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Quale genitore mette il figlio su un gommone?

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Maria Paola Daud - pubblicato il 21/06/18

Ce lo spiega la toccante poesia “Casa”, di un'immigrata somala

Warsan Shire è una giovane poetessa nata in Kenya ed emigrata quando aveva appena un anno insieme ai genitori rifugiati dalla Somalia a Londra.

Da bambina ha scoperto la passione per la scrittura, trovando un modo per esprimere i suoi sentimenti. È una delle poetesse preferite di Beyoncé, che l’ha invitata a partecipare al suo album visivo Lemonade, lanciato nell’aprile 2016.

Le sue poesie piene di emozioni e passione l’hanno portata a vincere il premio di poesia Brunel African Poetry Prize nel 2013, e nel 2014 è stata nominata prima Young Poet Laureate di Londra. I suoi versi sono stati tradotti in molte lingue.

Home

Home (Casa) è forse la sua poesia più emotiva, in cui racconta la propria esperienza, quella di una rifugiata. Siete di quelli che si chiedono che tipo di genitore mette il proprio figlio su un gommone? Leggete semplicemente questi versi.

Nessuno abbandona casa sua,
a meno che la sua casa sia la bocca di uno squalo.
Corri soltanto verso la frontiera
quando vedi che lo fa anche tutto il resto della città.
I tuoi vicini corrono più veloce di te,
respirano sangue nella gola.
Il bambino con cui sei andato a scuola,
che ti ha baciato fino a farti venire le vertigini,
dietro la fabbrica tiene in mano
un’arma più grande del suo corpo.

Abbandoni casa tua solo
Quando la tua casa non ti permette di restare.
Nessuno abbandona casa sua
A meno che la sua casa non lo perseguiti,
Fuoco sotto i piedi,
Sangue che ribolle nel ventre.
Non hai mai pensato di fare qualcosa del genere
Fino a quando hai sentito il ferro ardente
Minacciarti il collo.

E anche allora hai portato l’inno sotto il tuo respiro,
hai strappato il tuo passaporto nei bagni dell’aeroporto,
singhiozzando mentre ogni pezzo di carta ti faceva vedere
che non saresti mai tornato.

Devi comprendere che nessuno mette i propri figli su un gommone,
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.
Nessuno si brucia i palmi delle mani sotto i treni, sotto i vagoni,
nessuno passa giorni e notti all’interno di un camion,
nutrendosi di fogli di giornale,
a meno che i chilometri percorsi significhino
qualcosa di più di un semplice viaggio.

Nessuno striscia sotto le recinzioni,
nessuno vuole ricevere i colpi né fare compassione.
Nessuno sceglie i campi di rifugiati
o il dolore di cui si riveste il suo corpo nudo.
Nessuno sceglie la prigione,
ma la prigione è più sicura di una città in fiamme,
e un carceriere nella notte è preferibile
a un camion carico di uomini con l’aspetto di tuo padre.

Nessuno potrebbe sopportarlo, nessuno ne avrebbe il coraggio,
nessuno avrebbe la pelle abbastanza dura.
Tutti quegli “Andatevene a casa, negri”, “Rifugiati”, “Sporchi immigrati”,
“Cercatori di asilo”, “Volete rubarci ciò che è nostro”,
“Negri scrocconi”, “Avete un odore strano”, “Selvaggi”,
“Avete distrutto il vostro Paese e ora volete distruggere il nostro”.
Come si possono sopportare le parole, gli sguardi sporchi?

Forse si può perché questi colpi sono più leggeri
del dolore di un pezzo di sé che viene strappato.
Forse si può perché queste parole sono più delicate
di quattordici uomini tra le proprie gambe.
Forse si può perché gli insulti sono più facili da ingoiare delle macerie,
delle ossa, del tuo corpo di bambina fatto a pezzi.

Voglio andarmene a casa,
ma la mia casa è la bocca di uno squalo.
La mia casa è una polveriera,
e nessuno abbandonerebbe la sua casa
a meno che questa non lo perseguiti fino alla spiaggia,
a meno che la tua casa non ti dica di affrettare il passo,
di lasciare indietro gli abiti,
di trascinarti nel deserto,
di navigare solcando gli oceani.

“Naufraga, salvati, soffri la fame, supplica, dimentica l’orgoglio,
la tua vita è più importante”.
Nessuno abbandona la sua casa
fin quando questa non diventa una voce sudaticcia che ti dice all’orecchio:
“Vattene, corri lontano da me ora.
Non so in cosa mi sono trasformata,
ma so che qualsiasi luogo è più sicuro di questo”.

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