Ci sono questioni che possono alleviarci dallo sforzo superfluo che abbiamo tollerato fin troppo nella vita
Quanto siete bravi a preoccuparvi? Vi lasciate andare alle preoccupazioni solo di tanto in tanto o siete, come si definisce un mio amico, “un preoccupato a livello olimpionico, che si dedica al perfezionamento dell’arte di preoccuparsi”?
Si può praticare la preoccupazione in modo sicuro? Preoccuparsi offre qualche ricompensa? Quanto costa un impegno duraturo con la preoccupazione? E vale la pena?
In questa terza parte sulla “sindrome da affaticamento spirituale cronico” (potete trovare la prima e la seconda parte qui e qui), considereremo la preoccupazione come fattore che contribuisce in modo significativo al nostro affaticamento spirituale e come sintomo di una scarsa pratica di discernimento spirituale.

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Che ci preoccupiamo del passato (“Come ho potuto commettere un peccato così terribile?”) o del futuro (“I miei figli torneranno mai alla fede?”), allontaniamo la nostra attenzione da Dio nel presente, in cui la provvidenza, la grazia e la chiamata ci vengono sempre offerte.
Di fronte a queste domande sul passato e sul futuro, per le quali umanamente non c’è risposta, verremo inevitabilmente invasi dalla preoccupazione, che ci provoca un dolore superfluo, ci allontana dai doveri e dalle benedizioni del momento presente e, cosa peggiore di tutte, ci intrappola in un’impasse di isolamento e disperazione. Non può certo essere quello che Dio vuole per noi!
Cosa dovremmo fare? C’è una storia popolare tra gli oratori motivazionali (se ne può vedere una versione