La "colpa" è dell'unzione degli infermi. Come spiega il cappellano del "Sant'Andrea" di Roma
«Da circa un anno sono al “Sant’Andrea”, precedentemente sono stato vice parroco ad Ostia e a Villa Spada.Ovviamente svolgevo mansioni diverse da queste. Ho chiesto di essere mandato in un ospedale perché la considero una vocazione nella vocazione, pregare per chi soffre e con chi sta nella sofferenza era un mio grande desiderio».
Don Alberto Abreu è il Cappellano dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma. Ad In Terris (2 luglio) racconta perché è così complicata la missione di prete nelle corsie di un ospedale, molto più difficile della gestione di una comunità parrocchiale.
“Il sacerdote è lì per guarire lo spirito”
«C’è diffidenza – ammette Don Alberto – la figura del sacerdote in un luogo di sofferenza nell’immaginario collettivo prelude alla fine della vita, è un concetto evidentemente errato, che va sfatato. Il sacerdote è lì per guarire lo spirito prima di tutto. Si pensa sempre al corpo, per l’anima c’è sempre ‘tempo’, ma a volte non è così (…) L’esperienza della malattia non è mai fino a se stessa, ma è chiaro che per comprenderlo occorre lo sguardo della fede».
L’unzione
C’è un sacramento, in particolare, che Padre Alberto amministra quotidianamente ad ammalati e degenti.
«È l’unzione degli infermi (…). Erroneamente e popolarmente è chiamato ‘estrema unzione’ ma non è così, è il sacramento che si amministra ai malati anche non gravi, a tutti i malati. Per chi lo desidera, è per eccellenza il sacramento della guarigione, non smetterò mai di ripeterlo. Si amministra ai vivi non a chi non c’è più».

Leggi anche:
Si può ricevere più volte il Sacramento degli infermi?
Fine della vita
Questa ambiguità si genera perché si chiama il prete «quando una persona sta lasciando questa vita».