Pubblichiamo in anteprima un’anticipazione del nuovo libro di don Luigi Maria Epicoco “Telemaco non si sbagliava” (San Paolo edizioni) che uscirà in libreria sabato 9 giugno
Israele/Giuseppe (o della Predilezione)
Se Isacco è il figlio per eccellenza perché è il figlio della promessa, la personificazione dell’attesa, Giuseppe rappresenta un altro tipo di figlio, o forse sarebbe più giusto dire un’altra caratteristica del figlio.
Da una parte Isacco con l’esperienza dell’unicità: Abramo si accorge dell’unicità del figlio attraverso un dramma personale. Egli lascia essere il figlio libero nella sua unicità, libero di essere completamente diverso dalle sue aspettative. Sacrifica l’immagine che si è costruita del figlio, affinché il figlio possa esistere nella sua vera realtà e unicità. Questo a ricordarci che la prima e vera grande carità che si può fare nei confronti della giovinezza, delle nuove generazioni, della gioventù è quella di lasciargli la libertà di esprimere la propria unicità. Di non essere cioè semplicemente la realizzazione delle nostre attese. Di non portarsi sulle spalle la nostra eredità che attende di essere compiuta. Lasciare che siano radicalmente diversi da noi, e ciò non significa che saranno migliori o peggiori, ma certamente diversi da ciò che noi siamo.
Dall’altra parte la storia di Giuseppe aggiunge, come dicevamo prima, un nuovo tassello alla nostra riflessione perché la vicenda di Giuseppe è la scoperta della predilezione. Se da una parte c’è l’unicità di Isacco, Giuseppe rappresenta il prediletto.
Leggendo il racconto biblico ci si accorge immediatamente che è forse proprio a causa della predilezione che il padre Israele ha nei confronti di Giuseppe che si viene a creare quella tensione che tira fuori l’omicida nascosto nel cuore dei fratelli.
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La Bibbia stessa si apre con un racconto molto simile: Caino che uccide Abele perché in cuor suo pensa e sente che Abele è prediletto, che è il preferito rispetto a lui. La Bibbia dall’Antico al Nuovo Testamento è attraversata da storie di fratelli che tirano fuori il peggio di loro. Storie di fratelli che si ritrovano divisi e a combattere a causa della predilezione. A causa di una giustizia che non si manifesta come una giustizia nell’amore.
Il problema fondamentale dell’amore è che quando noi ne invochiamo una giustizia, invochiamo qualcosa che entra in assoluta contraddizione con la definizione di amore stesso. Quando si ama e quando si è amati ci risulta insopportabile sentirci uguali agli altri. Noi vogliamo sentirci sempre unici, speciali, preferiti agli occhi di chi ci sta amando. Anzi dovremmo quasi dire che l’amore è l’esperienza della preferenza, cioè del sentirci preferiti rispetto a tutto il resto. Quando si vive l’amore, quando si sperimenta l’amore, si sperimenta il fatto che una cosa non vale l’altra. Che ci sono delle cose che valgono e cose che non valgono. Il problema però è esattamente qui, perché se malauguratamente non si fa esperienza di questa predilezione, di questa preferenza, di questo sentirsi speciali agli occhi di qualcuno che ci ama, scatta dentro di noi un meccanismo omicida, una logica perversa di eliminazione dell’altro. L’odio che tante volte tiriamo fuori da ciascuno di noi è provocato per la maggior parte delle volte da questo vuoto di amore, cioè da una mancanza di preferenzialità. Dal fatto che noi non ci sentiamo prediletti, speciali agli occhi di qualcuno. Così la vita viene vissuta in maniera invidiosa. Si comincia a spiare la vita degli altri, si comincia a paragonare la propria vita con quella degli altri e ci si accorge, di paragone in paragone, come l’amore abbia creato un’ingiustizia di cui noi siamo delle vittime.
Qual è la colpa di Giuseppe? È la colpa di essere agli occhi dei fratelli più amato rispetto a loro: prediletto. E il segno della predilezione si fa visibile attraverso il dono di una tunica. Non ci interessa stabilire, in questa nostra riflessione, se il padre di questo racconto è un padre giusto o meno secondo una logica di diritto. Il problema è un altro. Un uomo finché non si sente prediletto può trovare rifugio soltanto nel branco. I fratelli di Giuseppe sono un branco, trovano la loro forza in una compagnia che tira fuori il peggio di ciascuno di loro. Ma questa compagnia diventa anche il loro scudo, la loro forza, la loro prepotenza. E il loro essere degli omicidi prende forza esattamente nel loro stare in un branco.
Tante volte sfogliando i giornali o ascoltando le notizie di cronaca nera si fa riferimento alla logica del branco che tocca non soltanto uomini adulti ma soprattutto giovani e adolescenti e in alcuni casi delle vere e proprie baby gang. Credo che una chiave di lettura di questo fenomeno sia riconducibile ad una seria mancanza di predilezione.
Questo ovviamente non giustifica le azioni di questi gruppi, ma li inquadra in una logica che è completamente diversa. Non è il degrado sociale a far nascere questo tipo di esperienze ma è esattamente il degrado educativo. La mancanza di un’educazione, di un’esperienza dell’amore che sia abbastanza significativa da rendere le persone capaci di stare insieme senza mai trasformare il loro stare insieme in un branco. Perché nella logica del branco ciò che fa da collante molto spesso è la rabbia, il risentimento, l’esperienza frustrante di una debolezza, di una marginalità, di un sentirsi fuori da un circuito normale.
Le prove di forza o di spocchioneria risiedono in una forma di esorcismo della realtà. Gli altri, quelli che noi consideriamo i normali, la vita di ogni giorno, la quotidianità, il mondo del prossimo, il mondo a colori fa paura e proprio per questo deve essere esorcizzato attraverso delle prove di forza, attraverso degli atteggiamenti che devono mettere in discussione quella normalità. Mettere a dura prova questo mondo che fondamentalmente lo si odia perché ci ha esclusi. La verità è che tutto l’odio che i fratelli di Giuseppe manifestano nei suoi confronti è odio nei confronti del padre. Ma si sentono inibiti nell’odiare il padre. Si sentono incapaci di poter far del male al padre, e così simbolizzano tutta la loro frustrazione, tutto il loro odio nei confronti di Giuseppe. Giuseppe diventa così, in chiave simbolica, l’espressione della loro rabbia nei confronti del padre che non ha donato loro nessuna preferenza, che non ha dato loro nessuna tunica.
La vera domanda però sta in una faccenda molto più semplice e molto più pratica: come si fa a far fare l’esperienza della preferenzialità?