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Etiopia-Eritrea: Finalmente speranze di pace dopo 20 anni di guerra

Dall’inferno dell’Eritrea

@DR

Paul De Maeyer - pubblicato il 24/06/18

Il presidente dell’Eritrea accetta la mano tesa dal nuovo primo ministro dell’Etiopia

E’ piuttosto raro che dal Corno d’Africa arrivino notizie incoraggianti. Le notizie che giungono da questa martoriata regione — una delle più povere del pianeta e inoltre spesso soggetta a carestie e siccità — raccontano spesso di eventi drammatici, come un nuovo gravissimo attentato in Somalia, lo scoppio di scontri tribali al confine tra il Kenya e l’Etiopia, o un riacutizzarsi del conflitto che oppone la piccola Eritrea (circa 6,5 milioni di abitanti) all’Etiopia (con più di 100 milioni di abitanti il secondo Paese più popoloso dell’Africa dopo la Nigeria).

Una sfida tra calvi per il possesso di un pettine

Ed è proprio da questo angolo di terra che questa volta arriva una notizia che fa veramente sperare. Il presidente eritreo Isaias Afewerki ha infatti annunciato mercoledì 20 giugno in occasione della “Giornata dei Martiri” di accettare la mano tesa dal primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed Ali, e che manderà una delegazione per colloqui di pace. Il capo di gabinetto di Abiy ha risposto dichiarando che la delegazione verrà accolta “calorosamente e con notevole buona volontà”, così riporta Reuters.

L’annuncio di Afewerki rappresenta senz’altro una svolta storica nelle relazioni tra i due Paesi “fratelli”, che da inizio maggio 1998 a fine maggio 2000 hanno combattuto una cruenta guerra di confine, definita da alcuni, come ricorda Il Corriere della Sera, “una sfida tra calvi per il possesso di un pettine”. Questa sarà la prima delegazione del genere dallo scoppio della guerra, conclusasi con la sconfitta dell’Eritrea e decine di migliaia di vittime, ricordano le fonti.

Si ignora infatti il numero esatto delle vittime causate dal conflitto fratricida. Mentre il governo di Asmara dichiara che 19.000 dei suoi soldati sono rimasti uccisi, stime più realistiche avanzano un numero totale di vittime da 70.000 a 80.000 per entrambe le parti coinvolte nella guerra di trincea. La violenza provocò inoltre almeno 650.000 sfollati interni. Nel 2000 l’Etiopia decise ad esempio di espellere 70.000 etiopi di origine eritrea, poiché ritenuti “una minaccia per la sicurezza nazionale”. I danni materiali, soprattutto alle infrastrutture eritree, erano ingenti.

Il gesto di pace di Abiy Ahmed

A suscitare la svolta è stata quindi l’iniziativa del governo del nuovo premier etiope Abiy Ahmed. Infatti, il politico riformatore nato da padre musulmano e da madre amhara cristiana ortodossa ha annunciato il 5 giugno scorso di voler accettare e attuare pienamente l’Accordo di Algeri, che nel dicembre 2000 aveva messo fine alla guerra tra i due Paesi.

Il primo politico sorto dal popolo Oromo a guidare il Paese ha dichiarato di accettare anche l’arbitrato dell’Eritrea-Ethiopia Boundary Commission (EEBC). Creata a L’Aja in seguito all’accordo di Algeri, questa commissione internazionale e neutrale aveva assegnato nell’aprile del 2002, con una decisione “finale e vincolante”, il conteso territorio di Badme all’Eritrea. A far scoppiare la guerra nel maggio 1998 era stata proprio l’occupazione di Badme da parte delle forze armate eritree.

Il gesto di Abiy non è arrivato del tutto inatteso. Il giorno del suo giuramento come primo ministro, il 2 aprile scorso, si era dichiarato infatti pronto a risolvere le contese con l’Eritrea e aveva lanciato sulla televisione di Stato etiope un appello per porre fine a “anni di incomprensioni”. “Invito il governo eritreo ad assumere la stessa posizione”, così aveva detto.

Non è l’unico gesto di distensione compiuto dal nuovo premier.

Ha incontrato vari esponenti dell’opposizione e a fine maggio è stato rilasciato in libertà assieme a quasi 600 altri detenuti anche il segretario generale del gruppo anti-governativo Ginbot 7, Andargachew Tsige, condannato a morte per “terrorismo”. All’inizio di giugno il governo ha anche annunciato la sospensione anticipata dello “stato di emergenza” proclamato nel febbraio scorso.

Nonostante tutto, la tensione rimane alta nel Paese. Lo dimostra l’attacco con una granata effettuato sabato 23 giugno ad Addis Abeba durante un comizio del primo ministro. Mentre fonti locali parlano di almeno una vittima e più di 150 feriti, Abiy ha attribuito l’attentato a “forze che non vogliono vedere l’Etiopia unita”.

Un cammino lungo e arduo

Non ci sono dubbi quindi che la mano tesa dal primo ministro etiope all’Eritrea è solo un primo, anche se importante passo, su un cammino che potrebbe essere lungo e arduo, anzi “sassoso”, come scrive Martin Plaut su African Arguments, e non solo perché rimangono ancora da risolvere varie questioni tecniche.

La decisione di Abiy di implementare l’Accordo di Algeri e di rinunciare ad esempio alla città di Badme non è ben vista nel nord dell’Etiopia, in particolare nella regione del Tigrè, che confina con l’Eritrea. Come riporta il sito Africanews.com, nei giorni successivi all’annuncio si sono svolte dimostrazioni di protesta nel distretto di Irob. Anche una formazione dell’attuale coalizione di governo, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF), ha criticato la proposta, definendola persino  “antidemocratica”, così riporta la BBC (14 giugno).

Anche nella città di Badme, dove vivono molti veterani etiopi della guerra, le reazioni sono negative. “Perché abbiamo combattuto per questo, allora? Per restituirla all’Eritrea? Tutto questo  sacrificio per niente?”, ha dichiarato un veterano. Per molti abitanti di Badme, continua Africanews.com, cedere la città all’Eritrea “è un insulto a vivi e morti”.

Anche per il presidente eritreo Afewerki, al potere dal lontano 1993, firmare una pace con Addis Abeba non è senza rischi politici interni. Il potere dell’uomo forte di Asmara “è stato fondato e si è rafforzato negli anni proprio sulla contrapposizione nei confronti del nemico a Sud”, ricorda Marco Cochi sul sito Eastwest.eu. Ma si tratta di rischi minimi, così continua l’africanista e docente presso la Link Campus University, se confrontati con i vantaggi sociali, politici ed economici, che deriverebbero da una pace.

Infatti, una pace definitiva con l’Etiopia permetterebbe all’Eritrea — uno dei Paesi più poveri al mondo, con un’aspettativa di vita alla nascita di appena 63 anni (83,49 anni in Italia (2015)) e un indice di sviluppo umano di 0,39 (l’Italia ha un ISU di 0,887) — di ridurre le spese per difesa e di eliminare la leva a tempo indeterminato, che secondo Amnesty International “ha creato una generazione di rifugiati”.

Dall’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR in sigla inglese), Global Trends. Forced Displacement in 2017, diffuso martedì 19 giugno scorso, emerge infatti che l’Eritrea si trova al nono posto nella classifica dei Paesi con il maggior numero di rifugiati: 486.200, di cui un terzo circa (164.600) ha trovato rifugio in Etiopia. Quest’ultimo Paese risulta al nono posto della classifica dei Paesi che ospitano il più alto numero di rifugiati: a fine 2017 erano ben 889.400.

Siglare la pace con l’Etiopia costituirebbe anche un “bonus” per l’Eritrea a livello internazionale. Il Paese, a volte chiamato “la Corea del Nord dell’Africa”, ha infatti una pessima reputazione per quanto riguarda i diritti umani. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha inflitto in varie occasioni delle sanzioni all’Eritrea, accusata di connivenza con vari gruppi ribelli nella regione del Corno d’Africa.

Non occorre dimenticare che entrambi i Paesi hanno combattuto una cosiddetta proxy war (guerra per procura) in Somalia, dove il regime di Asmara avrebbe appoggiato i famigerati miliziani di al-Shabaab. Quindi tutto il Corno d’Africa beneficerebbe di una pace definitiva tra Addis Abeba e Asmara. E questa è forse la notizia più bella.

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