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Una giovane mamma paralizzata chiede al Signore un segno per portare la sua croce e…

Prova 02

©Simone Sanna

Silvia Lucchetti - pubblicato il 16/06/18

Il segno arriva con una telefonata del Papa che le dice: “Ho chiamato per consolare, sono stato consolato”

Oggi vi raccontiamo la storia di Natascia, moglie di Simone e mamma di Ilaria, Gabriele e Maria Giulia. La sua storia fa rabbia, piangere, ma lascia anche sbalorditi, gioiosi, speranzosi. Natascia convive con una grave disabilità da 6 anni, e in questa intervista ci racconta con generosità e autoironia la sua (dis)avventura e di come ha dovuto ricominciare tutto daccapo per continuare a vivere e ad amare.

Natascia eccoci qui, finalmente! Raccontaci tutto dall’inizio…

Per un problema legato al ciclo mestruale andai dal medico di base. Avevo la sensazione che il sangue restasse coagulato nella pancia, invece di uscire fuori e fluire bene. La mia dottoressa, che è una ginecologa, mi segnò per questo la pillola rassicurandomi che in pochi mesi si sarebbe tutto risolto. Me la prescrisse senza farmi fare nessun tipo di analisi prima. Purtroppo il mio era un problema genetico della coagulazione che ormai si era molto aggravato. Presi la pillola e mi venne una trombosi cerebrale.

Come accadde?

Io avevo allora già tutti e 3 i miei figli, pensa che altri 6 ce li ho in cielo. Soffrivo quindi di poli-abortività, ma nessuno si era messo in allarme, anzi avevo subito due cesarei e nelle mie condizioni non avrei potuto sottopormi ad interventi operatori senza la necessaria profilassi. Cominciai a prendere la pillola e dopo un mese – era appena nato mio nipote – andammo il sabato sera a messa: io e mio marito facciamo parte del Cammino Neocatecumenale. Quando tornammo a casa ricordo che svenni. Ripresi conoscenza in ospedale, completamente paralizzata a destra, non ero più capace di parlare e avevo la bocca tutta piegata da un lato. Oggi va molto meglio, non si nota così tanto a meno che non fissi le mie labbra, ma l’occhio destro purtroppo non vede più. All’inizio mi dissero che avrei recuperato, ma l’emiparesi con il tempo si è presto rivelata una emiplegia. Ho fatto molta logopedia e tanta fisioterapia del viso. In terapia intensiva non mi rendevo conto di quanto stessi male. Credevo di parlare correttamente e invece chi mi ascoltava non capiva ciò che dicevo, perché mugugnavo ma nella mia testa pensavo di esprimermi normalmente. Solo quando un giorno mi portarono una lavagnetta, finalmente capii. Dopo una serie di visite mi fecero lo screening trombofilico e diagnosticarono le cause della mia patologia.


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Hai denunciato la dottoressa?

No, non l’ho fatto. Anche se i medici mi dissero che potevo. Penso che il suo sia stato un errore umano. Grave, ma pur sempre un errore. Quante volte sbaglio anche io. Non ho voluto giudicarla, un giorno sarà il Signore a farlo. Si dice che il peccato genera peccato, allora l’ho rimessa alla volontà di Dio e nelle mie preghiere.

Come ti sei sentita dopo l’ictus? Chi ti è stato particolarmente vicino?

Prima di ammalarmi facevo lo chef, guadagnavo bene, aiutavo la mia famiglia e mi sono ritrovata improvvisamente in un mondo che non era il mio. Catapultata in una realtà difficile da spiegare e con cui ho dovuto imparare a convivere. Ma era la mia in quel momento. La malattia e la sofferenza spaventano, e infatti la mia famiglia di origine un po’ si è allontanata dopo la trombosi. Io prego sempre per loro. Mio marito Simone mi è stato continuamente vicino, è impagabile, e anche i miei fratelli di comunità. Il dolore non ha danneggiato il nostro rapporto di coppia, ma ci ha unito ancora di più. Non l’ho scelto io, Dio l’ha scelto per me e non poteva che essere una scelta azzeccata. Stiamo insieme da quando avevamo io 17 Anni e lui 23: sono passati 20 anni! Ad agosto festeggeremo 16 anni di matrimonio, e io sono ancora innamoratissima di lui.

Hai mai avuto momenti di grande sconforto?

Mi ricordo che ad un certo punto della malattia, quando avevo difficoltà a fare le cose per i miei figli, le faccende di casa che fa ogni mamma, mi misi in preghiera. Chiesi a Dio: “se è nella Tua volontà tutto questo, mi devi mandare un segno. Non voglio un alito di vento che entra in casa, la foglia che vola, il raggio di sole, io voglio un qualcosa che sia quasi uno schiaffo perché altrimenti non riesco ad andare avanti. La malattia mi spezza. Non ce la faccio a portare questa croce.
Incontrai poi una logopedista e ricordo che i primi esercizi furono davvero difficili, perché mi vergognavo. Non riuscivo a fare quello che mi chiedeva anche se mi seguiva con incredibile dolcezza. Dovevo imparare a scrivere con la mano sinistra e quindi cominciai come all’asilo: stanghette e cerchietti. Lei mi disse che se mi fossi posta un obbiettivo avrei imparato prima. In quel momento nel mio cuore nacque la voglia di scrivere a Papa Francesco. Sono già passati quattro anni da allora. Ricordo che usando la sinistra lo scritto non venne un granché, ma non mi andava di mandargli una di quelle lettere battute al computer o a macchina. Per questo scrissi a mano in un foglio a righe strappato dal quadernone di mio figlio.

Cosa hai scritto al Papa?

Gli scrissi che la malattia era venuta nella mia famiglia e che per assurdo mi aveva guarita. Avevo compreso che questa sofferenza mi stava facendo vedere la vita da un’altra angolazione: la prospettiva della sedia a rotelle. E mi ricordo che gli confidai anche che la mia famiglia di origine si era allontanata e che pregavo per loro. Nel post-scriptum gli lasciai il mio numero di cellulare: “So che lei si diverte a fare prendere i colpi alla gente, quindi le lascio il mio cellulare, poi veda lei…”. Diedi la lettera a un mio amico che lavora a San Pietro perché lui sapeva dove spedirla e a chi indirizzarla. Ricordo che andai in comunità e lo raccontai ai miei fratelli e al nostro sacerdote che mi disse: “Ascolta Natascia, se il Papa non ti risponde non rimanerci male, ha tante cose da fare”; io replicai: “guarda don Luca, questa risposta l’aspetto come quella di un amico e prima o poi sono certa che arriverà. Perché io l’ho chiesto al Signore”. Al riguardo mio marito mi prendeva in giro e mi diceva: “Si vabbè, mo’ il Papa scrive a te”.

La lettera arrivò al Santo Padre?

La lettera arrivò in Vaticano all’attenzione del Cardinal Comastri. Volle sapere tutto di me e della mia storia, mi è stato detto che depositò il mio scritto in uno degli scatoloni pieni di posta che il Santo Padre legge personalmente. Poi mi chiamò il parroco per dirmi che era arrivato un pacco per me da parte del Cardinale Comastri: c’era un suo libro sulla Vergine Maria con una dedica per me. Feci vedere il regalo a don Luca che subito mi disse: “Hai visto, il cardinale ti ha mandato questo regalo, adesso però non chiedere l’impossibile”, Io gli risposi: “A Dio niente è impossibile, no?”.

E poi cosa successe?

Era la domenica di Cristo Re, mi ricordo che eravamo stati da miei suoceri per poi tornare a casa nostra. Erano circa le otto di sera quando comincia a squillare il cellulare. Simone mi dice di andare a rispondere ma io dovevo levarmi il tutore e tutti gli attrezzi, sono una donna bionica e ci metto un po’ di tempo, quindi gli rispondo: “vai tu!” e lui: “e che cavolo! a questo telefono non rispondi mai!”. Pensavo fossero i soliti scocciatori con le offerte telefoniche… ma sento mio marito che dice “si si, Natascia, ora gliela passo”. Mi porta il telefono: “è per te, qualcuno con un accento strano”. Prendo il cellulare tutta scocciata e dico: “pronto!”, e dall’altra parte “Cercavo la signora Natascia”, lo interrompo irritata e dico: “sono io!”, e lui: “Io sono Papa Francesco”. Guardo Simone e gli dico “Simone non è la Tim è il Papa!”.




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Natascia che emozione! Che dono ricevere una telefonata dal Santo Padre. Tu cosa gli hai detto?

Ero felicissima e gli ho detto: “Che bello! Aspettavo da tanto la tua telefonata” e Simone dalla porta mi rimproverava: “non si da del tu al Papa!”. Una scena che se ci ripenso ancora rido. Il Pontefice mi disse che aveva davanti la mia lettera… e io lo interruppi dicendo: “Sì, le ho scritto per dirle che Dio mi ha fatto un dono con la malattia, perché sto sperimentando l’umiltà, la forza del perdono, la potenza della preghiera che arriva dappertutto”.E lui rispose:“Che bello parlare con te! Che bello sentirti dire queste cose. Ti ringrazio”. Non potevo crederci e dissi: “Sono io che ringrazio lei. Io sono una goccia nel mare e lei ha telefonato proprio a me”.E allora disse: “No Natascia, tu sei importantissima e sai perché? Perché in te c’è tutto ciò che rappresenta la passione di Gesù Cristo”. Queste parole le ricorderò sempre. Risposi che non mi sentivo tanto importante però, visto che lui era il Papa, io non ero nessuno per contraddirlo.“Senti Natascia qua leggo che tu hai 3 perle”, continuò lui. I miei figli li chiamo così perché ognuno ha la sua sfumatura, la sua personalità. Il Papa pronunciò i nomi dei ragazzi. Io ero in viva voce e allora loro si misero ad urlare: “Ciao Papa Francesco!” E lui: “Ciao perle! Ciao Perle!”. Questa cosa mi rimarrà sempre nel cuore, il Papa che gli diceva “ciao perle”. Poi gli passai Simone, altrimenti avrei rischiato una richiesta di divorzio da parte sua, e mentre parlavano vedevo che chinava la testa ogni volta che diceva “Sua Santità”, come se il Papa potesse vederlo. Scene da ridere! Prima di concludere la conversazione lo ringraziai della chiamata e lui mi disse una cosa che mi è rimasta nel cuore: “Ho telefonato per consolare, sono stato consolato”. Simone camminava a tre metri da terra. Io poi gli ho chiesto: “che vi siete detti tu e sua santità?”. Lui : “non me lo ricordo!”. Aveva parlato al telefono con il Papa e non ricordava la loro conversazione, tanto era emozionato. Questo era il segno che aspettavo da Dio, la robusta carezza che attendevo. Da quel momento mi sono completamente affidata al Signore, ho accettato la Sua volontà, ho trovato consolazione. Ma spesso è dura, è tuttora dura, se non avessi la comunità, la fede, il cammino, un marito che quando mi vede giù mi fa certe catechesi che solo per farlo stare zitto dico: “va bene va bene, hai ragione”.

La malattia ti ha insegnato l’umiltà, hai detto, puoi spiegarmelo?

Quando stavo bene lavoravo, guadagnavo, uscivo, pensavo di poter decidere tutto: la malattia invece ti umilia e proprio per questo ti insegna l’umiltà. E l’umiltà è un dono. Una cosa che non ti ho raccontato è che al Papa al telefono ho detto: “io questa croce vorrei portarla come l’ha portata Cristo. Cristo è caduto e si è rialzato per ben 3 volte, ma alla fine la croce se l’è baciata. E anche io con la stessa dignità di Cristo voglio portare la mia”. Per farlo ho bisogno di vedere la malattia con altri occhi: devo guardarla come se fosse una cosa che mi salva, che rende tutto più bello e vero. Non voglio avere il cuore di una persona che si arrende e si fa calpestare dagli eventi.

Quali sono le difficoltà della tua vita di tutti i giorni?

Da settembre non riesco più ad uscire di casa, vivo a Gallicano ed il comune non ha abbattuto le barriere architettoniche; mi è stato tolto anche l’alloggio dove tenevo la carrozzina elettrica. Ho dovuto riportarmela a casa. Questa è una grave mancanza della politica. Non posso più uscire da sola, se non con Simone le sole volte che può usufruire della 104. Quando potevo uscire e portare i bambini a scuola le persone che mi incontravano mi dicevano sempre: “ogni volta che ti vedo mi passa tutto, ogni preoccupazione, ogni pensiero”. La vita è vita. La prima cosa che feci quando tornai a casa dall’ospedale fu preparare il sugo ai miei figli. Simone voleva andare da mia suocera a prendere qualcosa da mangiare, e restò stupito del fatto che avessi cucinato. Allora dissi loro: “guardate che la vostra mamma non è una mamma a metà, prima faceva le cose con la forza, adesso le deve fare per forza con il cuore perché la forza non ce l’ha”.

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