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Chi ha paura dei robot? Come cambia il lavoro… e le relazioni

ROBOT LAVORO

Shutterstock/Phonlamai Photo

Paul De Maeyer - pubblicato il 17/06/18

Ogni medaglia ha il suo rovescio, ma anche se desta preoccupazione l’automazione avanza in modo inarrestabile

“Macchine intelligenti stanno sostituendo gli esseri umani in innumerevoli compiti, costringendo milioni di operai e impiegati a fare la fila negli uffici di collocamento o, peggio ancora, in quelli dei servizi sociali”. [1] A lanciare l’allarme era nel 1995 il noto economista statunitense Jeremy Rifkin nel suo libro La fine del lavoro.

Sondaggi d’Oltreoceano

Oggi, circa due cittadini americani su tre, ossia il 65%, ritiene che tra cinquant’anni computer e robot “faranno gran parte del lavoro svolto attualmente dagli umani”, così rivela una ricerca pubblicata nel marzo 2016 dal Pew Research Center. Tra questi, il 15% circa è convinto che questo avverrà “sicuramente”, mentre il 50% pensa che avverrà “probabilmente”.

Lo stesso sondaggio rivela inoltre che a preoccuparsi per il futuro sono soprattutto operai che svolgono lavori fisici o manuali. Il 17% ad esempio teme che il loro datore di lavoro sostituirà il lavoratore umano con macchine o computer, mentre fra i dipendenti che non svolgono attività manuali ne è preoccupato solo un 5%.

A molti statunitensi questa transizione quindi preoccupa. Lo conferma un sondaggio condotto nel maggio 2018 dal Brookings Institution tra 1.535 internauti adulti. Mentre il 13% degli intervistati ha risposto che l’intelligenza artificiale (abbreviata IA o anche AI, dall’inglese Artificial Intelligence) non influirà sull’occupazione e il 12% è persino convinto che creerà lavoro, più di un terzo (il 38%) ha dichiarato che ridurrà invece i posti di lavoro.

Il 37% degli intervistati non ha risposto o ha risposto di non sapere. Rispetto alle donne, gli uomini si sono mostrati anche più propensi a dichiarare che l’IA riduce i posti di lavoro: il 42% dei maschi contro il 34% delle donne.

Inoltre quasi la metà degli americani, ossia il 49%, sostiene che l’AI riduca la privacy personale. Mentre il 34% non ha risposto o ha risposto di non sapere, poco più di un americano su dieci (il 12%) ha detto che essa non ha alcun effetto sulla privacy e il 5% ritiene che aumenterà la privacy. Anche per quanto riguarda questo aspetto gli uomini sono più inclini a rispondere che l’intelligenza artificiale riduce la privacy: il 54% dei maschi rispetto al 44% delle donne.

Molti esperti sono fiduciosi

Toni incoraggianti per il futuro del lavoro sono stati usati dai partecipanti ad una conferenza organizzata il 4 e il 5 giugno scorsi presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) a Cambridge (USA). Come sottolinea Tom Davenport su Forbes, figure come Tye Brady, direttore tecnico di Amazon Robotics, e Mellonie Wise, amministratrice delegata di Fetch Robotics, hanno rassicurato il pubblico. La Wise ha dichiarato ad esempio che i robot della sua ditta non hanno cancellato alcun posto di lavoro.

Anche se avanzano l’automazione e l’IA, in un modo o nell’altro il contributo umano sarà sempre richiesto. Ne è convinto l’economista canadese Joe Atikian, che offre alcuni esempi. Nei supermercati il numero di casse fai-da-te supererà presto quello degli sportelli automatici di banca, ma ciononostante quella di cassiere rimane una delle tre grandi mansioni più stabili, così osserva sul Globe and Mail l’autore del libro Industrial Shift: The Structure of the New World Economy. Idem per gli aerei di linea. Da decenni ormai sono pieni di sistemi informatici ed automatizzati, ma il cosiddetto “problema dell’ultimo miglio” preclude finora aerei commerciali autonomi. Importante, così conclude l’autore, è offrire assistenza a quei lavoratori che “irrimediabilmente” rimarranno emarginati dagli sviluppi tecnologici che aiuteranno tutti gli altri a progredire.

E l’Europa?

Per quanto riguarda il Vecchio Continente, l’Huffington Post presenta il caso della città inglese di Sunderland, che a causa dei robot rischia di perdere circa un terzo dei suoi posti di lavoro.

A lanciare l’allarme è stato nel gennaio scorso una ricerca del pensatoio indipendente Centre for Cities. Ciononostante Sunderland, dove si trovano tra gli altri gli stabilimenti della Nissan, è stata lodata dal presidente di TechUK, l’organizzazione che rappresenta quasi mille aziende del comparto tecnologico, “come la città che indica la via da seguire”.

La città ospita infatti un innovativo hub o centro tecnologico, chiamato Sunderland Software City, che attraverso il programma Go Reboot offre a giovani e meno giovani la possibilità di frequentare corsi di formazione e di riqualificazione professionale. “Per ogni posto di lavoro potenzialmente perso, c’è un posto di lavoro potenzialmente creato”, dichiara all’Huffington Post la responsabile della formazione professionale, Jill McKinney, che sottolinea l’importanza di “demistificare” il comparto tecnologico e digitale: sono settori come gli altri, non qualcosa da temere.

Uno studio pubblicato nel 2015 dalla nota azienda di servizi di consulenza e revisione Deloitte conferma questa visione ottimista, ricorda l’Huffington Post. La tecnologia ha infatti contribuito alla perdita di 800.000 posti di lavoro meno qualificati, ma allo stesso tempo ci sono le “prove evidenti” che essa ha permesso la creazione di quasi 3,5 milioni di nuovi impieghi più qualificati, così sottolinea lo studio.

Interessanti sono anche i dati emersi da una ricerca condotta per conto del Ministero per la Ricerca tedesco dallo Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (ZEW o Centro per la Ricerca Economica Europea), con sede a Mannheim. Da un lato, così spiega lo Spiegel Online, l’automazione dei processi produttivi ha sostituito nel periodo 2011-2016 il 5% della forza lavorativa tedesca, ma dall’altro lato questa perdita è stata pienamente compensata dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Infatti, dal 2011 al 2016 la digitalizzazione ha portato complessivamente ad un aumento dell’occupazione dell’1%, dichiara uno degli autori dello studio, Terry Gregory.

Un simile impatto lo aveva fatto registrare in passato l’introduzione della tecnologia dell’informatica e del computer, ricorda lo Spiegel. L’uso massiccio dell’elaborazione elettronica dei dati costò a molti impiegati e segretarie il posto. Tuttavia, secondo lo ZEW la computerizzazione ha fatto aumentare nel periodo 1995-2011 l’occupazione di quasi lo 0,2% su base annua.

L’altro lato della medaglia è che gli investimenti nelle nuove tecnologie hanno spinto  la disuguaglianza nel corso degli ultimi cinque anni. Infatti, così conclude la rivista, gli stipendi di professioni altamente retribuite sono cresciuti molto più rapidamente rispetto alle retribuzioni medie e basse.

Lo stesso argomento è stato anche sviluppato durante la sopracitata conferenza a Cambridge dal 93enne premio Nobel per l’economia (1987), Robert Solow. La più grande preoccupazione del noto economista del MIT è che i robot e l’intelligenza artificiale aumenteranno ulteriormente la disuguaglianza, “già sostanziale e in aumento”.

Sempre più onnipresenti

Mentre i robot e la cosiddetta “industria 4.0” rappresentano quindi una sfida sia per i governi e le imprese che per i lavoratori meno qualificati, i quali avranno maggiori difficoltà per riqualificarsi nel mercato del lavoro, essi costituiscono in certo senso un treno (anzi, forse meglio TAV) “da non perdere”. La stessa Unione Europea ha lanciato infatti nell’aprile scorso un ambizioso piano per sviluppare l’IA e per “recuperare il gap con USA, Cina e Giappone”, scrive il quotidiano online dell’economia digitale e dell’innovazione Corcom.it.

L’avanzata dei robot e dell’automazione è infatti inarrestabile. Lo dimostrano alcuni esempi. Il Giappone — il Paese del Sol Levante, che non solo è all’avanguardia per quanto riguarda l’automazione, ma deve anche fare i conti con una popolazione in calo e sempre più anziana — si prepara per accogliere en masse il fenomeno dei “badanti robot”. Il governo spera che entro il 2020 quattro anziani su cinque accetteranno di essere assistiti almeno in parte da robot, così segnala il Guardian, che si basa sul piano d’azione governativo New Robot Strategy. Japan’s Robot Strategy (2015). In questo modo, spiega il documento, il numero di infermiere e badanti che soffrono di mal di schiena “si ridurrà a zero” (p. 65).

Sempre in Giappone, gli ospiti di uno smart hotel a Hamamatsucho, nel centro della capitale Tokyo, vengono ormai accolti alla reception da robot umanoidi poliglotti, rivela Euronews.

E nelle sale operatorie di tutto il mondo, tra cui quelle Italiane, si è fatta strada la chirurgia robotica. Sviluppato quasi 20 anni fa, nel 1999, dall’azienda statunitense Intuitive Surgical, il robot chirurgico Da Vinci è presente ormai in una settantina di strutture sanitarie italiane. Il robot, ancora controllato a distanza da un chirurgo “in carne ed ossa”, viene utilizzato soprattutto negli interventi di prostatectomia, di rimozione di tumori dell’addome e dell’utero, scrive il sito robotiko.it.

Problematico e moralmente molto discutibile è un altro sviluppo: quello delle bambole robot del sesso [2]. Desta preoccupazione soprattutto la bambola Roxxxy, della ditta americana True Companion, che ha una modalità impostata per resistere alle avance del cliente. Secondo l’attivista Kate Parker, fondatrice dell’associazione Schools Consent Project, Frigid Farrah — così si chiama la modalità — normalizza la violenza sessuale e il sesso non consensuale. Anche per la robotica vale quindi il proverbio che ogni medaglia ha il suo rovescio.

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1] Traduzione propria dall’originale inglese.

2] Cfr. https://it.aleteia.org/2017/07/06/sesso-robot-rischi/

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