Il cancro che lo ha colpito quando aveva 22 anni lui lo chiama «lo scarafaggio» e ne parla con coraggio, senza formalismi. «Ciò che mi dona speranza è la fede. E non me la prendo con Dio: chi gli dà la colpa per le malattie cerca solo un alibi»
di Francesca D’Angelo
Lui, al dolore, dà del tu. Guardandolo dritto negli occhi. Senza troppi formalismi. Se Fabio Salvatore ha riscosso così tanto successo come autore di libri è proprio per questo suo familiare piglio con la sofferenza, scevro di fatalismi e retorica. Nei suoi libri – dal bestseller Cancro non mi fai paura (editore Aliberti, 2008) al più recente Buio e luce(San Paolo, 2018) – Fabio parla della malattia esattamente come si farebbe con un parente poco simpatico, ma del quale si impara ad accettare la presenza. Perché fa parte della famiglia. Perché fa parte della vita. Questo “parente scomodo” accompagna Salvatore da ormai 20 anni, ossia da quando gli è stato diagnosticato un tumore alla tiroide. A questa convivenza si sono poi aggiunti, da lì a poco, la morte prematura del padre in un incidente stradale e, da qualche anno, la fibromialgia, sindrome invalidante che colpisce i muscoli e le strutture connettivali fibrose. Eppure lui non esita a definirsi un uomo fortunato. A ogni domanda, fatta in punta di fioretto, risponde in modo pacato, finendo per andare puntualmente a segno. Dritto al cuore.
La vita non sembra essere stata molto clemente con lei. Come fa a definirsi una persona fortunata?
«Solo se ci si ferma alla superficie si potrebbe pensare che la mia vita sia triste. Mi ritengo una persona fortunata perché sono un uomo che vive a pieni polmoni, che ama e che non vuole cadere nel tranello della non-vita».
A cosa allude?
«Si cade nel tranello della non-vita quando si smette di essere protagonisti della propria esistenza. Molte, troppe volte la vita ci passa accanto senza che noi ce ne rendiamo conto: viviamo con la testa bassa, senza alzare più gli occhi al cielo. Siamo diventati tutti una notifica, incastrati come siamo nel mondo dei social».
Non avrebbe però preferito essere scosso dal torpore esistenziale da una grande gioia, anziché da 20 anni di malattia?
«Ho un’idea molto semplice del dolore: càpita. Non lo scegli e nessuno te lo manda. Semplicemente accade, perché la vita è fatta anche di sofferenza. Anche per questo non me la prendo con nessuno, men che meno con Dio. Stento a credere che, nel 2018, qualcuno pensi ancora che Dio si alza al mattino decidendo di mandare una malattia a qualcuno».
Eppure c’è chi interpreta il dolore come una prova di Dio.
«Se accade è perché vogliamo qualcuno con cui prendercela. E usiamo Dio come alibi. Invece è fondamentale smetterla di piangersi addosso: suscitare o ricevere pietà non ci fa bene, anzi è quello che fa morire. Abbiamo invece bisogno di compassione, ossia di qualcuno che condivida con te il tuo cammino, la tua passione».