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Il mio nome è Meriam: quando essere cristiana ti costa la vita, la famiglia e la libertà

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© ServizioFotograficoOR/CPP

Ary Waldir Ramos Díaz - pubblicato il 13/06/18

Avrebbe potuto porre fine alla sua sofferenza dicendo “Sì, mi converto all'islam”, ma ha preferito Cristo

Meriam Ibrahim Ishag appariva magra, più di quanto avrebbe dovuto essendo all’ottavo mese di gravidanza. I suoi occhi erano vitrei. Mentre leggeva la sentenza, il giudice Al-Khalifa ha sottolineato la magnanimità del suo tribunale di Khartoum (Sudan), che aveva concesso all’accusata tre giorni per rinunciare al cristianesimo. Lei si è rifiutata di farlo, e il giudice ha concluso che meritava un duro castigo per non essersi convertita all’islam.

Il caso della giovane sudanese di religione cristiana arrestata insieme al figlio piccolo dopo che un parente sconosciuto l’aveva denunciata per apostasia ha tenuto milioni di persone nell’incertezza per mesi.

Meriam è stata condannata a 100 frustate con l’accusa di adulterio per aver sposato un cristiano e alla morte per impiccagione per aver rifiutato di abiurare la fede cristiana.

Meriam ha partorito sua figlia in prigione, incatenata, ma ha continuato a lottare per la sua libertà, perché sapeva di essere innocente dalle accuse che le venivano mosse.

Non sapeva che stava diventando un simbolo della persecuzione dei cristiani nel mondo. Meriam a 27 anni è stata considerata da Papa Francesco una forte testimone della coerenza della fede (14/07/2014). La giornalista Antonella Napoli ha plasmato la storia della sua liberazione in un libro intitolato Il mio nome è Meriam (Piemme), che segue passo dopo passo questo dramma dal lieto fine.

Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, la Napoli guardando Meriam ha visto “una grande fede e una consapevolezza unica che Dio l’avrebbe protetta sempre”. La giornalista ha ricordato ad Aleteia i momenti più drammatici del supplizio giudiziario della giovane sudanese.

La Napoli ha abbracciato Meriam all’ambasciata degli Stati Uniti a Khartoum nelle ore interminabili trascorse prima che potesse uscire dal Paese con l’intermediazione del Governo italiano. Ha seguito il suo caso fin dall’inizio, nei primi mesi del 2014, e ha mediato per ottenere un’interrogazione al Parlamento italiano per la sua liberazione.

Alla fine Roma ha esercitato pressioni e ha fornito un aereo sul quale ha viaggiato il capo della diplomazia italiana come garante.

Rischio di morte per non aver abiurato

“Sono cristiana e mi chiamo Meriam”, ha detto la donna incinta di cinque e mesi e madre di un bambino di 19 mesi davanti a un giudice del tribunale di Khartoum, consapevole che ogni parola pronunciata l’avrebbe avvicinata a una condanna a morte. Accusata di apostasia e adulterio, poteva essere impiccata. Figlia di un musulmano, si era macchiata della colpa di aver sposato per amore un cattolico.

“Meriam avrebbe potuto porre fine a tutta quella sofferenza dicendo semplicemente: ‘Sì, mi converto all’islam’… La sua fede è davvero immensa. Parla poco, ma ha una grande forza spirituale”, ha affermato la giornalista. “Nonostante la malattia e la sofferenza, Daniel non le ha mai chiesto di rinnegare la sua fede in Cristo. Ha trovato un sostegno importantissimo nel marito”.

Meriam Yehya Ibrahim Ishag è stata alla mercè di un tirbunale retto dalla sharia (legge islamica) in Sudan. Viveva in una Nazione con una Costituzione che garantisce la libertà di culto, ma c’è un vuoto legislativo e giudiziario che lascia entrare dalla finestra il fondamentalismo.

Il giudice, trattandola con sospetto, le ha letto l’accusa del tribunale e il verdetto: condanna a morte. Incinta, è stata trattata come una delinquente pericolosa e incatenata alla caviglia. Sua figlia Maya è nata in prigione. La Corte d’Appello del Sudan l’ha dichiarata innocente nel giugno 2014, dopo una battaglia legale intrapresa dal suo avvocato Mohamed Mustafa al Nour, e l’aiuto di vari attivisti, come la Napoli.

La battaglia è stata promossa dall’associazione nata nel 2005 Italians for Darfur, da Amnesty International e dal Governo italiano, e ha contato sulle pressioni della Chiesa cattolica.

Accusata dalla famiglia paterna, Meriam, che non ha mai conosciuto suo padre perché l’ha abbandonata, è stata educata nella fede cristiana dalla madre, una donna ortodossa di nazionalità etiope.

È sposata con Daniel, sudanese rifugiato negli Stati Uniti che è tornato nel suo Paese e l’ha conosciuta in una chiesa cattolica.

Lieto fine e abbraccio con Papa Francesco

La Napoli ha riferito ad Aleteia l’attenzione speciale che Papa Francesco ha dedicato a Meriam e alla sua famiglia, anche nell’udienza privata in Vaticano del 14 luglio 2015.

“È rimasta sicuramente molto colpita dalla grande umanità dimostrata dal Papa”, ha indicato la giornalista.

L’udienza è stata un gesto di Papa Francesco per esprimere vicinanza, attenzione e preghiera nei confronti dei cristiani che subiscono persecuzione o limiti alla loro libertà religiosa.

“Quando si sono salutati alla fine dell’udienza, il Papa è rimasto sulla porta di Santa Marta, la residenza in cui abita, finché Daniel (il marito di Meriam), sulla sedia a rotelle per una distrofia degenerativa, è stato accomodato in automobile”. Il Pontefice è rimasto a salutarli finché i suoi ospiti non si sono allontanati.

Nell’udienza del 20 maggio 2015, il Papa ha ricordato che esistono “tanti fratelli e sorelle esiliati o uccisi per il solo fatto di essere cristiani” e li ha definiti “martiri”, auspicando una maggiore consapevolezza del fatto che “la libertà religiosa è un diritto umano inalienabile” perché “aumenti la sensibilizzazione sul dramma dei cristiani perseguitati nel nostro tempo e si ponga fine a questo inaccettabile crimine”.

Una nuova vita negli Stati Uniti

La diplomazia della Santa Sede ha avuto un ruolo discreto e costante nella liberazione di Meriam. “C’è stata sicuramente una richiesta molto forte da parte dei vescovi del Sudan e del Sud Sudan (dove vive la maggior parte dei cristiani), e la Santa Sede è stata in contatto con il Governo di Khartoum ricoprendo un ruolo importante, ma è stata soprattutto la diplomazia italiana a rendere concreti gli sforzi diplomatici per la liberazione”, ha confermato la Napoli.

Meriam è arrivata nel New Hampshire (Stati Uniti) insieme al marito Daniel Wani (sudanese rifugiato politico negli USA) e ai loro due figli: Martin, di 3 anni, e Maya, di 10 mesi.

“È stata fortunata perché ha trovato una comunità sudanese molto consistente lì. La sostengono anche varie organizzazioni locali a favore dei diritti umani e delle associazioni cattoliche. Ora hanno una casa più grande grazie ai servizi sociali. I bambini hanno la Green Card, mentre lei aspetta di ricevere la cittadinanza perché la minaccia fondamentalista non è scomparsa”.

La famiglia paterna di Meriam ha infatti presentato un appello al tribunale di Khartoum per farla rimpatriare e giudicare nuovamente in Sudan.

“La sentenza della causa d’appello dei familiari è ancora pendente”. Gli avvocati di Meriam stanno intentando una causa più ambiziosa per cancellare il crimine di apostasia presso la Corte Costituzionale del Paese afro-arabo “perché nessuno passi più per questo tormento”, visto che quello di Meriam non è un caso unico.

L’incubo, però, non finisce. È in atto un esodo di cristiani dal Sudan e dal Sud Sudan (la Nazione a maggioranza cristiana resasi indipendente dal Governo islamico di Khartoum), e una nefasta normalità mescola chiese demolite, minacce di morte e persecuzione.

Chi resiste restando dalla parte della frontiera a maggioranza musulmana rischia la vita. La Napoli racconta che attualmente ci sono due pastori evangelici in carcere per via della loro fede.

Peter Yein Reith, pastore sudanese di una Chiesa presbiteriana nella capitale del Paese, è stato arrestato insieme alla moglie e al figlio di un anno. La Polizia è andata a cercarlo dopo che aveva celebrato il culto. Lo stesso è accaduto al pastore Yat Michael, arrivato a Khartoum con i figli per curarsi. Era stato invitato a pronunciare un sermone in una chiesa semidistrutta ed è stato arrestato per aver attentato contro la pace pubblica. In entrambi i casi, dopo il processo sono stati rimessi in libertà, ma non possono abbandonare il Paese e sono ancora in pericolo.

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