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Cosa ordina tutti i miei desideri?

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padre Carlos Padilla - pubblicato il 10/05/18

Sentimenti passeggeri, fragili, contraddittori... si possono integrare in un amore profondo ed eterno

A volte mi fa paura pensare che la parola “amore” sia solo un’idea con cui mi riempio la bocca. Dico di amare, e per tutta la vita. Dico che amo molto e molti.

Tanti amici su Facebook, Instagram, le reti sociali… Ma sono solo amicizie apparenti. Restano in superficie. Forse esagero parlando d’amore e sono solo parole. O sentimenti che passano.

Può essere che quello che provo sia passeggero. Spesso mi confondo. Sentimenti che sembrano quasi contrari. Filie e fobie che si annidano nella mia anima.

Dicono, ho letto, che “l’insieme dei desideri non si può ordinare e mettere al proprio posto se non mediante l’amore. Solo un amore vero ordina i desideri. E se la maggior parte delle persone, per non dire praticamente tutte, soffre per desideri che ritiene ‘disordinati’, è perché siamo esseri più o meno feriti, invalidi dell’amore” [1].

I miei desideri sono disordinati. I miei affetti. Le mie paure e le mie passioni. La mia bocca si riempie di parole altisonanti, di promesse eterne che enuncio davanti a Dio e agli uomini in ginocchio. Sono parole. Non so se toccano la mia carne.

E nel frattempo convivo con desideri contrapposti. Dico “amore” volendo dire tutto. Voglio le cose più grandi, più sublimi, più eccelse. Ma il mio amore non è profondo come credo.

Il desiderio da solo non è amore, ma l’amore ha desiderio, un desiderio profondo e vero. E il mio più grande desiderio è sempre il desiderio di infinito. Voglio che ciò che amo duri per tutta l’eternità.

E se non dura che sia almeno talmente profondo da cambiarmi dentro. Sono certo che l’amore che non mi cambia dentro non è amore vero. È solo un sentimento passeggero che non resta per sempre. O è solo una parola fragile come una foglia portata dal vento.

O il mio desiderio ha a che vedere con la carne. Con qualcosa di momentaneo. Con un disordine provocato dalla mia ferita d’amore, di solitudine, di vuoto. Per la mia storia di fallimenti. Per non essermi sentito amato come volevo. Come la mia anima desiderava. Per non aver amato nessuno con tutta la mia anima, con tutta la mia carne.

E quando l’ho provato, e quando ci sono riuscito, si annida in me il desiderio di ciò che è eterno. E soffro per il dolore di non vivere sempre lo stesso, con la stessa intensità, ogni giorno della mia vita. Senza pause.

E quindi parlare d’amore non mi basta. Le mie parole possono esprimere solo goffamente il mio anelito all’infinito. A un amore più grande di me stesso. Forse sperimento in me la povertà della mia vita. La goffaggine della mia carne.

Diceva padre Josef Kentenich: “Non abbiamo forse ragione ad affermare che l’uomo moderno conduce una vita da topo, una vita da rana, una vita da uccello migratore? Sta troppo poco a casa sua, sempre mentalmente in viaggio, sempre in cammino” [2].

A volte vedo che non ho pace dentro di me. Sono in viaggio. In cammino ma senza andare da nessuna parte. Inquieto come un uccello migratore. Cerco una casa.

Voglio che Gesù mi insegni ad amare. Non voglio vivere come un topo. Voglio imparare ad amare davvero. Ad amare profondamente, con radici. Con santa pazienza.

[1] Giovanni Cucci SJ, La forza dalla debolezza
[2] J. Kentenich, Le fonti della gioia sacerdotale

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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