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Tonache per sacerdoti fatte di plastica riciclata: le Chiese e la sfida dell’inquinamento

PRIEST COLLAR
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Paul De Maeyer - pubblicato il 10/06/18
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La lotta per la preservazione del creato diventa un impegno ecumenico sempre più concretoLa Chiesa d’Inghilterra aderisce alla battaglia contro la plastica. A riferirlo è il Telegraph in un articolo pubblicato il 26 maggio scorso.

Come racconta il quotidiano londinese, la ditta di abbigliamento ecclesiastico Butler & Butler ha infatti lanciato la prima tonaca in fibra di poliestere di qualità ottenuta al 100% da bottiglie di plastica riciclate.

La sartoria, molto sensibile alla tematica del commercio equo-solidale o fair trade, ottiene il tessuto, che è più soffice del poliestere tradizionale, dall’India.

La sfida: aumentare la consapevolezza

L’idea di produrre abiti ecclesiastici in plastica riciclata è nata in seguito all’enorme interesse suscitato dalla serie di documentari The Blue Planet (Il pianeta blu) della BBC, nella quale il noto naturalista e presentatore inglese David Attenborough si sofferma su vari aspetti della vita marina, fra cui anche l’impatto dell’attività umana e della catastrofe-plastica sugli ecosistemi pelagici.

Già in occasione della scorsa Quaresima la Church of England si era fatta promotrice della campagna anti-plastica, invitando i fedeli — come sorta di “fioretto ecologico” — a rinunciare al consumo di manufatti in plastica.

Secondo la responsabile per le politiche ambientali della Chiesa d’Inghilterra, Ruth Knight, citata dal sito BBC News, l’obiettivo della Lent Challenge — così si chiamava la campagna quaresimale — era di “aumentare la nostra consapevolezza di quanto dipendiamo dalla plastica monouso e mettersi alla prova per vedere dove possiamo ridurre questo uso”.

L’impegno di Papa Francesco

Con le sue iniziative ambientali la Chiesa d’Inghilterra è in ottima compagnia. Infatti, nella sua lettera enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune (2015) il papa Francesco ha sottolineato l’importanza di ciò che chiama “l’educazione alla responsabilità ambientale”, la quale “può incoraggiare vari comportamenti che hanno un’incidenza diretta e importante nella cura per l’ambiente, come evitare l’uso di materiale plastico o di carta, ridurre il consumo di acqua, differenziare i rifiuti, cucinare solo quanto ragionevolmente si potrà mangiare, trattare con cura gli altri esseri viventi, utilizzare il trasporto pubblico o condividere un medesimo veicolo tra varie persone, piantare alberi, spegnere le luci inutili, e così via” (211).

Del resto in occasione della I Giornata Mondiale dei Poveri il Pontefice ha incontrato, nel novembre scorso, i fondatori della Plastic Bank, David Katz e Shaun Frankson, che hanno messo a punto un sistema (con apposita app) per raccogliere la plastica finita negli oceani e convertirla in moneta sonante destinata alle popolazioni più povere.  

Una montagna di  8,3 miliardi di tonnellate di plastica

Nonostante la sua enorme praticità e utilità nella vita quotidiana, la plastica è un materiale molto problematico dal punto di vista ambientale. Da uno studio guidato da Roland Geyer, della University of California, Santa Barbara (UCSB), emerge ad esempio che l’uomo moderno ha prodotto nel corso degli ormai ultimi 65 anni una montagna di plastica di ben 8,3 miliardi di tonnellate, di cui più del 70%, ossia 6,3 miliardi di tonnellate, sono diventate rifiuti.

Di questa enorme mole, ogni anno circa 8 milioni di tonnellate — si tratta di uno scenario “medio” — finiscono in mare, con tendenza in aumento, così rivela un’altra ricerca pubblicata nel febbraio del 2015 sulla nota rivista Science. Infatti, così avvertono gli autori dello studio, se non si interviene, entro il 2025 ben 17,5 milioni di tonnellate annue potrebbero finire negli oceani.

L’impatto di tutta questa massa di plastica è enorme. Nei mari e oceani del nostro pianeta — mar Tirreno incluso — si sono formate vere e proprie isole di plastica, di cui il Pacific Trash Vortex è forse l’esempio più eclatante.

Secondo i dati della fondazione olandese Ocean Cleanup (tradotto “La pulizia dell’oceano”), questa enorme chiazza di rifiuti che si sono accumulati a metà strada circa tra le coste californiane e quelle delle Isole Hawaii, non solo è grande quanto tre volte la superficie della Francia, ma anche 16 volte più alta di quanto pensato in precedenza. Mentre i manufatti più grandi (cioè dai 50 centimetri in su) costituiscono circa la metà di questa “brodaglia” (il 53%) — fanno impressione le immagini di animali rimasti impigliati nelle reti da pesca abbandonate o morti dopo aver ingoiato plastica [1] –, spaventa la cifra delle cosiddette microplastiche: sono 1,8 trilioni di pezzi. Non solo sono micidiali per la fauna marina ma finiscono inoltre nella catena alimentare, e quindi, prima o poi, sulle nostre tavole.

La catastrofe-plastica ha raggiunto anche i mari dell’oceano Artico. Lo confermano infatti i dati raccolti tra la primavera del 2014 e l’estate del 2015 dai ricercatori dell’Alfred-Wegener-Institut (AWI) di Bremerhaven, in Germania, durante tre spedizioni a bordo della nave da ricerca e rompighiaccio Polarstern. In un solo litro di ghiaccio artico — così hanno scoperto — si possono celare più di 12.000 microframmenti di plastica. Molti sono infinitesimamente piccoli, appena 11 micrometri, ossia un sesto circa di un capello umano, il cui diametro varia tra i 65 e i 78 µm.

“Le particelle più piccole possono facilmente venir mangiate dai microrganismi artici come i ciliati (Ciliophora, ndr), ma anche i copepodi”, avverte Ilka Peeken, coautrice dello studio e ricercatrice dell’AWI.

Il cancro delle spiagge

Da un’altra ricerca, questa volta dell’ENEA — l’Agenzia italiana per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile –, emerge che l’80% dei rifiuti raccolti sulle spiagge del “Bel Paese” è costituito da plastica. Secondo le stime, almeno 100 milioni di cotton-fioc — i famigerati bastoncini ovattati per la pulizia delle orecchie — inquinano le spiagge italiane.

Occorre quindi agire. A questa conclusione è giunta anche la Commissione Europea, che ha proposto lunedì 28 maggio una nuova direttiva destinata a mettere al bando o ridurre vari tra i più diffusi e inquinanti manufatti di plastica monouso, dalle cannucce per bibite e posate di plastica usa e getta, ai già menzionati cotton fioc e persino i bastoncini per i palloncini. Mentre è prevista anche una stretta sulle bottiglie di plastica, introducendo un sistema di vuoto a rendere, e sulle reti da pesca, è nelle intenzioni di Bruxelles far concludere l’iter legislativo entro le prossime elezioni europee, programmate per il mese di maggio 2019.

Nei mesi scorsi si erano già mosse sia la premier britannica Theresa May che il governo della First minister scozzese, Nicola Sturgeon, per introdurre simili stop alla plastica usa e getta.  

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[1] Recentissimo è il caso di un globicefalo — detto anche balena pilota — morto venerdì 1 giugno in Thailandia. Come riferisce il Daily Mail, nello stomaco dello sfortunato animale i veterinari hanno scoperto oltre 80 buste di plastica, con un peso complessivo di circa 8 kg.