli fanno acquisire distacco da questo mondo; rimuovono ogni ostacolo dal suo cuore; lo aiutano a vivere, come un ponte ci aiuta a passare sull’acqua”.

La paura della croce, ha aggiunto, è peggiore della croce stessa. Dopo che il tuo cuore si è spezzato, Dio lo riempie.

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