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Perché gli ammalati negli ospedali sono spesso diffidenti verso i preti?

Italian priest Aldo Trento visits patients – it

AFP PHOTO / Norberto Duarte

PARAGUAY, Asunción : Italian priest Aldo Trento visits patients on January 4, 2013, at the hospital he made build for poor terminally ill people in Asuncion. Trento was recently homaged by the Paraguayan Congress as Paraguayan citizen of honour due to his many charity acts. AFP PHOTO / Norberto Duarte

Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 02/07/18

La "colpa" è dell'unzione degli infermi. Come spiega il cappellano del "Sant'Andrea" di Roma

«Da circa un anno sono al “Sant’Andrea”, precedentemente sono stato vice parroco ad Ostia e a Villa Spada.Ovviamente svolgevo mansioni diverse da queste. Ho chiesto di essere mandato in un ospedale perché la considero una vocazione nella vocazione, pregare per chi soffre e con chi sta nella sofferenza era un mio grande desiderio».

Don Alberto Abreu è il Cappellano dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma. Ad In Terris (2 luglio) racconta perché è così complicata la missione di prete nelle corsie di un ospedale, molto più difficile della gestione di una comunità parrocchiale.

“Il sacerdote è lì per guarire lo spirito”

«C’è diffidenza – ammette Don Alberto – la figura del sacerdote in un luogo di sofferenza nell’immaginario collettivo prelude alla fine della vita, è un concetto evidentemente errato, che va sfatato. Il sacerdote è lì per guarire lo spirito prima di tutto. Si pensa sempre al corpo, per l’anima c’è sempre ‘tempo’, ma a volte non è così (…) L’esperienza della malattia non è mai fino a se stessa, ma è chiaro che per comprenderlo occorre lo sguardo della fede».

L’unzione

C’è un sacramento, in particolare, che Padre Alberto amministra quotidianamente ad ammalati e degenti.

«È l’unzione degli infermi (…). Erroneamente e popolarmente è chiamato ‘estrema unzione’ ma non è così, è il sacramento che si amministra ai malati anche non gravi, a tutti i malati. Per chi lo desidera, è per eccellenza il sacramento della guarigione, non smetterò mai di ripeterlo. Si amministra ai vivi non a chi non c’è più».




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Fine della vita

Questa ambiguità si genera perché si chiama il prete «quando una persona sta lasciando questa vita».

Invece, sottolinea il cappellano dell’ospedale, «andrebbe fatto prima, essendo un sacramento legato alla guarigione, ho avuto esperienza in tal senso. Pregando con fede e amministrando l’Unzione ci sono stati casi di miglioramento.Tutto è proporzionato alla fede e alla volontà di Dio ovviamente».

I familiari

Se una persona è credente, ma non è in condizioni di decidere cosa si fa «ci si affida alla decisione dei familiari, che troppo spesso sono fragili e temono che il congiunto alla vista del sacerdote possa avere timore della fine e a volte evitano, ma facendo così privano quella persona dei conforti religiosi, di una preghiera, pensano di lasciare in pace invece spiritualmente fanno un danno».

Un sacerdote, sottolinea Padre Alberto, «sa come comportarsi, è sensibile, sa come agire in certi casi, ma non si fidano, ritorniamo sempre alla paura».




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Il dono del Ministero

«Lo ripeto senza stancarmi – conclude il cappellano dell’ospedale Sant’Andrea – noi siamo presenti per recare sollievo, conforto, speranza nel nome di Gesù Cristo. Il Ministero Sacerdotale è una grazia immensa, i doni che il Signore elargisce ai sacerdoti sono innumerevoli, sono i carismi e, tra questi quello della guarigione e liberazione. Un sacerdote che crede nel suo ministero può guarire».

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