Intervista con Alberto Asor Rosadi Paolo Mattei
La letteratura italiana degli ultimi due decenni è «un panorama caotico», sono assenti i luoghi del dibattito letterario, gli editori sembrano condizionare troppo prepotentemente la libertà creativa degli scrittori, non esiste una lingua letteraria italiana del nostro tempo. Ecco un compendio di quanto Alberto Asor Rosa, docente all’Università La Sapienza di Roma, pensa della recente produzione letteraria nel nostro Paese. Sono osservazioni rilasciate a la Repubblica, a margine della recente pubblicazione del secondo volume del Dizionario delle opere (Einaudi), che rappresenta la conclusione di un lavoro che Asor Rosa (che da anni si occupa dell’intera storia della letteratura italiana, dalle origini ai giorni nostri) e i suoi molti collaboratori iniziarono diciotto anni fa: la Letteratura italiana dell’Einaudi.
Oltre a questo sguardo critico e realistico sullo stato attuale della produzione letteraria nostrana, desta curiosità la preferenza destinata da Asor Rosa a Dante tra gli autori che ha frequentato nelle sue letture dell’ultimo decennio. Un autore cristiano, vissuto sette secoli or sono, che egli considera il fondatore della letteratura laica moderna.
Abbiamo incontrato il professore e gli abbiamo rivolto alcune domande.
In una sua intervista recentemente pubblicata su la Repubblica lei afferma che da circa dieci anni la sua lettura preferita è Dante…
Io mi occupo da molto tempo di Dante e, in parte, questo è noto. Su un aspetto dell’opera del poeta fiorentino scrissi, qualche anno fa, un saggio, intitolato La fondazione del laico (nel volume delle Questioni della Letteratura italiana dell’Einaudi) nel quale spiego come Dante faccia intimamente parte – e anzi ne fondi alcune delle essenziali premesse – di quel processo dal quale nasce e si sviluppa la coscienza laica della cultura moderna. Per motivare questo tipo di approccio a Dante mi sono basato naturalmente su alcune opere, in particolare La vita nuova, Il convivio e il De vulgari eloquentia. La tesi potrebbe essere riassunta sinteticamente in questo modo: in Dante, e quindi in una struttura ideologica schiettamente medievale, comincia ad enuclearsi una serie di temi concernenti in modo peculiare i due motivi della lingua e dell’amore. Dante è il fondatore della grande tradizione laica della letteratura italiana moderna. Questi due motivi – lingua e amore – sono, secondo me, fondamentali per la comprensione di questo universo non teologico e non medievale, seppure nella matrice originale dell’uno come dell’altro motivo non è difficile individuare un’origine medievale. Da questo punto di vista si potrebbe considerare Dante l’artefice di un grande ed epocale passaggio. A partire da questo interesse, ho continuato a studiare Dante. L’ho studiato a lungo, anche se in modo non continuativo, affascinato dal tipo di esperienza poetica che, pur se originata da una matrice di carattere religioso, indicava una visione completamente laica della realtà.
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Non è la Monarchia l’opera di Dante in cui la sua “visione laica” della storia si esprime più evidentemente?
Sì. Però la Monarchia, di tutte le sue opere è, in un certo senso, la più “medievale”. L’analisi che in essa Dante opera dei fondamenti divini dell’esistenza umana e delle istituzioni che di questi fondamenti rappresentano l’estrinsecazione, rende questa opera peculiare rispetto alle altre, la situa storicamente e ideologicamente, in maniera radicale, nell’epoca medievale.
In un suo saggio del 1984 su Umberto Eco (The Middle Age in the Post-modern, ripubblicato in Un altro Novecento, La Nuova Italia, Firenze 1999) lei cita una lettera di Petrarca a Boccaccio nella quale il poeta aretino si lamenta dei vituperi di cui era fatto oggetto da parte di tintori e osti, i quali, all’opposto, amavano Dante. Perché questa grande distanza nella diffusione popolare tra le opere di due autori pure cronologicamente vicini?
Naturalmente il riferimento di Dante a Eco in quel saggio è volutamente ironico, anche se devo dire che l’impronta della formazione medievale di Eco è, a mio avviso, evidente. L’abitudine alla Scolastica è molto presente nel suo pensiero e, secondo me, anche nella sua semiotica.
Per ritornare a Dante, io penso che (anche se la cosa detta in questi termini può risultare approssimativa e imprecisa) egli si sia spinto più in là di quanto non abbia fatto Petrarca. In Petrarca vedo, in un certo senso, un passaggio all’indietro rispetto alle conquiste di Dante. Questo passaggio all’indietro consiste nell’aver abbandonato sostanzialmente l’ipotesi di una poesia completamente realistica – che Dante aveva perseguito – per scegliere invece la strada, che sarebbe stata dominante in Italia per secoli, della poesia coltivata per pochi. Quindi il fatto che Dante fosse apprezzato dai lanaioli, dai tintori, dagli osti, dai lottatori – cosa di cui in un certo senso Petrarca ha invidia, ma anche disprezzo – è secondo me il prodotto di una scelta fatta da Dante: la scelta “popolare”. Petrarca ha abbandonato la strada di una poesia orientata verso il “basso” e ha spostato, usando mezzi poderosi, l’indirizzo della nostra letteratura verso un impianto di poesia intenzionalmente aristocratico.
Lei, parlando di “scelta”, postula una piena autocoscienza, una completa consapevolezza nell’operare poetico di Dante e di Petrarca. Non sarebbe invece più corretto immaginare due scrittori posti inconsapevolmente sulle opposte sponde dell’ineluttabile divaricazione propria di ogni trapasso da un’epoca all’altra, la cui risultante è, in questo caso, un Dante naturaliter popolare e un Petrarca involontariamente aristocratico?
È certo che nella valutazione di fenomeni di questo genere bisogna sempre stare attenti a non imputare ai protagonisti un eccesso di soggettività. In questo caso però io credo che gli elementi soggettivi di autoconsapevolezza fossero molto importanti. Petrarca si pone come l’iniziatore di una nuova maniera che tiene conto del passato ma si pone degli obiettivi molto diversi. Questo, sia per quanto riguarda il Petrarca umanista, latino, sia per quanto riguarda il Petrarca più legato alla tradizione volgare, per intenderci l’autore del Canzoniere. Petrarca era consapevole di rivolgersi a un pubblico “alto”. Per Dante il discorso è più complesso. Però, se uno legge il Convivio, mi pare che possa cogliere la presenza di un’idea della cultura che invece di essere destinata ai salotti dei pochi scenda nelle piazze dei molti. La poesia di Dante, la grande poesia della Commedia, va al di là della ristretta cerchia dei letterati. In questo entra in gioco anche l’elemento religioso che in Dante è una delle componenti essenziali del suo rapporto con una massa più cospicua di pubblico.
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A Dante ha accennato il cardinale Ratzinger nel suo intervento di presentazione del documento sul mea culpa della Chiesa, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato. Ratzinger si è riferito all’allegoria del carro (Purgatorio XXIX-XXXIII), in cui il poeta descrive la presenza dell’Anticristo nella Chiesa. C’è in questo un profondo realismo, la chiara coscienza che la Chiesa non è immune dal peccato…
Non c’è effettivamente in Dante l’idea di una Chiesa pura, intatta dal peccato. E tra i tanti peccati di cui i pontefici – ospiti della terza bolgia descritta nel XIX dell’Inferno – potevano essersi macchiati nella loro terrena esistenza, Dante “sceglie” quello che gli sembrava il più grave, cioè il mercimonio delle cose sacre, la simonia, che nel carro allegorico del Purgatorio è raffigurata dal gigante e dalla meretrice. Non pensa all’incontinenza, ai peccati di carattere sessuale, sui quali trasvola. Evidentemente è questo che lo colpiva più di qualsiasi altra cosa. Traspare da questi elementi la figura di un Dante “libero pensatore”: quello che vedeva, lo raccontava senza timori. Non aveva nessuna difficoltà, quindi, a rappresentare quella situazione infernale relativa ai papi simoniaci. Il suo essere credente era assoluto sulle cose essenziali della fede, ma fortemente critico su tutto il resto. D’altronde era consapevole che ogni uomo è peccatore.
A proposito di questa consapevolezza di Dante, in un suo intervento su la Repubblica del gennaio 1999, La Chiesa trionfante senza umiltà cristiana, lei osservava come «il cristianesimo» ci ha parlato «della finitezza dell’uomo e della sua precarietà prima (e forse meglio) del pensiero laico moderno». In quell’articolo lei criticava l’immagine trionfante che oggi dà di sé la Chiesa, che, come una cittadella delle granitiche certezze, con il suo atteggiamento non umile impedisce ogni «possibile punto di convergenza» con i non credenti. Una Chiesa, insomma, che non parla più «della finitezza dell’uomo e della sua precarietà»…
Il pensiero cristiano è all’origine del pensiero laico moderno: quest’ultimo è una filiazione del pensiero cristiano, pur avendo rapporti forti anche con il pensiero classico. A un certo punto produce anche abiure. E questo fa parte della storia e della cultura europee. Il punto della riflessione è esattamente il seguente: in che misura il pensiero cristiano influenza, condiziona la genesi del pensiero laico? Se una connotazione del pensiero laico è la consapevolezza della limitatezza dell’uomo, penso che all’origine di questa visione critica nel mondo, tipica del pensiero laico, ci sia il senso cristiano della finitezza umana, dei limiti dell’operare e del conoscere umani. In questo senso a me pare che all’origine del pensiero laico moderno più che l’inarrivabile filosofia e l’inattingibile eredità dei classici ci sia, per intenderci molto sinteticamente, un pensatore come Agostino, che poi recupera anche tutto il pensiero classico, recupera Platone, recupera Socrate, recupera questa storia, diciamo così, “secolare”. D’altra parte, questa capacità inimitabile di abbracciare e comprendere tutto l’umano trova un ostacolo insormontabile in tutti quei momenti o in tutte quelle manifestazioni ecclesiali in cui l’elemento prioritario – che dovrebbe essere la consapevolezza della finitezza dell’uomo, del suo conoscere e del suo operare – viene sostituito da una visione trionfalistica della presenza dei cristiani nel mondo. Io, molto umilmente, mi sono “azzardato” a dire che questo è un momento in cui nella storia della Chiesa di Roma l’elemento trionfalistico prevale sull’umiltà del riconoscimento della precarietà dell’umano in tutte le sue espressioni.
Intervista precedentemente apparsa sul 30Giorni n°4 del 2000