La morte di Alfie, il suo lungo calvario, il dolore e il coraggio di chi lo ha difeso. La ferocia di un sistema che lo ha tenuto ostaggio fino alla fine. Una inesausta sete di giustizia e lo strazio di non aver salvato quell'Agnellino. Tutto continua ad interrogarci e non ci vogliamo sottrarre. Solo in Cristo e nel sangue dell'Agnello che rende puri tutto si ricompone
di Gabriele Marconi
Questo brano fu scritto per la prima volta quando l’iter giudiziario di Charlie Gard si apprestava all’epilogo apparente, poi ritardato di oltre un mese. Mi accorsi di aver modellato il testo – con scarsi risultati – sui Misteri di Charles Péguy solo dopo averlo diffuso. Oggi (appena variato) come allora, affido a questo breve testo la voce del mio dolore.
Quand’io morirò, pretenderò,
in quell’istante eterno,
di essere interrogato su Charlie.
Su Isaiah.
Su Alfie.
Mi chiederà perché non ho avuto il cuore
di spargere sangue in sua difesa,
perché non ho preso un biglietto aereo
e preso, preso in ostaggio l’ospedale.
Perché non ho agito
come avrei agito per qualsiasi bambino insidiato da una minaccia affilata o sulfurea.
Ed io risponderò che sapevo,
che sapevo che tutto era degno della sua vita
e che per quanto lo sapevo,
ho rinunciato alla mia umanità.
Io che ogni giorno gridavo il mio disprezzo
il mio disprezzo per chi l’aveva saccheggiata,
io che lo sapevo,
che sapevo che il problema non è stato aver abbandonato la cristianità,
ma averne voluta una senza l’Uomo,
che il rinnegamento di Cristo era solo la sua conseguenza,
io che lo sapevo.
Che sapevo,
non come i censori che non sapevano,
non come i procuratori che non sapevano,
non come i medici
spergiuri dell’alba civile,
spergiuri di ogni loro giorno,
spergiuri boia,
spergiuri carnefici,
che non sapevano
e l’hanno messo a morte,
non come coloro che vivono nella menzogna.
Io che sapevo più di censori,
procuratori e boia,
che sapevo che il bimbo era come Cristo,
spezzato nel suo respiro,
pietrificato nei suoi muscoli,
con la madre al suo cospetto,
quella madre spezzata dal suo respiro spezzato,
che stette come solo una madre sta,
respirando anche per il suo bambino che non respira,
con il padre ai suoi piedi,
sgretolato dai suoi muscoli pietrificati,
muto come solo un padre può tacere,
gridava come solo un padre può gridare,
stringendo i pugni per i suoi piccoli palmi che più si sarebbero chiusi,
con il padre che Cristo non aveva avuto ai piedi della Croce
e la madre che aveva sofferto con lui,
eternamente sofferto,
nel mio eterno istante dirò che lo sapevo.
Sapevo che il bimbo era stato a messo a morte come Cristo,
che come Cristo chiedeva da bere
e lo schernirono,
che come Cristo annaspava il respiro
e glielo tolsero,
sapevo che il bimbo compiva nelle sue carni,
nei suoi muscoli e nel suo respiro,
le mancanze dei Suoi patimenti
e che io non impugnai la spada,
fui pavido, quasi ad aver vergogna,
vergogna di poter essere rimproverato per averla estratta,
come scusa per non estrarla,
per non difenderlo,
vergogna della mia umanità,
dell’umanità che Cristo ha amato in me
fino alla morte di Croce.
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