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La GPA: un servizio o invece sfruttamento?

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Paul De Maeyer - pubblicato il 04/07/18

La chiamano “maternità surrogata” o anche “utero in affitto”, cioè quel procedimento o pratica procreativa nella quale una donna porta avanti una gravidanza e affronta quindi anche il parto per conto di altre persone. Proprio per questo ultimo aspetto viene denominata anche “gestazione per altri” o semplicemente GPA. I committenti, detti anche “genitori intenzionali”, possono essere sia persone singole che coppie, sposate o non sposate, eterosessuali o omosessuali.

Si possono distinguere due modalità o forme di GPA. Da un lato c’è la surrogazione “tradizionale”, nella quale il seme del padre viene usato per fecondare l’ovocito della madre surrogata, la quale diventa quindi automaticamente anche la madre biologica del nascituro, e dall’altro lato c’è la surrogazione definita “gestazionale”, nella quale vengono trasferiti nell’utero della madre surrogata uno o anche più embrioni creati in laboratorio con i gameti dei genitori biologici (o di donatori, in caso di sterilità di uno dei due partner).

I sostenitori tendono a descrivere il procedimento come un “servizio”. In Canada, dove la GPA a titolo gratuito è legale — la legge permette solo il rimborso di certe spese sostenute dalle donne –, la società Canadian Fertility Consulting (CFC) funge da ponte tra i genitori intenzionali e le madri surrogate. Una delle donne attualmente “assistite” dal CFC è la trentasettenne Stéphanie Aubry. “Se il parto va bene e io sono in buona salute, spero di poterlo rifare”, dichiara la madre di due figli a Radio Canada. Alla sua prima esperienza come madre surrogata, la donna sta portando avanti una GPA per conto di una coppia di omosessuali francesi.




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India: una meta preferita

Oltre a suscitare quesiti di natura bioetica, la “maternità surrogata” è una pratica che si presta facilmente allo sfruttamento delle donne, soprattutto quelle che provengono dagli strati più poveri della società. Lo dimostra uno studio condotto dalla ricercatrice indiana, Sheela Saravanan, che ha lavorato anche presso l’Università di Göttingen, in Germania.

In un’intervista concessa a FigaroVox e ripresa dal sito Libertépolitique.com, l’autrice del libro A Transnational Feminist View of Surrogacy Biomarkets in India (2018) offre uno spaccato della situazione delle donne indiane che hanno deciso di diventare madri surrogate.

Se il Paese è diventato oggi una meta preferita dei genitori intenzionali è perché in India “le madri surrogate non hanno assolutamente alcun diritto sul bambino che portano in grembo, nemmeno sul loro proprio corpo per tutta la gravidanza”, così spiega la Saravanan, che per la sua ricerca ha avuto un aiuto da parte di due cliniche indiane.

La realtà della maternità surrogata in India è molto lontana dall’immagine romantica diffusa in alcuni talk show statunitensi, così continua la ricercatrice. “In India, la gestazione per altri è una violazione flagrante dei diritti dell’uomo”, che comporta anche “rischi importanti per la salute delle donne”.

Mentre le madri surrogate vivono per nove mesi (o anche di più, se allattano il bambino) in surrogate homes all’interno delle cliniche, quest’ultime commettono “diverse attività illegali”, ha constatato la Saravanan: non danno nessuna copia del contratto alle madri surrogate, inoltre falsificano i certificati di nascita e trasferiscono sistematicamente cinque embrioni nell’utero, invece dei tre consentiti dalla legge, per ricorrere all’aborto selettivo – in India i figli maschi sono preferiti alle femmine – se più di due risultano vitali.

La ragione per la quale molte donne indiane si offrono come mamme surrogate è economica. Scelte preferibilmente tra i ceti più poveri della società, esse possono guadagnare 3.500 € per gravidanza (se gemellare il compenso sale a 7.000 €), una cifra che permette di acquistare casa, di lanciare un’attività o di mandare i propri figli ad un collegio privato.

“Queste cliniche sembrano giganteschi bazar, dove tutto ha un prezzo: il corpo delle donne, il loro latte materno, il lavoro come tata che alcune fanno per qualche tempo dopo la nascita, il numero di bambini, il loro peso, il loro sesso, la loro salute, e persino la casta sociale o la religione della madre”, conclude la ricercatrice.




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Surrogacy Bill 2016

Non desta quindi sorpresa che si siano alzate numerose voci chiedendo al governo di legiferare sul tema, specialmente dopo la scoperta nel luglio dell’anno scorso di un traffico di donne surrogate.

Anche se l’India non ha nessuna legge che vieta di praticare la GPA, come ricorda il direttore di una clinica illegale nello Stato dell’Andhra Pradesh, Diwakar Reddy, citato da La Croix, un progetto di legge che vuole porre fine alla GPA a fini commerciali, la Surrogacy Bill 2016, attende ancora di essere presentato nel parlamento di Nuova Delhi.

Il governo guidato dal partito nazionalista indù BJP sarebbe propenso a riservare la pratica alle coppie sposate indiane, escludendo cioè gli stranieri, le persone singole, le coppie non sposate e quelle omosessuali. Il partito del Congresso, all’opposizione, ha parlato di un progetto “dell’età della pietra” e una commissione parlamentare l’ha definito “bigotto”, così riferisce La Croix.

La vicenda di Mitsutoki Shigeta

Anche in un altro Paese asiatico, questa volta la Thailandia, il tema della GPA è stato al centro dell’attenzione dei media. In particolare la vicenda di un cittadino giapponese, Mitsutoki Shigeta, ha suscitato clamore.

Il facoltoso ereditiere nipponico ha infatti ottenuto il 20 febbraio scorso da un tribunale a Bangkok la custodia esclusiva di 13 bambini avuti da madri surrogate thailandesi.

Per giustificare la sua decisione di affidare a Mitsutoki Shigeta “l’integralità dei diritti parentali”, il Central Juvenile Court della capitale thailandese ha invocato “la felicità” dei 13 bambini, anche per il fatto che l’uomo, figlio di un magnate, non ha una storia di “cattivi comportamenti”, scrive Le Temps.

Secondo il quotidiano svizzero, il caso di Mitsutoki Shigeta, che ha dichiarato di aver sempre sognato una famiglia numerosa, ha messo in evidenzia “le zone grigie” del mercato della procreazione medicalmente assistita.

Insieme con la vicenda di Baby Gammy — il bambino nato nel dicembre 2013 da madre surrogata thailandese e abbandonato dai suoi genitori biologici australiani perché affetto dalla sindrome di Down (o trisomia 21) –, il caso Shigeta ha spinto le autorità thailandesi a vietare nel 2015 la maternità surrogata per cittadini stranieri.

Dopo il no della Thailandia, il business della GPA si è spostato nella vicina Cambogia, dove a loro volta le autorità hanno deciso già nel 2016 di mettere al bando la pratica, perché ritenuta uno sfruttamento delle donne.

Ciò nonostante, la GPA sembra ancora diffusa nel Paese. Lo dimostra la notizia che il 23 giugno scorso la polizia cambogiana ha smantellato un traffico di donne surrogate nella capitale Phnom Penh, che portavano avanti una gravidanza per conto di clienti cinesi. Ad ogni donna era stato promesso un compenso di 10.000 dollari, così scrive il Guardian.




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Battaglia giuridica in Francia

Che la maternità surrogata possa sfociare in situazioni complicatissime e allo stesso tempo delicatissime, che esigono sentenze salomoniche, lo dimostra una battaglia giuridica in Francia, rivelata a fine giugno da Le Parisien e ripresa da La Croix.

L’incredibile vicenda inizia nel 2012, quando una coppia gay contatta attraverso un sito Internet una donna che si dichiara disposta ad affrontare una GPA. La donna accetta oltre ad un pagamento anche un’inseminazione “artigianale” con il seme di uno dei due uomini, Alexandre L.

La madre surrogata fa perdere però le sue tracce pochi giorni prima del parto e fa credere alla coppia omosessuale che il bambino sia nato morto. In realtà, il bébé è vivo e sta bene. La donna, del resto recidiva, l’ha semplicemente venduto ad un’altra coppia, questa volta eterosessuale.

Nel marzo 2017, un tribunale di Dieppe, nella Normandia, aveva dato ragione ad Alexandre L. e aveva deciso che il bambino, che attualmente ha cinque anni, doveva stare con il padre biologico.

Questa prima sentenza è stata ribaltata il 31 maggio scorso dalla Corte d’appello di Rouen, che privilegiando “l’interesse superiore” del bambino ha deciso che deve rimanere con la coppia eterosessuale, che l’ha cresciuto sin dalla nascita.

“L’intera questione di questo contenzioso è la conciliazione tra due principi che possono sembrare equivalenti: quello della verità biologica e quello di tener conto dell’interesse superiore del bambino”, così spiega a La Croix Jean-René Binet, professore della Facoltà di Diritto di Rennes e esperto nel diritto della bioetica.

Sempre in Francia, il quotidiano Le Monde ha pubblicato il 19 gennaio scorso una tribuna, nella quale una quarantina di personalità, fra cui il professor René Frydman, “padre” del primo bambino francese concepito in provetta, si dichiarano contrari alla GPA, definendola un  “mercato della persona umana”, che “colpisce oggi nel mondo le donne più vulnerabili”.

“Nessuno può ignorare che questa pratica fa parte di un mercato procreativo mondiale in piena espansione, che include, come in California, la vendita di sperma e ovociti”, così avvertono i firmatari. “Laddove esiste, questo mercato costituisce una nuova forma di appropriazione del corpo femminile.”

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