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Africa: torna lo spettro del debito estero

MINER

AFP PHOTO / GIANLUIGI GUERCIA

A rescued miner gestures out a bus window carrying some of the hundreds of miners rescued from the Beatrix gold mine shaft number 3 where nearly 1,000 miners were trapped underground following a power outage, in Theunissen on February 2, 2018. Hundreds of gold miners among almost a thousand trapped underground for more than a day in South Africa following a power-cut resurfaced on February 2, mining company Sibanye Gold said, as a rescue effort moved into full swing.

Paul De Maeyer - pubblicato il 03/07/18

Ma ci sono anche buone notizie: la Corte costituzionale del Belgio salva la legge contro i “fondi avvoltoio”

Sembrava debellato, ma adesso sta tornando. Stiamo parlando dello spettro del debito pubblico, che minaccia nuovamente tutta una serie di Paesi dell’Africa subsahariana.

A suonare l’allarme è Omnis Terra, la rivista e sito di approfondimenti e analisi a cura dell’Agenzia Fides — l’organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie, che dipende dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli –, che nel maggio scorso ha pubblicato un articolo firmato da Enrico Casale col seguente eloquente titolo “Debito estero in Africa: una spada di Damocle su milioni di poveri”.

Il meccanismo del debito

Infatti, dal 2007 — l’anno in cui scoppiò la crisi economica e finanziaria mondiale innescata da una “bolla immobiliare” negli Stati Uniti — al 2016, i prestiti concessi a Paesi detti “a basso e medio reddito” sono balzati da 57 miliardi di dollari a ben 260 miliardi di dollari, così rivela a sua volta il sito Reportdifesa.it.

Secondo un’analisi effettuata dall’organizzazione Jubilee Debt Campaign, con sede in Gran Bretagna, nel 2016 il pagamento dei debiti da parte dei Paesi più poveri al mondo ha conosciuto un’impennata del 50% rispetto agli anni 2014 e 2015 e ha raggiunto inoltre il livello più alto dal 2005, l’anno in cui i partecipanti al G8 di Gleneagles (Scozia) approvarono la Multilateral Debt Relief Initiative (MDRI).

A spingere l’infernale meccanismo del debito è anche questa volta la stessa combinazione di fattori che provocò già la crisi del debito di inizio anni Ottanta, Novanta e poi del Duemila: da un lato un calo dei prezzi delle materie prime, che a sua volta provoca una diminuzione delle entrate legate alla vendite delle stesse, e dall’altro un rialzo dei tassi di interesse negli USA, che si traduce in un dollaro più forte e quindi più caro. Siccome i prestiti vengono stipulati in dollari, la crisi è servita.

Infatti, per quanto riguarda il 2014, l’indice dei prezzi delle materie prime del Fondo Monetario Internazionale (FMI o in inglese International Monetary Fund)è calato di più del 40%, mentre il biglietto verde o dollaro statunitense ha visto aumentare il suo valore del 15%, ricorda Reportdifesa.it.


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I Paesi a rischio

Il fantasma del debito minaccia anche tre Paesi dell’Africa orientale, ossia Kenya, Uganda e Tanzania. Mentre in Kenya il peso del debito ha raggiunto quasi un terzo del Prodotto Interno Lordo o PIL (il 32%), in Uganda e Tanzania ha già superato la metà del PIL, ossia il 57% in Uganda e il 63% in Tanzania, scrive Reportdifesa.it, che riprende i dati forniti dal settimanale The EastAfrican (17 gennaio 2018).

Sorprende — ma solo fino ad un certo punto — la situazione dell’Uganda. Mentre solo tre anni fa il Paese aveva un debito di 6 miliardi di dollari, oggi è salito a 15,1 miliardi di dollari, quasi il triplo, così rivela sempre l’EastAfrican (23 marzo 2018). Il presidente Yoweri Museveni, al potere dal lontano 1986, ha investito infatti pesantemente in progetti di infrastruttura, grazie a prestiti concessi soprattutto dalla Cina, ormai onnipresente sul continente africano.

Il debito grava anche sullo Zimbabwe, dove è arrivato all’88% del PIL, e soprattutto sul vicino Mozambico. Nell’ex colonia portoghese il rapporto debito/PIL è del 299%.

Un altro esempio è l’Angola. Il Paese — attualmente il secondo produttore di petrolio dell’Africa subsahariana — ha ottenuto dalla Cina un prestito di sei miliardi di dollari. Ad un caro prezzo però: il prestito fa innalzare il livello di indebitamento dell’Angola dal 32% al 46% del PIL, osserva Enrico Casale su Omnis Terra.

Il sito Linkiesta.it, che parla della “morsa, lunga e sottile” da parte di Pechino, ha calcolato che ognuno dei 28 milioni di abitanti del Paese africano deve 745 dollari alla Cina. Il Paese più popoloso al mondo detiene inoltre più della metà del debito estero del Kenya (il 55%) e più di due terzi (il 70%) del debito pubblico bilaterale del Camerun.

Anche il primo produttore di greggio del continente, la Nigeria, ha problemi. Si teme infatti, continua Casale, che gli interessi sul suo debito estero possano superare nel 2019 le entrate provenienti dalla vendita di greggio.

Peccato che i fondi ottenuti non siano sempre stati investiti “in modo oculato”, scrive Casale. In Mozambico ad esempio un prestito di 2 miliardi di dollari è stato usato per l’acquisto di attrezzature di sicurezza inefficaci e inoltre per pescherecci che non hanno mai preso il mare.

E in Ghana, uno dei maggiori produttori di cacao al mondo, un prestito di 1,8 miliardi di dollari che doveva servire proprio per aumentare la produzione dei prelibati semi, si è “volatilizzato”. Il governo di Accra ha dovuto chiedere un aiuto all’FMI per poter pagare i suoi debiti.




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Il Belgio conferma il suo no ai “fondi avvoltoio”

Oltre a nuove iniziative che mirano ad una cancellazione del debito dei “Paesi poveri pesantemente indebitati” (i cosiddetti HIPC o Heavily Indebted PoorCountries), c’è anche un’altra importante novità.

La Corte costituzionale del Belgio ha infatti respinto il 31 maggio scorso un ricorso presentato dal fondo NML Capital, che chiedeva niente di meno che l’annullamento della legge approvata il 12 luglio 2015 all’unanimità (!) dal Parlamento belga, che mette i paletti all’attività predatoria dei cosiddetti vulture funds o “fondi avvoltoio”.

La legge belga “relativa alla lotta contro le attività dei fondi avvoltoio” impedisce a queste società finanziarie di ottenere rimborsi superiori al prezzo realmente pagato per acquistare titoli di debito pubblico di Paesi in default.

Con la legge del 2015, il Belgio ha applicato la raccomandazione 1870 del Consiglio d’Europa, che nel 2009 aveva attirato “l’attenzione dei governi sui rischi per gli Stati e i cittadini, in particolare nei Paesi più poveri, da parte di certe società finanziarie impegnate in operazioni di ristrutturazione del debito, che sono considerate vulture funds”.

La raccomandazione condannava “fermamente l’azione di questi fondi” ed invitava i Paesi membri del Consiglio d’Europa a “rafforzare il loro arsenale legale al fine di limitare l’azione” di tale fondi.

Renaud Vivien, consulente legale del Comitato per l’Abolizione dei debiti illegittimi (CADTM), ha parlato di una “sentenza storica”, frutto “di una lunga lotta politica e giuridica contro i fondi avvoltoio”. “Gli Stati — ha continuato Vivien — non hanno più scuse e devono adottare delle leggi simili a quella del Belgio per porre termine alla speculazione sui debiti.”

La Spagna potrebbe seguire l’esempio del Belgio. La nuova Plataforma Contra los Fondos Buitre riunisce infatti numerose organizzazioni e promette di lottare per l’adozione di una legislazione simile a quella belga.

L’obiettivo preferito dei fondi avvoltoio sono propri i Paesi africani. “Secondo i dati forniti dall’FMI, le somme ottenute dai fondi avvoltoio rappresentano tra il 12% e il 13% del PIL dei Paesi africani”, così si legge nel rapporto del Comitato consultivo del Consiglio per i diritti umani sulle attività dei fondi avvoltoio e l’impatto sui diritti umani, presentato nel luglio del 2016 da Jean Ziegler. Un dato senz’altro scioccante.

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