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La spiritualità cristiana, un orientamento per la famiglia

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Philippe Lissac / Godong

Anselm Grün - pubblicato il 13/06/18

Come educare i bambini alla luce della fede, della speranza e dell'amore

FEDE. Avere fede non significa soltanto credere in Dio, ma anche nell’uomo. La fede in Dio può rappresentare un sollievo nell’educazione. Faccio ciò che è in mio potere ma smetto di chiedermi continuamente se i miei metodi educativi siano perfetti o se non stia per caso nuocendo a mio figlio. Faccio ciò che posso e confido che il mio operato sia benedetto, anche se commetto degli errori. Che i metodi educativi che adottiamo siamo quelli giusti è impossibile dimostrarlo. C’è un’unica certezza: l’incertezza del risultato. Perciò l’educazione è innanzitutto e soprattutto rapporto. Dobbiamo instaurare un rapporto con i figli e fidarci dei nostri sentimenti.

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Spiritualità nella famiglia significa credere che il mio bambino sia unico, cercare di immedesimarmi in lui per scoprire sempre più questa immagine originale. Corriamo continuamente il rischio di proiettare sui figli immagini nostre che però ne offuscano la singolarità e impediscono loro di crescere in quell’unicità che Dio gli ha destinato.

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Credere significa osservare nostro figlio chiedendoci: che cos’ha di speciale questo bambino? Che cosa trasmette con i suoi sentimenti? Come reagisce? Che cosa lo tocca? E anche qui è necessario il silenzio per liberarci delle immagini, spesso inconsce, che attribuiamo al bambino e aprirci alla sua unicità e particolarità.

Il battesimo ci ricorda a più riprese che il bambino è figlio di Dio. Quando durante la cerimonia gli viene cosparso il capo di acqua significa che viene pulito da tutto il torbido con cui lo appesantiamo proiettando su di lui i nostri desideri e le nostre idee. Il battesimo non serve soltanto al bambino ma anche ai genitori. Ricorda loro che devono abbandonare le aspirazioni che s’insinuano nel rapporto con i figli. Il battesimo ha anche un altro aspetto importante perché si dice del bambino; “Tu sei il mio figlio diletto. Tu sei la mia figlia diletta. In te mi sono compiaciuto”. Karl Friedlingsdorf ha scritto un libro, intitolato Vivere, non sopravvivere, nel quale sostene che molti figli ricevono dai genitori un riconoscimento condizionato della loro esistenza: “Puoi esistere se fai il bravo, se combini qualcosa, se hai successo, se non mi dai problemi”. Se il bambino sente che la sua esistenza è condizionata, si adegua totalmente pur di essere amato. Fa sempre di più per essere apprezzato. Questo però è sopravvivere, non vivere davvero. La vita vera presuppone il diritto di esistere senza condizioni, l’accettazione incondizionata da parte dei genitori e delle altre persone di riferimento. Il battesimo ricorda ai genitori (e non solo a loro) di accettare e amare incondizionatamente i figli.

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Avere fede in un bambino significa però anche qualcos’altro. Una volta Romano Guardini ha detto: “Alla nascita di ogni uomo Dio pronuncia una parola d’ordine che vale soltanto per quell’individuo. E il compito di quell’uomo è di far percepire in questo mondo la parola unica che Dio ha detto a lui soltanto”. Avere fede in un bambino significa quindi ascoltare ciò che Dio vuole dirci per suo tramite.

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Molti genitori di bambini disabili o “strani” all’inizio sono scioccati. Hanno paura di non sapere come prendere l’handicap del figlio o che l’intera famiglia abbia a soffrirne. Eppure spesso hanno dovuto constatare che il bambino disabile è una benedizione per tutti. Ha in sé qualcosa che fa bene alla famiglia. Il figlio disabile non è soltanto il povero bambino di cui ci si deve prendere cura. In lui è racchiusa anche una grande ricchezza. Avere fede significa scoprire questa ricchezza ed esserne grati.

SPERANZA. Senza speranza non si può essere padri o madri. La speranza, però, è diversa dall’aspettativa. Il bambino può deludere le aspettative: quella che sia bravo a scuola, per esempio, ma anche quelle più profonde riguardanti il successo nella vita. La speranza non può essere delusa. Sperare – dice il filosofo francese Gabriel Marcel – significa: io spero per te. Spero in te. Sperare significa che non abbandono mai mio figlio, che so aspettare. Avere fede significa credere nel fondo di bontà di un figlio. Avere speranza vuole dire sperare che sbocci, che cresca sempre più nella sua unicità e che la sua sia una vita riuscita.

Della speranza san Paolo dice: “Ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza”. Per un figlio speriamo ciò che non vediamo. La speranza, infatti, palesa l’invisibile. E’ una forza che avvia un movimento nel bambino e può dare pazienza ai genitori, cosicché non disperano subito se commette sempre gli stessi errori, se apparentemente non fa progressi, se ancora non inizia a parlare. La speranza concede al bambino uno spazio nel quale potersi sviluppare e una prospettiva del futuro che infonde speranza anche in lui: vala la pena di vivere.

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I bambini dispongono di grandi risorse, sono spesso molto creativi e non di rado sanno trovare soluzioni. E avvertono chiaramente se ci si fida di loro oppure no. Talvolta i genitori temono che i figli possano ammalarsi o prendere una brutta china. “La speranza annega la paura” dice Ernst Bloch. E Verena Kast, che, dal punto di vista della psicologia, descrive la speranza come una forza terapeutica, ritiene che “nell’uomo la speranza viene prima della paura, per cui può scegliere attivamente di sperare”. Sulla porta dell’Inferno Dante ha scritto: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. L’inferno è la dove non c’è speranza. Se i genitori non la trasmettono ai figli, se loro stessi ne sono privi, per i bambini è l’Inferno. Vivono in uno spazio senza speranza, senza luce, senza vita.

AMORE. I genitori amano i figli, i quali però spesso strapazzano questo amore. Soprattutto nei primi anni ai genitori si chiede tantissimo: è il bambino a determinare il ritmo delle giornata, li priva del sonno ed esige attenzioni ventiquattro ore su ventiquattro. E poi c’è la delusione di vederlo timoroso, insicuro o addirittura incline a comportamenti distruttivi. Non era così che si erano immaginati l’educazione di un figlio, raccontano tanti genitori, più o meno stressati e snervati.

Due strade appaiono importanti qui, affinché l’amore sia stabile. La prima è una via spirituale: confido nel fatto che ci sia in me una fonte di amore che non si esaurisce mai. E’ la fonte dello Spirito Santo che, per dirla con le parole di san Paolo, è riversato nel nostro cuore sotto forma di amore. Se mi sembra di non averne più cerco di entrare in contatto con questa fonte che sgorga dentro di me e l’amore scorrerà anche nelle situazioni difficili. E’ più di un sentimento. E’ una sorgente di forza che mi rende capace di accettare incondizionatamente mio figlio e di trattarlo bene. Avere fede significa vedere il buono che c’è in un bambino. Amare significa trattarlo bene. Posso amare mio figlio soltanto se credo nella sua unicità e nelle sue capacità.

La seconda strada per rinnovare l’amore in noi stessi è quella di prendere sempre sul serio proprio i sentimenti sgradevoli. Talvolta nei confronti di un figlio non si prova soltanto amore, ma aggressività. Conosciamo tutti dei genitori che si muovono accuse se sono aggressivi nei confronti dei figli. Sono genitori che hanno per lo più un’idea perfezionistica dell’amore. Amore e aggressività, però, vanno insieme. L’aggressività ha la funzione di regolare il rapporto tra vicinanza e distanza. Se una madre prova aggressività nei confronti del suo bambino, è sempre un invito a prendersi cura di se stessa. Ha bisogno di un maggior distacco dal figlio, ha bisogno di tempo per sé. Se però ha un ideale spirituale inadeguato penserà: “Devo provare sempre lo stesso amore per mio figlio”, reprimere l’aggressività e rimarrà delusa ogni volta che si ripresenta. L’aggressività repressa può allora manifestarsi nella paura irrazionale di poter fare del male al figlio. Una madre mi raccontava che, quando in cucina maneggiava un grosso coltello, era assalita dal timore di pugnalare e ferire il bambino. Naturalmente anche questa madre amava suo figlio, ma presumeva che l’amore dovesse essere assoluto. Perciò aveva totalmente represso l’aggressività nei suoi confronti, che riaffiorava in quelle paure ossessive. Se questa madre abbandonasse l’ideale dell’amore assoluto potrebbe accettare ed elaborare la propria aggressività, la cui unica funzione è quella di ricordarle che ogni tanto ha bisogno di un po’ di tempo da dedicare a se stessa per poter affermare la propria autonomia nei confronti del figlio. Se la nostra vita non è improntata a un spiritualità sana, questa si manifesta spesso in pretese eccessive verso noi stessi. Pretendiamo allora di essere capaci di un amore assoluto. Soltanto Dio, però può avere in sé qualcosa di assoluto. E se non abbiamo un’immagine di Dio, ci facciamo Dio noi stessi per i nostri figli pensando di dover far sentire loro che siamo sempre lì, che possiamo tutto, che siamo in grado di trasmettere loro una sicurezza e una protezione assolute.

All’inizio i bambini concepiscono spesso i genitori come divinità onnipotenti. Ben presto però questa immagine s’incrina e li vedono nella loro limitatezza. L’educazione (religiosa) consente ai figli di spostare le proiezioni divine dai genitori a un essere superiore in grado di offrire protezione e amore assoluti. La fede in Dio aiuta il bambino ad accettare la detronizzazione dei genitori e a godere con gratitudine del loro amore limitato.

[TESTO TRATTO DAL VOLUME DI ANSELM GRÜN E JAN-UWE ROGGE, “LE DOMANDE DEI BAMBINI SU DIO” (LINDAU)]

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