Non è ancora terminata la vicenda terrena, umana e giudiziaria del ragazzino disabile la cui vita era stata definita “futile” dal giudice che l’ha condannato a morte e che invece muove diplomazie e cuori al punto che anche noi siamo venuti nel Regno Unito per offrirvi un’informazione pulita. Ecco il racconto di quest’estenuante e gloriosa nottata.dal nostro inviato a Liverpool
Albeggia, qui a Liverpool, e termina una notte che temevamo sarebbe stata assai più chioccia: come ieri mattina ci eravamo svegliati col terrore di veder uccidere un bimbo disabile, così ieri sera siamo andati a dormire (per così dire) angosciati dall’idea di risvegliarci con la notizia della morte di Alfie Evans, per il quale nella giornata di ieri si erano spesi i più mirabolanti miracoli della diplomazia e della politica.
Alfie invece vive, e per tutta la notte ho visto entrare e uscire dalla sua stanza i suoi genitori, provati da innumerevoli ore di veglia e dal nervosismo dato dal sapere il proprio figlio al centro di un’accanita volontà di morte; però relativamente distesi, fiduciosi, a tratti perfino sorridenti. «Alfie vive, Alfie combatte», dicevano Tom e Kate, con padre Gabriel che li accompagnava a passo fedele e discreto.
A Roma avevo scollegato il cellulare, durante il decollo, riuscendo appena a leggere che Mr. Justice Hayden aveva ordinato l’estubazione immediata del piccolo, e nel volo m’aveva preso una tristezza profonda. All’atterraggio il groppo alla gola: «Alfie respira da solo da due ore». Quindi non vado in albergo, perché Alfie non riposa e neanche noi riposiamo, secondo il paradigma offerto a tutto l’Alfie’s Army dai suoi genitori: vado all’Alder Hey Children Hospital.
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La prima impressione lì è sconfortante: pochi palloncini lilla e azzurri (i colori dell’esercito del piccolo) scodinzolano svogliatamente attaccati ai pali, il prato festoso che m’ero immaginato non c’era, ma al suo posto c’erano 12° C nell’aria e neanche il doppio delle persone a “manifestare” (ossia semplicemente a stare lì, un po’ in silenzio e un po’ parlottando). A questo s’era ridotto il Charlie’s Army: una ventina di persone inermi e ostinate, che sfidavano la notte e il freddo (poi vidi che alcuni se ne stavano a vegliare nelle automobili parcheggiate lungo il viale d’ingresso) senza prendere altre iniziative.
Istintivamente mi sono avvicinato a quelle persone, ed esse a me: «Da dove viene?». «Dall’Italia». «Dall’Italia adesso? Proprio adesso? Apposta per Alfie?». E quel lumicino smorto della coscienza d’Inghilterra si ravvivava:
L’Italia ama molto Alfie, è vero! Lo sappiamo, lo sentiamo! Oggi gli avete dato anche la vostra cittadinanza!
E aggiungevano:
Ma le sembra giusto quello che si sta facendo qui? Questa cosa crudele, brutta… su un bambino!
No, certo, rispondevo: non mi sembrava giusta, e anzi mi commoveva che questo sparuto drappello di silenziosi dimostranti ripetesse anche a me, che certamente sapevano essere d’accordo con loro, le parole che anche nell’impotenza scandiscono la libertà e la trascendenza dell’uomo davanti al male – “non è giusto”!
Andavano a dirlo anche alle guardie, con un fare mite e insistente:
Ma vi rendete conto che qui si sta perpetrando un omicidio, e un omicidio della peggior specie? Un crimine orrendo!
E la guardia (che poi era una ufficiale), seraficamente:
Questo non possiamo dirlo, perché quanto avviene qui è richiesto dalla Corte.
Le assonanze con i criminali di guerra processati a Norimberga e a Gerusalemme sono evidenti, ma soprattutto mi colpiva l’autoreferenzialità di questo potere autarchico che della monarchia sembra aver conservato solo il peggior dispotismo (oltre alla “scenografia”). Stanotte ho avuto l’impressione di vivere in uno stato di polizia, non in uno stato di diritto: sarà che la presenza di decine e decine di poliziotti in un ospedale pediatrico è di per sé strana; sarà che quella presenza era evidentemente volta a impedire dall’azione chi vuole il bene del bambino e a favorire chi sta esplicitamente tentando di ucciderlo; sarà che comunque ero straniero in un Paese non mio… ma per lunghe ore ho coltivato la sensazione kafkiana di essere io il criminale.
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A riportarmi alla realtà, strappandomi peraltro a quel facile manicheismo di “noi” contro “loro”, ci hanno pensato i parenti di Tom e Kate, con i quali ho condiviso la nottata, oltre al già menzionato Alfie’s Army: quando ormai con un po’ di furbizia e un po’ di strafottenza ero già entrato nell’ospedale (ah, mi avevano tenuto fuori proprio perché mi ero presentato come giornalista…) vedevo una signora in sedia a rotelle, lì in mezzo a quell’altra ventina di miti prodi. La indicavo a un’altra compagna della nottata e mi sentivo rispondere: «Sì, lei sta qui tutte le notti». E uno può tornare a sentirsi amico di questo popolo che oggi ci appare incomprensibile e per molti aspetti criminale: non ogni coscienza è spenta, per quanto le risposte dei poliziotti paressero tutte invariabilmente tratte da un romanzo distopico. E a fine nottata avrei visto una parente di Tom addormentarsi sulla poltroncina davanti alla mia con il rosario tra le mani… Abbiamo pregato insieme a più riprese, nel corso della notte, e quando all’alba la signora se n’è andata ha mandato una benedizione al piccolo. Sarà difficile che i poliziotti l’abbiano intercettata e bloccata. E sì che ce ne sono in media quattro nel solo corridoio blindato, quello che separa la stanza della “terapia” di Alfie dalla sala d’attesa dove sono io; nella hall a mezzanotte ne ho potuti contare diciassette, ma complessivamente penso di aver visto grossomodo una quarantina di poliziotti impegnati a garantire che un ospedale pediatrico potesse sopprimere un bambino disabile. C’è del surreale – a dir poco.
Il paradosso prevale sul surreale
Ma il paradosso sembra ancora prevalere sul surrealismo: Alfie non è morto, e le sue condizioni non sono neppure critiche, bensì stabili. Ci sono con lui la mamma Kate, il papà Thomas e quel padre Gabriel che gli aveva conferito la forza del sacramento dell’Unzione pochi giorni fa. Stanotte la madre lo ha messo sul suo petto, pelle a pelle, per dargli forza, e ci dicono che il piccolo desse segni di sollievo.
Come si spiega? Non doveva morire? Ecco, a parte il sostegno mistico dei sacramenti e delle preghiere («Pace che il mondo irride – scriveva Manzoni – ma che rapir non può») c’è da dire che il padre di Alfie aveva visto giusto nel diffidare l’ospedale dall’usare il Fentanyl: «Lo usano per i condannati a morte!», aveva tuonato Thomas Evans, ma la cronaca c’insegna che “funziona bene” anche con le celebrità. Prince, Michael Jackson e Dolores o’ Riordan se ne sono andati così. «Voi non drogherete a morte mio figlio – ha quindi scandito Tom – perché questo è illegale nel Regno Unito».
E così Alfie non è stato drogato, e di conseguenza non è morto. Dispiace sapere che in questi minuti un raffazzonato servizio televisivo ammannisca sul principale contenitore mattutino dell’Ammiraglia Rai un ginepraio di approssimazioni e di inesattezze. Stanotte eravamo davvero pochi, all’Alder Hay, ma vi garantisco che neppure un collega della Rai ha fatto capolino tra queste mura. Sarebbe bene ricordare al servizio pubblico radiotelevisivo che non solo Alfie ha un popolo in Italia, ma che da ieri Alfie Evans fa ufficialmente (benché ancora imperfettamente) parte del popolo italiano. Ancora ieri sera Papa Francesco incoraggiava la soluzione armoniosa e felice del brutto stallo in cui il piccolo viene conteso. Tanta complessità e tanta delicatezza avrebbero meritato migliore giudizio e migliore informazione.
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Tra meno di un’ora i dettagli di questa notte verranno esposti e presentati al giudice, e vedremo se la prateria di miracoli che sta sbocciando frantumerà il suo cuore o no.
Ma per fortuna di tutte queste piccole miserie Alfie non è avvertito: solo questo sa, il piccolo – che i suoi genitori sono con lui e che lo difenderanno sempre, con ogni mezzo e davanti a chiunque. Allo stesso modo Tom e Kate, da parte loro, sanno che Alfie è vivo e combatte. E se Alfie è vivo e combatte anche loro, che sono vivi, combattono.
Si chiama “famiglia”.